Three True Stories/Tre Storie Vere, tre donne raccontano

Dopo le mostre sui grandi fotografi del passato, Fondazione Fotografia di Modena si mette generosamente alla prova con un’esposizione coraggiosa e contemporanea: Three True Stories, tre fotografe donne, Mira Tabrizian, Ahlam Shibli e Zanele Muholi, provenienti da tre parti del mondo Iran, Palestina e Sudafrica, che fanno presagire ancora prima di accedervi, tematiche politiche, religiose, sociali e di genere, contestualizzate in una realtà allo stesso tempo locale e globale, di non facile approccio.

Il cursore diretto sulle immagini visualizzerà le didascalie; cliccare sulle stesse per ingrandire.

Una fotografia raffinata nella tecnica o, al contrario, che rifugge l’estetica, che sia a colori o in bianco e nero, ci offre comunque la grande opportunità di aprire finestre sul mondo nel quale viviamo, vicino o lontano da noi e ragionare. E nessuna delle condizioni precedenti è una contraddizione, non c’è stridore di sorta, ma un’analisi oggettiva, che si antepone a tutto. Ogni foto di Tabrizian o di Muholi rappresenta un racconto, un film e Shibli, con taglio chirurgico e raccolta quasi ossessiva di materiale e di documentazione, ci proietta in una realtà che pur avendo pagato prezzi altissimi, ancora non si è riusciti a modificare.

Claudia Fini e Francesca Lazzarini, curatrici insieme a Filippo Maggia, della mostra e del catalogo, ci accompagnano lungo il percorso espositivo e ci svelano il progetto che lo sottende.

Mitra Tabrizian è un’artista iraniana nata a Teheran, che dall’inizio degli anni ’80 vive a Londra; solo recentemente è riuscita a far rientro nel proprio Paese e questo le consente di mantenere un punto di vista privilegiato dal quale abbracciare allo stesso tempo Oriente ed Occidente, ma per potervi lavorare le sono necessarie molta attenzione e cautela nella comunicazione del suo messaggio.

Ad aprire la mostra una delle due grandi foto panoramiche, “Untitled” del 2009, scattata nei dintorni di Teheran poco prima delle elezioni presidenziali che hanno visto gli studenti al centro delle manifestazioni di protesta; un gruppo di giovani uomini e donne, un paesaggio arido sullo sfondo che, si può immaginare verrà edificato a breve, essendo già disposti i pali dell’illuminazione pubblica (le periferie delle città iraniane sono soggette ad una forte espansione edilizia e ad una continua trasformazione del contesto urbano). Non sono presenti però altri indizi che ci facciano capire quale destinazione avrà questa terra… Mentre i giovani sono fermi nel mezzo della strada, notiamo in lontananza tre uomini che si dirigono verso gli studenti. Il non conoscere niente di loro li rende un elemento piuttosto inquietante, emblematico della condizione di sospensione in cui vivono queste persone.

E’ evidente come gli scatti di Tabrizian abbiano una costruzione molto attenta e rigorosa e rispettino parametri tecnici e di stampa raffinatissimi; a volte le figure ritratte sono attori di un set ricostruito mentre, in altri casi, si tratta di soggetti già presenti sulla scena (come accade ad esempio in Another Country) eppure sembrano in posa. L’accurato controllo delle immagini ne accentua l’ambiguità, pone dubbi sulla realtà o meno della situazione e porta ad interrogarsi in modo più profondo a proposito dei soggetti sociali e sulla loro condizione sia esistenziale che politica.

Nella seconda foto panoramica Teheran, West Suburb (2008) vediamo un gruppo di uomini accompagnati da un cane che, dopo il lavoro, camminano in discesa, su un terreno impervio e accidentato. Di nuovo ignoriamo sia la loro meta che la loro provenienza… percepiamo la bellezza del paesaggio che li circonda, ma anche la durezza, l’asperità. Lo sguardo dell’uomo che apre la fila e quello del cane convergono in un punto lontano. I cartelli sullo sfondo riportano frasi contro gli oppositori del governo. Si pone l’accento, questa volta, sulla realtà dei lavoratori e sulle fasce più basse della popolazione.

Le opere di formato più piccolo appartengono ad una serie intitolata Another Country (2010) e ritraggono scene di vita quotidiana della comunità musulmana. Inizialmente si ha l’impressione che siano state scattate in Medio Oriente, in realtà alcuni indizi ci rivelano la loro reale localizzazione, ovvero Londra, ovviamente all’interno di moschee o luoghi normalmente frequentati. Questo displacement ricalca lo spaesamento di chi si ritrova a convivere fra i due mondi, in un tentativo di estremizzare l’attaccamento alle radici, alla tradizione, contemplando però inevitabilmente un’apertura dettata dalla necessità di interagire con la società che accoglie (non sempre realmente accogliente).

