Ghitta Carell, una fotografa ritrovata. Con intervista a Diego Mormorio

Ma insomma, quante lastre ha prodotto, durante la sua vita, Ghitta Carell: 50mila, come in tanti ci dicono, o solo 3mila come sosteneva Ando Giladi? È stata davvero un’artista di Regime?

Il suo peccato fu rendere un ritratto del Potere del tempo oppure fu il ritocco, sapientemente volto alla resa della morbidezza, della bellezza del soggetto raffigurato ma da alcuni inteso come un virtuosismo alla moda e vezzo da art decò (Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Storia d’Italia. Annali 2. L’immagine fotografica 1845-1945, Einaudi, Torino 1976, vol. 1)?

Semplicemente, Ghitta Carell è stata altro, molto di più.

Nata il 20 settembre del 1899, in una famiglia ebrea, a Szatmar (Batmar), nella parte nordorientale del Paese e al confine con la Romania e l’Ucraina, diverrà italiana di adozione.

Intelligente ed erudita, con una lieve disabilità allora molto svantaggiante per una donna, Ghitta Carell ebbe un buon maestro in Aladár Székelu e seguì un corso di fotografia per signorine; studiò a Vienna e Lipsia, per approdare nel 1924 in Toscana dove frequentò il mondo artistico e intellettuale e ebbe a Firenze qualche primo successo, per poi spostarsi a Milano.

La celebrità la colse giovane e quasi per caso: grazie a una foto scattata nel 1926 a un bambino vestito da Balilla scelta per un manifesto di propaganda.

Si trasferì quindi a Roma dove nel 1928 avrà il suo atelier, prima in Via Oriani poi in Piazza del Popolo. Sarà lei l’osannata fotografa ritrattista che documenterà la storia di un’epoca attraverso i suoi protagonisti che accorrevano per farsi immortalare, come prova-provata del proprio censo, status sociale e valore.

Poco si è detto e scritto di corretto, della sua ricerca e della sua biografia, sovrapponendo questi due piani spesso, in una lettura approssimativa nella sua complessità e contribuendo, con una valutazione del suo lavoro molto ideologica e prevenuta, a sottostimarne il valore strettamente autoriale.

Un errore, questo – che peraltro ha colpito, diversamente, e sempre in Italia, anche i Futuristi, con una conseguenza come la dispersione all’estero e in collezioni private delle loro opere, corpus fotografico compreso – che Diego Mormorio ha cercato di sanare, a nostro avviso riuscendoci, grazie alle sue ricerche, alla mostra curata in quattro spazi dell’ex Pastificio Cerere agli Ausoni, galleria di Pino Casagrande e ristorante compresi, e a un magnifico libro-catalogo.

 

Come sostiene Mormorio:

“La fotografia era nel novero delle cose detestate da Charles Baudelaire. Nondimeno, possiamo esserne certi: l’autore dei Fiori del male avrebbe amato Ghitta Carell.”

Certamente, l’avrebbe ricordata tra gli autori importanti della Fotografia, dove spesso non è stata e non è menzionata…

 “Già in un volume tanto celebrato, comparso nel 1943 (Ermanno Federico Scopinich, Fotografia, Gruppo Editoriale Domus, Milano 1943) e che voleva essere la Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, Ghitta Carell non compariva. Ma non vi comparivano anche Eva Barett, Giulio Parasio e diversi altri fotografi di buon nome”,

La rassegna che Mormorio ha curato, piena di interessanti documenti e di qualche pubblicazione come “Carnet Mondain”, “Nozze giovanili etc., e di oltre 150 fotografie sicuramente è un tassello importante per una nuova considerazione di quest’autrice. Però, non ha esposto molti suoi lavori vintage. Peccato. A tal proposito Mormorio ci tiene a dire:

 “Sì, ma la mostra ha stimolato tantissime persone a mettersi in contatto con me per farmi vedere le foto di famiglia firmate proprio dalla Carrel; mai avrei pensato che si scatenasse questa corsa al recupero di questi preziosi materiali. Vedi, delle 50 mila negative che sappiamo esistere, rimangono alla 3M che ha acquistato il fondo della Carell solo le stampe a contatto di 2300. E’ necessario fare una serie indagine suelle tantissime fotografie originali della nostra autrice che si trovano, oltre che presso i collezionisti, in moltissime famiglie. Che questa mostra ha evidentemente stimolato, allertato.”

