Liam Gillick, Richter e Caravaggio

Prima di Liam Gillick da Artiàco (come dicono alla reception) due volti guardano in su verso la pala del Caravaggio nella chiesa della Misericordia: che problema Michelangelo Merisi!, i riflessi dei fari ai lati disturbano; nel dispositivo elettronico a lato si vedono la grata, poi la spada che taglia il tessuto. Ecco Le sette opere della misericordia. Alla Banca Commerciale Italiana, l’ultimo quadro di Caravaggio (riflessi dal basso anche lì in un allestimento fatto apposta) Il martirio di Sant’Orsola, poi il video con la regia di Martone e le parole di Caravaggio scritte da Maria Ortese mostra, alternati a sequenze notturne di una Napoli apocalittica, epica di povertà e abbandono, i particolari dei volti della pala delle Sette opere della misericordia. Credevo che quelle frasi recitate fossero state scritte proprio da Caravaggio – scopro nei titoli di coda che non è così. Particolari di volti, precisi come spiriti perduti nel vuoto dell’universo umano, persone alla deriva, quasi in una morfologia mistica pronta ad offrire il riscatto di una rivelazione improvvisa nel corpo di una vita vissuta. Ma di quei volti, davanti alla pala il giorno dopo, neanche l’ombra; troppo lontani per sentirne vibrare il privato delle espressioni. Eppure il dipinto si trova nella posizione originale. Non credo ci fosse una luce più forte, più illuminante, in origine. L’opera era quindi fin dal principio nascosta, e forse solo il Caravaggio la vide come noi due ora da soli in quel video…

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La candela al centro con la fiamma smossa dal gesto tra abbraccio e addio, grassoccia, avvampa la scena, memoria viva che rilascia immagini, aneddoti religiosi, enciclopedia di scene quotidiane vissute da personaggi drammaticamente veri nel loro rango e ruolo. Una mascherata già spogliata di ideale, ma veri, tutti veri, nel loro destino umano e simbolico spirituale. Cos’è l’Arte? Un’azione di recupero, con ogni mezzo! I volti ripresi altrove, l’impostazione ritrovata lì dal vivo orfana di particolari… Possibile che l’azione di Caravaggio sia a tal punto personale da lasciare il senso intimo del dipinto volutamente celato dalle convenzioni delle committenze? Temo che sia così!, là dove l’Arte contemporanea deve mostrare fino all’ultima goccia di un aspetto, in luoghi di passaggio privi d’ombre, quest’opera di Caravaggio ci insegna che l’Arte è ben nascosta, più di quanto si pensi, e che non basta una torcia elettrica per indagarla, ma serve il desiderio della mente.

Anche nel falso e nell’errore risiede quel vero misterioso che si svela, anche in quel film immaginato da un regista televisivo, bravo, incline a uno spettacolare quasi didascalico, attivando l’illusione di poter ascoltare davvero le parole di Michelangelo Merisi che per sempre mai ascolteremo. Uno stato d’animo si ispessisce di falsità per proteggere la nascita di un pensiero intimo fuori dal caos e la banalità di ciò che fuori esiste Si arriva a un contatto sincero, a una comunione con il senso tragico dell’Arte anche attraverso il falso e l’illusione – si deve soltanto avere cura di percorrerli, e non tornare indietro, seguire il ponte di un tradimento fino alla sponda del sapere e dell’umanità.

Di Liam Gillick mi era piaciuta l‘istallazione alla recente Biennale di Venezia; forse due anni dopo leggo che Gerhard Richter utilizza parole severissime che lo insultano. Credo al me stesso che credeva in Gillick, e credo al me stesso che ora crede in Richter. Mi sono tradito, privatamente tradito? È vero che anche la storia può essere smontata e rimontata dalla logica, dalla similitudine di comportamenti sociali, secondo fatti storici irripetibili: società e potere vivono in un’inconciliabile competizione nell’anima poetica di una favola che ci abita segreta. Poi arriva l’affermazione di Richter: certo, Gillick, non è una presa di posizione forte, è troppo descrittiva, non mette sul tavolo le contraddizioni, non le affronta direttamente, inequivocabilmente, non offrendo la vera condizione di inesprimibilità delle ‘cose’ davanti allo spettatore; per Richter è una finta responsabilizzazione dell’individuo che riflette, quando invece l’artista dovrebbe dimostrare direttamente che lo spettatore in quanto individuo non sa. Gillick mima un orientarsi, quando invece è vero che l’individuo si può orientare davvero. Io condivido quest’ultima tesi, che è anche nell’opera di Richter.

Ora, perché essa non nega quel me stesso alla Biennale (scorsa) nel padiglione tedesco? Perché c’è l’Arte che tenta e l’Arte che riesce tentando. L’arte non è un’asserzione inequivocabile, essa sempre tenta e può solo tentare, poi a volte riesce ad accedere a qualcosa nel suo tentare; e lì l’essere umano, lo spettatore, si riconosce, in quel tentare ‘riuscito’, in quel tentare che più ci somiglia e che è più irrisolto. Credo che Richter sia un artista più importante di Gillick, maggiormente calato nel suo tempo, al quale non risponde; Gillick tenta di farlo, crea un’ipotesi; Richter invece, crea una condizione possibile, probabile. Richter mi sembra più nascosto, segreto, privato, così come mi è apparsa qualche giorno fa quella pala di Caravaggio. E se si pensa che è ovvio perché sono due pittori e che Gillick è un artista concettuale, io penso al contrario che questo rileva un indagine più fruttuosa – ad oggi – per la pittura: sono più diversi e comunicanti Richter e Caravaggio che ognuno di questi con Gillick – e forse c’è un’equidistanza tra Gillick e Richter. e Gillick e Caravaggio, che frena una riflessione davvero seria dell’Arte. Questo è un problema per l’Arte concettuale: essere tutto sommato una fredda misurazione.