A chiudere la sezione dedicata a Mitra Tabrizian, il film intitolato Depredator, girato nel 2004, una vera e propria fiction che racconta la storia di un giovane sicario assoldato dai servizi segreti di un paese islamico indefinito, per uccidere uno scrittore dissidente che ha trovato asilo politico a Londra. Ovviamente si stabilisce fra i due una relazione di forte tensione emotiva che porterà allo sviluppo di vicende varie… Gli elementi, i temi interessanti che tornano anche nel film, sono legati alla relazione tra Oriente e Occidente. I dialoghi, molto ridotti per lasciare più spazio alle immagini, si svolgono in inglese anche quando a parlare sono gli agenti e il sicario e questa scelta ben precisa suscita riflessioni sul paradosso che rende necessario l’uso della lingua inglese tra i componenti della comunità islamica, (visto che racchiude al proprio interno realtà linguistiche molto diverse tra loro) e mette in risalto la doppia contraddizione presente sia nello stereotipo occidentale che li considera molto omogeneamente connotati, sia nel fondamentalismo che basa il suo proselitismo su questioni di appartenenza, di identità ma poi come strumento per comunicare deve forzatamente usare una lingua non solo estranea, ma persino riconducibile al nemico.

Ahlam Shibli (Palestina, 1970) presenta Death, il lavoro co-prodotto dal MACBA di Barcellona, il Jeu De Paume di Parigi e il Museo di Arte Contemporanea di Serralves a Porto, in una particolare edizione prodotta dalla stessa Fondazione Fotografia. Rappresenta l’ultima ricerca, durata due anni, nel 2011/2012, condotta in Cisgiordania, prevalentemente nei campi profughi di Nablus. Si procede per capitoli con una metodologia molto rigorosa, che però esclude completamente il compiacimento estetico, risultando scarna, cruda, tanto che alcune foto possono essere ritenute tecnicamente sbagliate, visto che la scelta dell’artista è stata di fotografare comunque, anche, per esempio, in condizioni di luce non ottimali, poichè per la raccolta dati metodologica solo il soggetto è importante.

Sono 68 foto (con altrettante didascalie esplicative) che documentano negli spazi pubblici (strade, cimiteri, negozi, mercati) e all’interno delle abitazioni private, le infinite forme che i palestinesi hanno trovato per commemorare i loro martiri (vengono considerati tali tutti coloro che sono caduti nella battaglia per il riconoscimento della Palestina e contro l’occupazione israeliana, includendo quindi chi ha fatto operazioni di martirio, i morti durante i conflitti a fuoco contro l’esercito israeliano, ma anche i detenuti). Ogni capitolo è organizzato in blocchi; vengono ritratti momenti di vita, i leader del movimento, i campi profughi di Nablus dove i palestinesi cacciati dalle loro terre si sono fermati inizialmente con abitazioni di tipo transitorio, diventate poi via via più stabili, in muratura, fino ad assumere il carattere di città. Della raccolta dei manifesti affissi lungo le vie e gli edifici sono molto interessanti il contenuto e il linguaggio usato, di propaganda politica, religiosa e patriottica, che difficilmente trova un’adeguata traduzione in una lingua o in una realtà diversa da quella.

Gli interni delle abitazioni, ci mostrano una sorta di “altare” familiare per ricordare i parenti caduti, mettendo in risalto la forte prossimità che questa popolazione ha con la morte, dove è normale che i bambini crescano tra le armi e i ritratti di chi ha sacrificato la vita combattendo. La morte diventa lo strumento attraverso il quale guardare il futuro ma al tempo stesso, viene da pensare, manca il filtro che dovrebbe proteggere i bambini da questioni così adulte.

La terza delle “tre storie vere”, è quella narrata dalla sudafricana Zanele Muholi (Umlatt – Durban). Faces and Phases, la sua opera forse più conosciuta (esposta anche a Documenta13 a Kassel) avviata nel 2006 e ancora aperta, ritrae le figure appartenenti alla collettività LGBTI, delle più disparate estrazioni sociali, legate da un filo di somiglianza ma anche da profonde differenze e contribuisce, con grande dolcezza, alla demolizione dello stereotipo e della rigidità mentale caratteristici della società, raggiungendo uno degli obiettivi dell’artista, ovvero la creazione di un archivio visivo che rappresenti un punto di riferimento per le giovani donne che si trovano a vivere questa esperienza

La comunità in Sudafrica è riuscita a dar voce alla propria identità solo dopo l’elezione di Nelson Mandela, in un paese che contempla lo stupro come metodo di “correzione” per quella che viene considerata un’abiezione, un vero e proprio tradimento nei confronti della tradizione e dell’identità africana. La serie di ritratti in bianco e nero, come viene istallata qui a Modena, assume la caratteristica di racconto, in una forma che riporta alla successione fotogrammi di un film, richiama la pellicola cinematografica ma con una vita contenuta in ogni frame, rendendo così fluidità alla narrazione e calamitando l’attenzione dello spettatore su ogni singola storia, che può essere letta in qualsiasi ordine.