In molti casi, gli eredi degli album dei ricordi-per-immagini, essenzialmente anni Trenta e Quaranta, avevano sottovalutato l’importanza della foto della madre, del capofamiglia, dell’avo in divisa, dei tanti ritratti dei parenti di nobile casato firmate da questa donna talentuosa; oppure avevano tenuto gelosamente riposti tali cimeli per un riserbo che la mostra ha, evidentemente, scalfito in qualche maniera.

 “Sono foto originali, qualcuna un po’ deteriorata, ma tutte bellissime che hanno fornito, soprattutto, un’importantissima occasione di implementare il materiale prodotto dalla Carell, e quindi non solo di documenta la storia di un’epoca attraverso i suoi protagonisti, ma anche la ricerca di questa raffinata fotografa”.

In effetti, il suo linguaggio è estremamente interessante: riesce a cogliere e ad esaltare la bellezza e l’eleganza senza cadere nello stereotipata raffigurazione celebrativa e persino Pio 12° accetterà di essere modello delle sue foto, che fece da più angolature, negli anni ’40, compresa una, la più bella, di schiena: la sequenza doveva servire per realizzare un busto scultoreo di quello stesso papa che appena una manciata di anni dopo – il 13 agosto del 1943 – dopo il secondo bombardamento di Roma, sarà tra la folla nel quartiere San Lorenzo dov’è ubicata la mostra.

Anche il Cardinale Francis Joseph Spellman fu ritratto a fini scultorei: oltre alla sua foto, degli anni ’40, infatti, c’è quella dell’artista Corrado Vigni, che ne trasse il busto.

Abbiamo quindi donne alla moda, sempre sobriamente impeccabili, come l’altera Donna Florio, la Contessa Arrivabene (1934) dallo sguardo duro e un frustino che ci suggerisce il carattere da dominatrice di questa splendida signora; ma anche la principessa Maria Josè, fotografata negli anni 30 in tenuta da Crocerossina.

Gli anni, quegli anni, stavano infatti, volgendo al peggio, e dovremo attendere, per empio, gli anni Cinquanta per ritrovare pose più frivole – della principessa Giovannelli (1950) morbidamente adagiata su un divano – o disposte al sorriso pieno, come Adele Cambria, 1950.

Prima, anche Benito Mussolini fu eternato nelle sue foto e, come raccontò la stessa Carell, talmente vanesio da sottostare a parecchie sessioni di posa pur di avere i suoi servigi.

“Nelle pose di questa fragile gentile tenace signora, anche Mussolini abbandonò l’aria marziale. Assunse quella dolce e sorridente che il fascismo non aveva.”

Fu il Duce che, probabilmente, la protesse durante le infami Leggi razziali; a tal proposito, Mormorio puntualizza:

“Non si sa, non abbiamo documenti a tal proposito: può essere… ma lei era talmente nota e apprezzata dalla società di allora, da Principi, potenti e dalla borghesia che chiunque avrebbe potuto aiutarla; più probabilmente, scelse il basso-profilo, sparì della cronaca e dal successo…”

…successo che le spettava di diritto, anche dopo aver visto che la sua predilezione per i protagonisti del bel mondo, che, commissionando i suoi ritratti, sostenevano quindi il suo lavoro, non escludeva altri soggetti: anonimi e popolari come un pugile, o le due sorelle di Capri, che sembrano la riflessione dell’una in uno specchio, dalla vaga atmosfera preraffaellita.

 “Ho scoperto, su una pubblicazione dell’epoca (“Carnet Mondain”, n.d.R.) che nel 1931 lei chiedeva ben 300 Lire per uno Stampato in quattro copie uguali: una chiara indicazione, questa, che chi poteva permettersi un suo ritratto doveva necessariamente essere benestante ma non che l’autrice scegliesse obbligatoriamente di immortalare solo i potenti, dato che si era affidata a una rivista per pubblicizzarsi!”

Inoltre, abbiamo premesso, non fu fotografa solo della corte fascista:

“La stessa Marina Miraglia non ne colse la grandezza, fuorviata anch’essa da questo equivoco della fotografa di regime…”

Se non risulta un impegno antifascista della Carell, nemmeno ci fu una sua presa di distanza da una realtà che si fece via via più torbida e drammatica…

 “Mah, guarda però che abbiamo, tra i suoi ritratti, persone che erano agli antipodi del Fascismo: per esempio, tra i tanti, Cesare Pavese, oltre che, anni dopo, alcuni esponenti della D.C.”

