Intorno a Piero della Francesca, Anselm Kiefer e altre storie

Piero della Francesca, le foglie dell’albero della vita in alto all’affresco, dipinte sul secco sono cadute per l’umidità delle infiltrazioni dal tetto: appare spoglio, invernale. Capire cosa è dipinto da Piero e cosa no è la sfida del nostro tempo contemporaneo. Sarebbe inammissibile oggi che un dipinto non fosse portato a termine dal pittore. Cosa fa Anselm Kiefer dei suoi quadri? C’è chi ha persino detto “Sono delle incrostazioni che non c’entrano con la pittura”. I colori di Piero sono chiari campi nella luce, nostra realtà di purissima logica. Kiefer attacca navi-oggetto sulla superficie del quadro (eravamo a Napoli al museo di Capodimonte);  è plumbeo: l’opera ha subìto la sindrome dell’ abbandono; ma l’artista no, lo sentiamo seduto in poltrona mentre architetta la sua ispirazione.

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Piero ha spesso un solo volto, grandi pupille, naso forte, labbra carnose e profonde, fossetta sul mento: le Madonne, la Maddalena, anche i maschi, toglie la fossetta, la rimette. Chi è quel volto, cos’è? Amore, logica della proporzione, affetto reale? Gli angeli pure. Ideale di una naturalezza, trovata e vestita o incontrata e studiata, o ancora, in ogni caso, inventata? Cos’è l’amore, cos’è la dedizione? Io ho una definizione per l’arte di Piero: irreale naturalezza; ciò che è naturale è anche divino.

Torno indietro ai mosaici di Ravenna, a quelli più aperti e sensibili, semplici, di Sant’Apollinare in Classe: in alto la mandorla profonda, con l’iridee al centro, simbolo di Dio. Niente di più autentico, profuso d’aria e spazio spirituale sereno, come se nascesse lì in quel momento, come un origine dello spirito. Nessun tramite, nessuna empasse: l’arte non mente perché non cerca di superarsi. C’è un istinto di conservazione, di quella leggerezza logica dello spazio che Piero salva, unico nel Rinascimento. La limpidezza in lui resta, ma ovviamente, imprigionata nella struttura di una mente sola che deve imporsi.

L’uomo rinascimentale si sente autore di se stesso, padrone di sé, anche se sempre in accordo con le leggi che lo circondano e che lui riconosce, tra religione e politica. Sono a Firenze a Palazzo Strozzi per la mostra La primavera del Rinascimento, davanti a me la testa romana del Seneca sofferente e accanto, sempre in bronzo, di poco più grande, quella di un santo, opera di Donatello. La seconda è un involucro, la prima l’incontro con un uomo vivente che mostra ciò che è (è un’ immagine che dona consapevolezza all’osservatore, che pone parità tra persone sociali).

Perché la testa di Donatello appare come un baccello vuoto, un contenitore dentro al quale può albergare la prima scintilla di una vita veramente personale? Essa appare, rispetto alla scultura romana di Seneca, sovradimensionata, quel tanto da potersi imporre all’osservatore, da mostrargli il suo spettacolo: per la prima volta chi guarda è uno spettatore, si traccia una frattura, una separazione tra l’opera e la persona, una inanimata e l’altra vivente, l’una oggetto e l’altra mente. Il confronto è gerarchico e ha due nature distinte che parlano perché differenti. Il Rinascimento è un monoteismo dell’essere. L’oggetto è il tramite di questa scoperta condizione.

La testa di cavallo, sempre di Donatello, eccezionalmente sovradimensionata rispetto al naturale, mostra la furia o l’ebbrezza che trabocca dalla singolarità fino a mostrarsi furiosa, in una natura in trance, segnale di un desiderio di trovata onnipotenza. Il sé, il potere della mente, le idee, la logica progettuale che ruota intorno all’individuo sono il principio di una emancipazione scientifica che affrancherà l’uomo, progressivamente dominante sulla natura.

Un’altra testa di cavallo nella stessa stanza, in un angolo, stavolta di dimensioni naturali, di periodo ellenistico, genera intorno a sé e poi in sé gli elementi naturali che accolgono l’essere vivente generandolo e mettendolo in una condizione di equilibrio vivo. L’osservare ci fa essere nelle cose, l’uomo le riconosce è così ne sposa e ne accetta il mistero naturale. Quello greco è un vero cavallo, quello di Donatello è già parte dello spirito dell’uomo e del tempo contemporaneo di allora.

