La solitudine del maratoneta di Alan Sillitoe. Occasione perduta per un adattamento di avanguardia culturale

In una società soffocante ed oppressiva, in cui il fastidio della folla ovunque, si sta facendo sempre più evidente, l’informazione collettiva sempre più invadente ed i luoghi comuni una costante, la parola solitudine diventa sollievo, leggerezza, fuga. E quale miglior esempio di questa evidente attuale dicromia folla-solitudine è oggi la maratona, le tante maratone che attraversano il globo, dalle più note fino a quelle dei più piccoli paesi della terra.

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La maratona in cui si parte in decine, centinaia, migliaia, ma poi ognuno è solo e solitario nella sua corsa e nei suoi pensieri e nello scorrere del tempo riacquista, attraverso un meccanismo di percezione cognitiva, le sue sensazioni, le sue emozioni ed attraverso queste rivive finalmente quello che lo circonda in una dimensione rinnovata e non logorata. La semplice respirazione, il ritmo fisico che accompagnano la corsa cullano il pensiero e lo portano verso quel sentimento di grande pace, che è nella speranza di ogni essere vivente, immerso invece in una società frenetica e nevrotica.

Prima di andare a vedere lo spettacolo La solitudine del maratoneta (che Alan Sillitoe scrisse nel 1959) al Teatro Argot con la regia di Nicola Pistoia, ho calzato le vecchie arcinote e contestate Nike e sono andato a correre, anche per raccontare nel web creato dallo stesso regista La mia solitudine le mie sensazioni nella corsa. Con queste premesse sono andato a La solitudine del maratoneta.

Nella rappresentazione classicheggiante e datata, Colin Smith un uomo elegante in scena, racconta la sua vita da giovane teppista, in riformatorio, mentre un alter ego in mutande lo rappresenta nelle sue corse. Perché il Direttore, essere abbietto e orrendo di fuori e di dentro, in questa prigione inglese sperimentale e rieducativa, vorrebbe fare di Colin Smith un maratoneta professionista.

Quello di cui si parla forse troppo in questa rappresentazione, in cui si intersecano i racconti dei due doppi e di una invadente sorella (la famiglia) sono le vite grame e squallide delle periferie, con un padre che si gioca tutto e muore ricco, una madre che si fa subito un’amante, e degli amici con i quali si compiono piccoli furti fino ad arrivare al carcere. Il momento della grande corsa, della maratona in cui l’interprete dovrebbe vincere per il Direttore, per il riscatto degli altri prigionieri e per orgoglio personale, in una solitudine da elegia, si trasforma invece solo in una rabbiosa contestazione delle turpi e strumentali aspirazioni degli altri.

E mentre, scambiandosi gli abiti, Alfredo Angelici (Colin Smith) si trasforma in Dimitri D’Urbano (se stesso) e viceversa, si narra la storia di piccoli furti passati e futuri, sempre in una logica da fuorilegge in fuga dalla polizia. In una apologia del vizio, del denaro, della degradazione e della libertà di fare di se stessi quello che aggrada, anche impiccarsi, come l’uomo visto da Colin da bambino ed impresso per lui come un esempio senza giustificazioni (perché? è la domanda, perché mi piace è la risposta). Innestando in questa storia retrò alcune tirate attuali contro il potere, come quella vieta sul governo che si elegge e poi non fa nulla per la gente perché segue altre regole (quelle del profitto). Altre parti poco giustificate nel contesto (attualizzazione ed universalità del concetto greve e ripetuto del delitto come modo di vita). Allora la maratona diventa solo il pretesto per contestare quella vittoria voluta solo dai suoi carcerieri. E la parola solitudine non è la parola giusta per un romanzo d’epoca, oggi diversa e piena di significati molteplici per i tanti maratoneti.

Per attualizzare culturalmente il concetto che Alan Sillitoi aveva espresso nel 1959, ed è ancora oggi valido, forse si doveva trovare il coraggio di parlare della lotta contro la omologazione dilagante, il pensiero collettivo sociale del successo e del denaro. Contro il pensiero comune dominante, per trovare una propria opinione sul senso della vita e la ricerca della felicità. E’ mancata invece la spiritualità, la raffinatezza del pensiero filtrato dall’aria nei polmoni, che va a nutrire, più che i terragni ricordi, la leggerezza dell’essere, che parla di nuovo con la natura e con quel se stesso naturale. Diventando erba e cielo e uccelli e fiumi e ghiaccio e freddo. Nella sua progressione vincente si libra nell’aria quasi volando sui sentieri rarefatti della fantasia, sulle ali del sogno del volo umano. E’ mancata soprattutto la poesia in una realizzazione teatrale, che attraverso il web è stata anche apprezzata da molti maratoneti. Perché ormai anche nella corsa prevalgono le ideologie e le dietrologie. Ormai nelle maratone manca quella buona, sana, antica solitudine che rendeva l’uomo più infantile, più pulito dentro ed il tempo (passato, presente, futuro), quel tempo che ormai ci opprime, si compattava in una sola sensazione, vivere come un’astrazione di se stessi, nell’aria nebbiosa dei primi mattini del mondo. Più sogno e meno realtà, meno cronaca nera fatta di furti e di pistole, di poliziotti alla Hitler, direttori di carcere dagli occhi acquosi a dalle pance enormi, di madri senza pudore, padri che si giocano tutto e colpi che fanno ricchi finché non tocca ricominciare.

Non è con il rifiuto di fare la nostra parte che si riesce ad essere liberi ma con quel ritmo sincopato che assume il nostro cuore quando pompa felicità alla materia cerebrale, senza neanche sapere se si va a vincere qualcosa né per chi o che cosa. La solitudine del maratoneta non è l’inutile atto negativo di rabbia verso la società, ma l’aspirazione ad un atto d’amore verso se stessi, fuori dalla folla e dalle convenzioni sociali. Bisogna avere il coraggio di continuare a riflettere sul problema delle carceri e dell’ambiente che fa l’uomo ladro, ma occorre anche adattare il problema della solitudine alle realtà emergenti nel momento particolare della nostra società, che è in un secolo diverso. Gli stessi interpreti giovanili che faticano a ‘sentire’ le storie ormai abusate di un vecchio mondo in cui non credono più, non possono poi trasmettere ‘sensazioni’ nella loro recitazione, che è sembrata inerte,convenzionale, come priva dell’ossigeno di una bella maratona.

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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