Sfilano, infatti, nella sua lista di nomi, da Giovanni Gronchi ad Alcide De Gasperi, da Giuseppe Saragat a Giulio Andreotti, ad Adriano Olivetti, a Camilla Cederna alla quale era legata da grande amicizia. …

 “…quindi ribadiamolo: è una sciocchezza quella che ha visto inserire la Carell in quel contesto politico; ciò significa negare l’evidenza, con inspiegabile ignoranza o malafede. Certamente, avere una sua foto era un simbolo di un certo tipo di status, e la prima cosa che si metteva nelle case per testimoniarlo era proprio una foto della Carel, che portava anche, bene in vista, la sua firma. Le consolle di uffici e abitazioni nobiliari o borghesi recavano tutte un porta-ritratto che celebrasse l’importanza del committente…”.

Le sue foto erano e sono riconoscibilissime. La qualità estetica era ed è di peso, pur se non innovativa nel linguaggio, talvolta rasentando la rigidità delle mise-en-scène, Ghitta Carell era concentratissima nella scelta delle luci, nella calibrazione dei pieni e dei vuoti, nella costruzione compositiva delle sue immagini, giocate sulle linee, specialmente verticali e diagonali, che aumentavano nel soggetto una sua autorevolezza ed eleganza che si poteva percepire quasi sempre come naturale, senza sforzo: senza, cioè, che tutto apparisse indotto e monumentaleggiante, come certa ritrattistica celebrativa d’uopo in quegli anni.

Non solo: riusciva a immergere la rappresentazione di quel tanto di intellettuale che al Fascismo era estraneo ma che lei, invece, ricercava con estrema attenzione.

Forse, come pensava la Carell, le persone andavano a farsi fotografare da lei non tanto per apparire belle ma per vedere più la luce che l’ombra, come indica Mormorio nel suo testo in catalogo; inoltre, la fotografa, come facevano alcuni pionieri del settore, talvolta consigliava persino l’abbigliamento che il soggetto avrebbe dovuto indossare per farsi immortalare; componeva set che non sembravano, però, costruiti:

“Verissimo! Così come ai tempi della dagherrotia, quando quegli autori avevano un guardaroba da far scegliere ai committenti da ritrarre per renderli perfetti, anche la Carell interveniva su questi dettagli che dettagli poi, non erano e non sono…
Dopo tutti questi studi, le descrizioni e le scoperte indicate, come si fa a liquidare ancora come standard questo suo lavoro?”

Se guardiamo, per esempio, l’effigie del 1935 di Marcello Piacentini, il celebre architetto e urbanista, ritroviamo in piccoli dettagli – il soprabito inglese, i risvolti della giacca, il cappello – e nella sua disposizione nello spazio, quel richiamo alla sua progettualità classicheggiante-scenografica che rende il ritratto volutamente più retorico degli altri firmati dalla Carell. In altre circostanze traspare la dolcezza del rapporto tra una madre e una figlia, come nella foto alla Prof.ssa Bonifazio di Spagna.

“Sì, il suo talento era molto proprio nelle pose. Guardate i magnifici giochi di mani, che creano intrecci costruttivi nei quali cui si colgono quelli familiari e psicologici; e molto italiani.”

Ma fu con i ritocchi che la Carell divenne autrice provetta: era capace di ammorbidire ogni ombra, qualsiasi rigidità formale oltre che somatica, migliorando, laddove ritenesse opportuno, anche l’estetica del soggetto ritratto.

Se si osservano più da vicino, per esempio, la foto di Forges Davanzati (anni ‘40), si scoprono le luminescenze dei capelli tratteggiate dal bianco apposto sulla foto; così in altri casi, dove la manipolazione è meno evidente: nel primo piano di una splendente Palma Bucarelli, in quello di Valentina Cortese…; le correzioni non sono nemmeno tali ma appartengono al campo del suo linguaggio, della sua cifra stilistica, e sono sempre minime, accurate: rispondono a una scelta di necessità, di studio del bello non solo da applicare ai protagonisti dei suoi scatti ma più in generale all’impianto strutturale generale; insomma: nulla sembrano concedere a un certo estetismo compiaciuto del tempo.

