Silvia Ederer. Storia di un frammento diventato storia

Se la luce incontra l’ombra, come è avvenuto nella mostra Light shapes the shadow di  Silvia Ederer (Galleria kunstraum BERNSTEINER, Vienna, aprile maggio 2013), potrebbe attraversarla od anche soltanto posarsi su di essa, in ogni caso ne definirebbe i confini e ne verrebbe definita. Diventandone in questo modo prigioniera, l’una dell’altra in uno spazio che è la tela.

“Quando ero bambina, in estate usavamo fare un riposino dopo pranzo, mi sdraiavo sul letto ed osservavo le luci e le ombre create dalle imposte e come esse danzassero una con l’altra, mi sembrava parlassero. Poi con l’arrivo della pubertà un giorno ebbi l’impressione che quel loro dialogo, quella comunicazione si fosse interrotta, in un certo senso fu la fine di un’illusione.”

Quelle luci ed ombre, il gioco tra loro, un certo modo di muoversi una legata all’altra sono il filo conduttore da cui si snodano le immagini della serie della Endel, oggetto della sua mostra appena conclusa. Come l’artista ha spiegato, esse provengono da 3 diversi nuclei ma sono collegati dalla ricerca di un confine, di un orizzonte ipotetico, di quel luogo simbolico dove una storia finisce o comincia, comunque un momento artificiale che ha sempre l’aspetto di essere li per mettere a registro un flusso che confini non ne ha.

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La Galleria Bernsteiner era un’officina, della quale ha conservato un cortile usato per raccogliere materiali e gli ambienti interni con vaste vetrate, la luce nella nuova concezione della sala è di grande importanza e crea una sorta di camera luminosa che sottolinea le opere esposte. Entrando si viene invasi dalla qualità del bianco avvolgente delle pareti su cui si stagliano le opere; quelle della Ederer sembravano ferite aperte, dominate dalle ombre ma disegnate dalle luci.

Racconta l’artista:

“C’è questo mito nella storia dell’arte, narrato da Plinio il vecchio e conosciuto come La fanciulla di Corinto, che descrive la nascita della pittura: una giovane donna si accinge a separarsi dal suo amato che dovrà partire e, non potendo dormire, durante la notte la sua attenzione verrà colpita dall’ombra, che la lampada disegna sulla parete, del viso di lui, deciderà per cui di tratteggiarne i contorni con un pennello per poterne trattenere il ricordo .”.

Le ombre quindi sono al principio di una descrizione per immagini delle emozioni, immagini che vengono disegnate dalla luce, immagini che vengono estratte dalla realtà e ne vanno a costituire una propria. Nel lavoro di Silvia Ederer queste diventano frammenti, che sono confini, che son anche passaggi. Le prime tele che ho visto nella sala espositiva, ad esempio, sono estratte dalla serie Final frame, creata nel 2009 e nata dalla domanda: che aspetto avrebbe la prima o l’ultima istantanea di una storia?

“La mia intenzione originaria era di esporre una sola serie ma poiché mentre si lavora ad essa ci si confronta con problemi, domande, tematiche che apriranno la via a stimoli nuovi, intuizioni, che porteranno alla prossima… per cui ogni sequenza risulta collegata a quella successiva, in alcuni casi lavoro anche a più di una contemporaneamente.”

Non bisogna però lasciarsi attrarre dall’idea che la storia in se ricopra un ruolo principale in questo lavoro, l’artista è alla ricerca di una forma, non è importante da dove venga ne dove vada ma soltanto il momento in cui attraversa la sua tela.

“Ho bisogno di una possibilità quando creo un’immagine, ne sono alla ricerca, un punto di partenza, un contenuto che mi muova, non avrà poi molta importanza al fine dell’opera, perché in realtà esisterà solo per me e rimarrà esterna al lavoro, quello che invece è importante è cosa genererà nell’osservatore…”.

Esiste sempre un’immagine, una scena da un film, un certo momento durante uno spettacolo teatrale, dove, al di la della sua totalità, la nostra attenzione viene colta da un frammento, sia questo l’incontrarsi tra due linee o li dove un’ombra irrompe nella sfera di influenza della luce. Silvia Ederer dipinge questi luoghi e descrive questi momenti. Sono esistiti e continuano ad essere presenti nella nostra mente, possono prendere, nel suo lavoro, la forma di una cancellata, un’ombra, una tenda, comunque hanno perso la connessione con la storia da cui provengono e si sono innalzati a storia loro stessi.