Per l’arte romana un bambino di quattro anni è un bambino umano fragile e curioso, seduto con un passerotto in mano, protrae l’altro braccio verso qualcosa; quel qualcosa è simile a qualcosa di nostro, che è stato nostro. C’è un educare nell’arte romana antica, una civitas vissuta attraverso tutte le sue manifestazioni. Nei due fregi gli angioletti sono al lavoro e portano sulle spalle in coppia una trave. I due angeli di Donatello sono astratti dal loro ruolo e, puramente estetici, abitano, lavoratissimi e dolcissimi, la loro posizione di decorazione dello spirito: sono come tenuti al guinzaglio dall’intelletto. È la loro bellezza, legata al sottilissimo lavoro scultoreo, che rende, nel loro apparire, una meraviglia simile a quello di una vigilia, quella che già stava nella testa del santo.

Donatello e Piero, mistero e verità che si intrecciano e sposano: i campi di colore chiaro e netto trovati nel mistero di Donatello, è la germinazione nuova che si propaga nella mente che riproduce in sé quei colori con il loro senso.

Nel Rinascimento l’Arte e l’artista si scoprono indipendenti generatori di realtà, e la loro scultura sfida la natura (il Perseo di Donatello ha l’arditezza di tenere in mano la testa mozzata della natura vinta, dopo secoli di attesa: è la natura stessa la spettatrice di quella scultura, e la sua grandezza per l’osservatore risiede nell’immenso spettacolo che essa genera davanti a lui, da una posa immobile e definitiva).

La pittura di Piero è vibrazione attesa e chiarificata, terrestre, naturale, trascendente dalla sua naturalezza. Il polittico della Madonna della Misericordia a San Sepolcro ha al suo centro la crocifissione con la Madonna e un’altra figura discosti dalla centralità della croce, il tutto immerso nell’oro. Dimensioni e impostazione sono le stesse di un’opera su fondo oro del Masaccio. Ma lì tutto è ancora magnetico e le figure come scariche elettriche si attraggono attraverso l’oro. E qui, con Piero, invece l’oro diventa aria e respira di spazio sostituendo alla gravitazione muta la natura di un dialogo offerto e desiderato. L’ossatura per Piero è la geometria palpabile e invisibile che apre l’oro, lo attraversa, lo rende spazio e paesaggio. Piero è maestro di simmetria: tutto è retto nella natura della mente perché si specchia ortogonalmente: sui due assi, lo spirito e il tempo, intercambiabili, fusi. La natura delle cose è la natura della mente: la prospettiva, le proporzione della testa umana, combaciano. La minima imperfezione (leggera asimmetria) crea due perfezioni in dialogo di unità. L’uomo abita là dove sa di essere una forma coesa e riconoscibile come naturale, ed è nello spazio pittorico come spazio del mondo. E il tempo dell’uomo è un tempo ulteriore, raccolto nell’istante prima del suo divenire: questo è il suo lascito. La pittura parla da sola, e Piero è liberato attraverso essa.

Ecco l’inspirazione a Sant’Appollinare in classe, e l’espirazione nella basilica di San Francesco con Piero. Settecento anni: l’uomo ha ricevuto se stesso in dono e ora lo metabolizza pronto a reagire. Ecco, Piero, è questa preparazione, lo spazio di chiarezza del proprio volto, la frase nata nell’aria, precisa, e non ancora detta, ma pronta sulle labbra. Ma Piero non la pronuncia mai, essa resta scolpita nell’attesa irreversibile. Il lascito è di lunghissima gittata. Piero aspetta di vedere cosa accadrà nel prossimo millennio. È lui che ci aspetta.

A Capodimonte in fondo alla fila di stanze si può già scorgere il corpo di Cristo alla colonna, bianchissimo, è Caravaggio. Alla chiesa di san Domenico ad Arezzo il grande crocifisso di Cimabue. L’uno l’opposto dell’altro, ma ambedue sorgenti dall’ombra. Ricordiamo che Donatello chiude nel cranio del santo quel vuoto oscuro che tiene nell’ombra il futuro. Prima che l’ombra sia chiusa, prima che sia protetta in un luogo facendo sorgere intorno a sé la varietà del mondo, facendola ri-sopravvivere, tutto era oscurità, mistero mistico (e dopo la luce rivelatrice di Ravenna), e dentro ad essa, nel nero assoluto, lì, trovare il corpo di Cristo, il corpo simbolico reale di Cristo sulla croce. Il corpo dipinto è scultura, è volume, sfruttando il paradosso visivo della croce che occupa lo spazio con la pittura. Il non-spazio della croce mostra il mondo fisico in oscurità. Il corpo di Cristo, sofferente inclina la testa alla sua sinistra e lascia spazio al corpo; il suo corpo segue un’onda illusoria a destra che lo spinge in avanti, ma è la nostra mente che lo crea, che lo porta fisicamente in quella posizione, che lo fissa corporalmente in quell’atto intimo dove esplode e poi implode l’universo, la nostra intima significazione, l’essere vivente e umano. Ecco come è dipinto, non ho mai visto una cosa simile; è pari a una scultura della mente, rende cieca la vista che continua a vedere, e fa degli occhi degli strumenti tattili così simili alle nostre mani. Là dove il corpo si segna profondamente scavato da una linea scura che lo percorre e lo chiude là dove stanno i muscoli sembra allo sguardo di seguire quei solchi come le mani di un cieco per il corpo nudo e segnato del Cristo. L’atto che prepara Cimabue per noi è una rivelazione sensibile, piena di valenza e significato, ci fa andare ben oltre (o così almeno siamo portati a credere convinti di questa ben formulata illusione): siamo le mani di Maria che toccano i piedi del Cristo. Il momento a noi dato è assoluto e avvolgente e la pittura non è ancora uno scrigno rivelatore, ma una materializzazione e concentrazione assoluta dell’essere e nell’essere. La mente è per Cimabue il potere misterioso che rovescia la realtà portandola a compimento nascosta, come uno spazio introvabile in un altro spazio, o l’essere nella vita; introvabili eppure veri strumenti di sensibilità. La pittura qui è metamorfosi dello spazio. Giotto subito dopo lascerà questo mondo definitivamente è cercherà più semplicemente di esplicare in pittura i volumi dello spazio reale, rimutandoli, traducendoli.