“Ma certamente.
La resa ultima è raffinatissima; pensiamo anche e specialmente alla stampa, che curava personalmente, così come agli accurati interventi di perfezionamento, che faceva da sé per migliorare il risultato finale.

Nel mio saggio sulla Carell è indicato tutto e specifico anche come tale ritocco sia un elemento che ha fatto la sua comparsa già col primissimo procedimento di fotografia su carta, la calotipia o talbotipia, brevettato William Fox Talbot (1800-1877) nel febbraio del 1841 e cioè un anno e mezzo dopo la presentazione del primo sistema fotografico di uso pratico, la dagherrotipia, che come è noto, faceva uso di lastre di rame argentato, che erano copie uniche – vale a dire positivi diretti (come le moderne polaroid).

Nell’agosto di quel lontano 1841 Talbot concesse la prima licenza per l’uso della sua invenzione a Henry Collen (1797-1879), che era stato fin lì pittore, il quale aprì uno studio a Somerset Street, a Londra, usando come sala di posa un cortile coperto da un tetto di vetro. L’attività fotografica di Collen non ebbe alcuna fortuna. Egli non riuscì infatti a riscuotere lo stesso successo che avevano i ritrattisti che usavano la dagherrotipia, sicché nel 1844 tornò a fare il pittore. Della sua produzione di circa 650 ritratti rimangono solo alcuni fogli sbiaditi, in cui permangono evidenti soltanto i segni di ritocco, che sono la prova del primo uso di una pratica che avrà moltissimo seguito, ma che sarà anche fortemente contrastata, tanto che la Société Française de Photogaphie arrivò addirittura a proibire ai suoi membri di realizzare e, soprattutto, di esporre immagini di questo genere.”

Ma questa è Storia della Fotografia; quella della Carell si concentra, per esempio, su necessarie indagini proprio sulle sue scelte tecniche che sono anche poetiche; per esempio, si pensava e si diceva comunemente che stampasse solo a contatto; Mormorio dà dettagliata nota di questo fatto:

“Io avevo visto dei formati di foto 18×24, più grandi, e ho sempre sospettato che usasse anche un ingranditore. Poi ne ho avuto contezza, trovando questo suo apparecchio da un fotografo romano – Ravagli – che, da giovane, li comprò nel suo studio. Insieme, c’erano foto della Carell e la cassetta con cui realizzava i ritocchi.”

Ecco, i ritocchi sono ciò che ha contribuito a farne una ritrattista ricercatissima ma che hanno fatto storcere il naso, abbiamo detto, a certi puristi della foto straight…

 “E infatti, anche questa è una sciocchezza: pittorialismo, non pittorialismo, straight, non straight… a quale scopo incasellare con tale rigidità? Guardiamo invece quanto fu abile e innovativa! Per esempio, ecco una prova della sua maestrìa: manipolava la lastra, sì, ma dall’altra parte, dal retro, diversamente però da Franz Hanfstaengl, che agiva sulla parte emulsionata; la Carell, cioè, operava sull’altra parte, sulla superficie non emulsionata del vetro.”

Dava, quindi, piccoli colpi di grigi di diversa gradazione, luminescenze e velature…

“In corrispondenza dei tratti che voleva modificare, ella tracciava dei segni di matita: anneriva o imbiancava. Sulla stampa definitiva della fotografia, queste linee fatte sul vetro non apparivano mai nette, come invece sarebbero più probabilmente apparse se la fotografa avesse agito sulla parte emulsionata. Risultavano sfumate. Essendo, infatti, a circa 3 millimetri e mezzo dall’emulsione, nell’immagine definitiva risultavano sfocate, determinando così un effetto flou: utile a migliorare, ravvivare.”

Ecco spiegata quell’evanescenza che demarca le sue foto e che oggi arriva in molta produzione fotografica digitale a colpi di Photoshop spesso abusato perché senza consapevolezza linguistica ma solo limitato a una resa esteriore…

 “Invece, la Carell restava in un gusto equilibrio, sapeva dosare… Insomma, fu una grande fotografa. Eppure, allontanasi dall’Italia in silenzio, morì – nel 1972 ad Haifa, in Israele – malata e in difficoltà economiche quando autori inesistenti linguisticamente sono saliti agli onori della storia della Fotografia!”.

Onori che adesso, siamo certi, toccheranno anche a lei. Una che sapeva entrare oltre che nel personaggio ritratto, dentro la questione-Fotografia.

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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