Let it go… intervista a Flavia Bigi

La galleria Vanessa Quang di Parigi ha ospitato una personale di Flavia Bigi dal titolo Let it go, a cura di Francesca Napoli.
L’artista ha scelto per questa esposizione un percorso ricco e caratterizzato da un linguaggio espressivo assolutamente vario, che mette i visitatori a confronto con video, installazioni, disegni ed oggetti-scultura. Comune denominatore nelle opere è l’introspezione di ogni essere umano, specchio della contemporaneità; introspezione che avviene anche attraverso l’arte vista come vero e proprio strumento cognitivo di cui servirsi per le proprie esperienze sensoriali.
La curatrice  fornisce, nel suo testo critico, una chiara lettura della mostra descrivendo il percorso espositivo come “l’esplorazione del sé tra gioco, caso e vertigine”.
Dal 27 giugno al 31 agosto 2013 la mostra Let it go sarà ospitata dal Museum of Art di Zilina, in Slovacchia.
Ecco come risponde Flavia Bigi alla richiesta di maggiori dettagli sul suo percorso artistico e su questa mostra parigina:

Il cursore diretto sulle immagini visualizzerà le didascalie; cliccare sulle stesse per ingrandire.


Come nasce Let it go?

Let it go nasce da una riflessione sull’autoriconoscimento in quanto entità individuale, affiancata dalla necessità di individuare delle strategie di sopravvivenza in un mondo divaricato tra principi e realtà sia a livello personale che a livello sociale.
C’è una spaccatura incolmabile tra ciò che siamo, ciò che tendiamo ad essere e quello che, invece, vorrebbe da noi la società.
Una situazione manichea del buono e del cattivo non può più esistere al momento attuale, quando noi stessi siamo il risultato di incoerenze e fragilità proprie ed altrui. Il peso degli altri sulla formazione del carattere fin dall’infanzia diventa una catena di principi diversi e stranieri alla persona. Il bambino (come sottolineo nelle foto ADA e nel video THE CHAINE ) sa chi è fin da piccolo e, all’improvviso, dopo varie stratificazioni culturali si rende conto in età più o meno adulta che le varie « istruzioni » sono solo orpelli di cui disfarsi per costruire il proprio io. Il recupero del pensiero libero, leggero e scevro da legami e dogmi sta al centro della mia ricerca.”

E’ la tua prima personale a Parigi? Quale percorso ti ha portata a questa mostra?

“Dopo un percorso più o meno atipico, per lo più da autodidatta, sono entrata in contatto con personalità artistiche e insegnanti di varie nazionalità e disparate formazioni, prendendo lezioni e formando il mio curriculum secondo le mie attitudini; ho poi conseguito un master alla New York University, dove sono entrata con la specializzazione in pittura e uscita con una tesi in video arte con Peter Campus.
Nel 2005 mi sono trasferita a Parigi dove ho incontrato la Gallerista Vanessa Quang con cui espongo regolarmente dal 2006. Data la disparità di sollecitazioni che avevo nel mio bagaglio ho avuto bisogno di un po’ di tempo per riunire quei pensieri che si affollavano nella mia mente per poter poi giungere all’ attuale produzione.
Alcuni lavori già realizzati nel 2010, come Intimate Relationship, mi hanno inseguito e allo stesso tempo guidato nel percorso di pulitura di una serie di input, fino a fare parte della collezione attualmente presentata.
I disegni (lost scenes) sono una rivisitazione dello stesso concetto 3 anni dopo, ed il fatto che fossero ancora latenti significa per me che la mia ricerca aveva ancora delle cose da esprimere e che non si era già esaurita nel video.”

Questa mostra abbraccia tecniche molto diverse tra loro, dal disegno alla scultura, dal video all’installazione. Quale tra questi linguaggi ti aiuta ad esprimere meglio la tua ricerca?