Interessante è l’opera di Giulio Paolini di proprietà di Sol Lewitt alla sua mostra al MADRE di Napoli. Tanto affascinante e ricca da avvicinarsi più a Caravaggio che a Gillick o allo stesso Lewitt pur essendo propriamente un’opera concettuale. Si ammira, si contempla, per l’armonia che ne emana, che la fa ‘suonare’ piena come un accordo di Bach. Il suo titolo è Cielo stellato, ed è composta da una miriade di chiodi dorati disseminati intorno a un quadro con stretta cornice d’oro che tra il fondo e il vetro contiene nella parte bassa un ammasso degli stessi chiodi e più in alto dal retro spuntano gli stessi chiodi spuntati davanti allo spettatore. La descrizione è inutile, perché è un’opera visivamente irripetibile. Questo è il punto, si pensa all’Arte concettuale come ad un’azione ripetibile, a opere intercambiabili, ma ecco che il più importante artista concettuale, con Joseph Bueys, dimostra il contrario: l’armonia che suona ha un’alchimia personale e unica, profondamente privata, dentro la visione, così come quei volti di Caravaggio nel video di Martone. Ecco una definizione: l’Arte, la più grande ed efficace, si mostra attraverso un pieno, un pieno in armonia!

C’è una dolcezza, una deriva “dell’umano pensiero” – inversione che potrebbe essere di Leopardi -, tanto vivi e palpabili, e logici in Paolini, da reimmetterci questa volta nella vita e non in una pausa di essa.

La grazia di quest’opera è inesplicabile e per questa si apparenta all’annientamento vitale di Richter, al quale aggiunge una componente tutta italiana, l’amore per la narrazione – e più che un’appartenenza all’Arte povera, questa è l’Arte dell’ottenimento del massimo col minimo necessario. Questa è la splendida tradizione Italiana, il vero logo del’Arte Italiana, fare il massimo col minimo, l’economia di tutte le energie fino all’esplosione delle stesse. La Cappella Sistina non è forse l’opera di un solo uomo? Qui davanti a quest’opera un pensiero e uno sguardo hanno la loro Cappella Sistina, il loro momento epifanico di riflessione viva, inesorabilmente accoppiati, indecifrabilmente, in maniera tanto necessaria.

Sol Lewitt cede alla tradizione americana di quel periodo, al minimalismo, le sue opere troppo mentali perdono il corpo, e mostrano a volte il desiderio di un fisico nell’apparizione dei colori, e proprio lì è la mente, che dovrebbe penetrarli, a vacillare; essa non è in quel corpo di colori che resta, ma nel corpo del suo artefice, lì, ancora oggi, in quella mente, come se lui non fosse morto, e, ancora vivo, per miracolo concettuale. Ecco perché a mio avviso quando il segno resta quello della linea di matita, come in un bozzetto, egli è più autentico.

Richter ha la misura dell’eccesso; Sol Lewitt di una mente in gioco senza corpo; Paolini dà le proporzioni dell’intelletto; e Gillick gioca con i supposti universali antenati del reagire umano collettivo e privato; ma Beuys è la natura di un’essenza che si riconosce umana perché altro non può.

Ognuno di questi artisti crea il linguaggio dell’Arte, compongono insieme la sua frase, ma solo pochi fra di essi sanno parlare compiutamente tanto da far tremare le radici dell’umana esistenza; quali? Lì in quelle rapide definizioni esiste la risposta. Che scegliate bene o male, dipenderà da voi giungere a ciò che è autentico.

Caravaggio nasconde e rivela, in quella pala più che in altre, e la candela dalla fiamma smossa al centro del quadro lo dice chiaramente, sfida lo spettatore, dice:

“Guarda, guarda bene da questa parte, qui tra queste cose; seguirai la strada che si apre fino a poter sentire intuendo quello che non puoi vedere e che pure c’è ed è stato dipinto? E guarda come quel primo senso della rappresentazione ora è davvero autentica azione che giunge ed operare dentro di te. Un messaggio è lanciato tra gli esseri umani che abbatte il tempo.”

 

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Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma, dove vive e lavora. Vincitore di diversi premi, ha pubblicato sette libri di poesie - Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (con Teodosio Magnoni; Exit, 2002), Poesie della non morte (con Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Scheggedellalba (con Pietro Cascella; Cento amici del libro, 2008) - nei quali il suo modo di procedere è “vasto quanto un luogo poiché lì è qui ma quando/ci si avvicina al luogo qui e lì già accade tra la/parola e l’universo che si toccano”. Ha ideato e curato dal 2001 al 2006, per Aeroporti di Roma, il progetto culturale “PlayOn” e ha diretto l’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato due romanzi, Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008). È presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.

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