Le altre opere proposte sono un documentario autobiografico intitolato Difficult love, nel quale Muholi si propone come traccia per raccontare la comunità lesbica del proprio Paese e quindi attraverso interviste ed esperienze dirette, molto intense, ne ricostruisce le tappe e si pone concretamente l’obiettivo politico di darne visibilità, di trasformarne la percezione nell’immaginario collettivo, portando alla luce le reali condizioni di vita; Eye-me, un video dal messaggio semplicissimo e diretto, “guardiamoci, vediamoci, esistiamo…”, che condivide la stessa sala con Crime scene, lavoro fotografico di “fiction” dove lei stessa posa come se fosse la vittima di un crimine d’odio e ogni scatto pare tratto dalla documentazione della polizia scientifica, che ricostruisce la scena dell’omicidio.

L’artista americana Joan E. Biren introduce Faces and Phases con la seguente frase:

“Senza un’identità visiva non abbiamo una comunità, nessuna rete di supporto o movimento. Quello di renderci visibili è un processo continuo”.

Ci pare che queste parole possano essere estese al lavoro di ognuna delle tre figure artistiche che Fondazione Fotografia di Modena invita a conoscere e che siano emblematiche, perfette, per ricalcare il profilo e l’importanza della fotografia documentaria contemporanea.

Note per le foto di Ahlam Shibli:

1) Untitled (Death, no. 12), Palestine, 2011 – Campo profughi Balata, Vecchio Cimitero, 12 Febbraio 2012. Entrata del Vecchio Cimitero. Quest’ultimo è l’unica area verde del campo. E’ utilizzato dagli abitanti locali come luogo d’incontro e come scorciatoia per la strada principale. La scritta sopra all’entrata, a destra, dice “Combattili; Allah li punirà per mezzo delle vostre mani, li disonorerà e vi farà vincere e soddisferà i cuori di un popolo credente. Brigate dei Martiri di al-Aqsa.” A sinistra c’è scritto: “Sto partendo, lasciando a te le mie canzoni/ e una ferita che non ha toccato la mia gloria/lo sguardo della persona amata, il pianto di un bambino e le olive / respirano nel mio sangue e vi darò ciò che mi appartiene nel mondo e me ne andrò”. I poster ritraggono importanti figure di martiri della zona del campo.

2) Untitled (Death, no. 32), Palestine, 2011 – Campo profughi Balata, 16 Febbraio 2012. La foto del martire Khalil Marshoud viene spolverata dalla sorella nel soggiorno della loro abitazione. Nel poster, un regalo delle Brigate Abu Ali Mustafa, è indicato come Segretario Generale delle Brigate dei Martiri di al‐Aqsa di Balata.

Info mostra

  • THREE TRUE STORIES / TRE STORIE VERE
  • a cura di Filippo Maggia, Claudia Fini, Francesca Lazzarini
  • promossa da Fondazione Fotografia Modena e Fondazione Cassa di Risparmio di Modena
  • 20 aprile – 23 giugno 2013
  • ex Ospedale Sant’Agostino
  • Modena, Largo Porta Sant’Agostino 228
  • orari di apertura: martedì 11-13 e 15-19; mercoledì-venerdì 15-19; sabato, domenica e festivi 11-19
  • biglietto d’ingresso: € 5,00 – ingresso gratuito tutti i martedì
  • Catalogo: a cura di Claudia Fini, Francesca Lazzarini, Filippo Maggia – pubblicato da Fondazione Fotografia Modena
  • Contatti: Fondazione Fotografia Modena-Fondazione Cassa di Risparmio di Modena: tel 059 239888 | 335 1621739; info@mostre.fondazione-crmo.it
  • www.fondazionefotografia.org
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Vive a Bologna, dove lavora come logopedista al Servizio di Neuropsichiatria Infantile occupandosi prevalentemente di disturbi della comunicazione, del linguaggio e dell'apprendimento, è appassionata da sempre di Arte, in qualunque forma si presenti. Da alcuni anni ha iniziato un percorso nel campo della fotografia

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