“Sono una persona che viene spesso definita poliedrica, iper-stimolata da viaggi ed esperienze diverse in paesi diversi dove si parlano lingue diverse. E come tutti sanno ogni lingua ha le sue sfaccettature che rendono molte parole intraducibili in altre culture, in quanto sono simboli di un retaggio culturale. Mi viene spesso in mente l’espressione « allargare le parole » che per me significa dare spazio alle pieghe del tessuto linguistico che non si vedono in superficie, perché nascondono secoli di stratificazioni di esperienze ed emozioni, spesso tralasciate e più o meno volutamente trascurate. Ebbene, ogni mio lavoro credo risenta di questa vibrazione, della voglia di allargamento del significato, dipanazione di un tessuto comunicativo infeltrito. Per questo, alla spontaneità del disegno che tradisce forse un’attitudine dadaistica della vita, mi piace affiancare la tecnica dell’incisione iniziata su zinco e qui presentata su vetro e su marmo, traccia che rompe la materia e la scava per sempre.
Carousel scaturisce da una serie di immagini raccolte da varie pubblicazioni e combinate tra loro come un cruciverba, un gioco da risolvere, la giustapposizione di dramma e ironia, di quelle vicissitudini che ci parlano nella vita di tutti i giorni e che spesso accantoniamo ma che riescono a parlare se collegate tra di loro, come le persone. I profili delle teste su cui ho inciso sono anch’essi ricalcati da immagini di persone comuni che affollano il nostro spazio visivo nelle letture quotidiane.
In Dice play, invece, l’incisione ha per me valore di gesto artistico e rivendicativo. Le coppie di dadi hanno un significato dialettico: funzionano in coppia come il gioco dei dadi in cui uno è stato volontariamente fatto incidere dall’artigiano che ha lavorato il marmo, materiale architettonico fedele perché non cambia nel tempo.
Le parole incise su uno dei dadi si riferiscono al corpo sociale, sono scritte in latino, lingua classica, (LEX, FAMILIA, CULTURA, RELIGIO, SORS, NATURA) e incise profondamente nella materia per secoli. L’altro dado rappresenta invece il corpo individuale, ciò che ciascuno di noi dovrebbe chiedere a se stesso, come primo passo per la costruzione del proprio ambiente interiore, con assunzione di responsabilità; in questo caso le scritte prendono la forma di graffiti, linguaggio della rivendicazione per eccellenza (CONSCIENTIA, ARMONIA, POSSIBILITAS, FIDES, TERRITORIUM). In questo dado un lato è volontariamente lasciato vergine, perché il fruitore possa esercitare il libero arbitrium, scegliendo come riempirlo a proprio piacimento e creando il destino di se stesso. Allo stesso tempo la vuotezza dei principi portati avanti dalle istituzioni tradizionali richiede un oggetto filosofico vero e solido che solo l’individuo può riempire.”

Nei tuoi lavori è sempre evidente la necessità di coinvolgere il pubblico. Cosa ricevi in cambio dai visitatori ai quali offri questa interattività?

“Credo che il lavoro più interattivo sia quello che apre tutta l’esposizione, ovvero il video One moment of silence please, che ho girato una sera in un luna park, quando intorno a me musica, suoni, urla e risate riempivano lo spazio sonoro della giostra che girava dantescamente.
In questo lavoro, che è più una riflessione, un pensiero, una voce, per 6 minuti delle persone volteggiano incessantemente su di una giostra, sospese su delle altalene nel buio. Su di un lato una luce illumina solo coloro che si avvicinano metaforicamente alla sorgente, alla spiritualità, al proprio scopo nella vita, sfiorandolo, senza mai riuscire né a fermarsi né a toccarlo veramente.
Il brano musicale di Francesco Giammusso, Pathos, stranamente già al montaggio aveva la stessa dinamica delle immagini in movimento e le accompagna per 5 minuti. L’ultimo minuto trascorre invece in silenzio, quel silenzio mentale che vorrei fosse riempito dai pensieri dei visitatori, a completare la mia proposta.
Penso che i miei lavori siano spesso interattivi perché credo che solo nel dialogo e nella comunicazione con se stessi e con gli altri -che poi scaturisce dalla stessa esigenza- ci sia spazio per un’evoluzione che nasce dalla mediazione tra intelletto ed emozione, tra l’accettazione delle nostre paure e delle nostre forze, dalla contemplazione del bello e la trasformazione del brutto, nel significato greco del termine, che con bello e brutto indicava buono e cattivo, quando l’estetica e lo spazio interno individuale coincidevano, per il bene dell’uomo e della società, in un’unico contesto e non separatamente.
Ma Let it go vuole anche essere un’attitudine, se cosi si può dire, a prendere la vita come un gioco, come la giostra del luna park, come l’alea dei dadi, come la catena trovata sulla spiaggia con cui si divertono dei bambini, come la fantasia di cappuccetto rosso di mangiarsi il lupo.

Flavia Bigi nasce a Siena, compie studi classici e si laurea in giurisprudenza. Presto si appassiona al mondo dell’arte frequentando corsi di pittura e composizione ed esponendo in varie collettive e personali. Frequenta la IAA Rufa di Roma con il maestro Tullio De Franco e, in seguito, si trasferisce a New York dove, dopo un Master alla New York University, si laurea in New Media. Dopo un workshop di pittura con James Rosenquit, si trasferisce a Parigi e partecipa a numerose fiere internazionali.
La particolarità del lavoro della Bigi è la continua ricerca, attraverso l’uso dei vari medium (disegno, pittura, video, scultura e installazioni), rivolta alla decodifica delle molteplici sfaccettature dello stesso soggetto. Il suo interesse è rivolto principalmente alla relazione tra contesto individuale e realtà collettiva urbana esaminata soprattutto in concomitanza dei cambiamenti e delle interazioni che l’ambiente esercita sul singolo.
L’artista ha preso parte a numerose fiere d’arte contemporanea a Basilea, New York, Miami, Parigi, Praga, Venezia, Torino e Bolzano. Attualmente è rappresentata dalla galleria Vanessa Quang di Parigi e da Rosanna Musumeci Arte Contemporanea di Bruxelles.

 

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