“Quello che mi interessava esprimere era l’ultima possibilità che una storia avesse per descrivere in quale direzione si muoverà, e poi ancora, l’ultima luce che venisse intrappolata in una scena, ovviamente la cosa rimarrà aperta e quindi in un certo senso un frame o meglio un final frame non narra una storia ma tutte le storie.”.

L’artista non vuole sedurre con l’idea che qui vengano tematizzate le storie possibili, queste sono e rimangono delle variabili aperte su cui lo spettatore potrà intrattenersi con se stesso. Silvia Ederer vede il proprio lavoro come il creare elementi che verranno lasciati crescere durante la lavorazione per costruire un determinato risultato ceduto dopodichè nelle mani del pubblico.

“Quindi il lavoro, la tela, prenderà una sua forma che esprimerà qualcosa oppure no, è tutto qui, il resto riguarderà soltanto me privatamente e lo spettatore, separatamente uno dall’altro.”

C’è un’immagine in Final frame dove si vede un ombrellone circondato dalla nebbia:

“questo è un ottimo esempio di quel qualcosa che possa nascere durante la lavorazione di un’opera che poi avrà una sua vita in un lavoro successivo.”

La serie sulla nebbia è composta da 2 immagini e sono stati necessari anche 15 strati di colore per arrivare a donarle peso e forma. Questo posarsi dei livelli uno sull’altro avviene sia attraverso gli strati di colore dati sulla tela sia attraverso una stratificazione di contenuti, come se tutte quelle storie venissero registrate nella profondità o spessore di un fotogramma invece che in una striscia di narrazione, tutte visibili o percepibili nel risultato finale.

“Mi chiedo durante le prime fasi dove voglia andare, in quale direzione, cosa verrà ora e poi cosa ancora, tutto ciò rappresenterà un avvicinamento molto cognitivo, avverto la direzione da prendere e mi spingo in quella direzione, come muovendosi in una nebbia espressiva che si dirada lentamente. Seguendo questo percorso comincio lentamente a riconoscere i colori, la materia che stavo cercando, poi ad un certo punto tutto il processo cognitivo si dissolve e l’opera in sé prende la parola e mi dirà, quasi, lei come procedere. Questo è un momento di profonda bellezza nonchè di rilassamento, in un attimo tutta la fatica scompare e le cose cominciano ad avvenire da sé.”.

La nebbia attraverso gli strati che la compongono, colore su colore, a sua volta si dissolve nella successiva sequenza, tre immagini che raffigurano un sacchetto di plastica, fluttuante in un ambiente estremamente rarefatto, che sembra prendere le sembianze di una maglia. Everything is everything è intitolata, tutto può cambiare forma, assumerne di nuove:

“in fondo, tutta la storia dell’arte è attraversata dall’idea di concentrazione e dissoluzione, le cose si assemblano tra loro per attraversare delle stagioni, raggiungere degli scopi, per poi dissolversi in attesa di nuove alleanze, vicinanze.”.

L’idea è quella anche della vicinanza e della distanza, le opere in questa sala sono estremamente vicine nella forma degli oggetti rappresentati: nebbie, sipari, tende ma incredibilmente lontane nella loro profondità.

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Dario Lombardi nasce a Roma, si diploma all’Istituto Superiore di Fotografia. Vive e lavora a Vienna come freelance. Ha affrontato diversi generi nella sua professione, dalla fotografia di scena, teatro e danza, passando per la moda ed arrivando al ritratto. Si confronta negli ultimi lavori con la tematica dell’essere umano ed il suo rapporto con il contesto in cui vive. Nel 2008 espone “Hinsichtlich”, reportage sulla donna che veste il velo come scelta religiosa e come confine tra la sfera privata e pubblica. Nel 2009 pubblica insieme con Gianluca Amadei una serie di interviste e ritratti sulla scena professionale ed artistica dei designers in Polonia, dal titolo “Discovering Women in Polish Design”. Attualmente si occupa della mostra-installazione “Timensions” per il Singapore Art Museum 2012, una ricerca sul rapporto tra l’uomo e lo spazio/tempo.

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