Con Caravaggio torniamo all’oscurità, ma un’oscurità realistica che fa stagliare, separata definitivamente da essa, la fisicità di una scena, realistica appunto, ridotta all’azione, all’acme di quell’azione, scelta nel potere di suggestione che essa può produrre, invadendo lo spazio dello spettatore. Perché dopo tanta raffinatezza intellettuale siamo ora giunti all’immediatezza, forse triviale, sicuramente sconcertante, di una menzogna e di una verità che si sfiorano gemelle?

La Flagellazione di Cristo, colto poco prima di essere flagellato, nell’istante prima, torce il corpo in un passo di danza, una nota intera, chiara, emersa violenta dal buio! Siamo in un mondo di materia concreta, e il sapore che si alza è quello della partecipazione. Caravaggio mostra la realtà cruda, con una crudezza mai vista e mai tanto estrema. L’attimo di tempo colto è, differentemente da Piero, il colpo di una lancetta che lancia l’attimo decisivo, oltre il quale non può esserci più niente, o ancora tutto, ma scosso, svegliato, rinnovato; tutto è uguale e tutto è drammaticamente diverso. Il quadro di Caravaggio è un colpo d’ascia che fa sentire l’affilatura della lama a tal punto tagliente, sovrumanamente tagliente, da uccidervi da vivi, da renderci chimere eppure fenici. Ora, avendo Caravaggio creato il buio, realtà fisica contrapposta alla metafisica dell’oscurità, altri artisti come Goya hanno l’opportunità di entrare nel buio e di mettere alla prova l’uomo e le sue percezioni, lasciando in sospeso l’esito di questa ricerca, di questo affondare nell’abisso, a cui risponderanno poi i romantici e altri dopo di loro. Goya vale proprio per la sua duplice realtà, diviso in due, prima luce e colori, poi buio e orrori ( non sono forse le stesse incisioni nettamente divise tra parte incisa e parte vuota, libera da segni?). Goya dalla luce sprofonda, visita l’abisso, come attirato, come preso da una naturale gravità. L’artista farà il viaggio con lo spettatore, incerto quanto lui, senza possibilità di fuga. Goya, artista di corte e per se stesso, porterà tutti con sé, la corte, il mondo, le classi sociali, metterà in dubbio i valori acquisiti di un’umanità giunta fino a quel punto, alle porte dell’industrializzazione, ma ancora lontano da essa, ascoltando lontano i rumori assordanti dei conflitti e delle guerre. Volgerà le guerre contro se stesse e metterà al centro l’uomo per vedere cosa ne resta, cosa se ne può salvare. Chi lo salverà?, chi salverà l’uomo?

Alla fondazione Magnani Rocca, il grande capolavoro La famiglia dell’infante don Luis de Bourbon, non più sacra, ancora più misteriosa nei rapporti, segreta nei legami. Cosa veramente accade tra i personaggi? Cosa li lega? Un universo di riferimenti indecifrati li lascia nel quadro di un buio di poco schiarito, come un cosmo sconosciuto. Siamo noi, non è possibile mostrarci diversamente, risolverci. Il pittore dentro al dipinto, parte del tutto, si gira per cogliere la scena. Ai suoi occhi come ai nostri la scena, difficile da cogliere, si divide senza chiarirsi, tra chi sta lì per il ritratto e chi no. Si può meditare il caos? È un caos ragionato, in movimento, prima che venga disposto. Il pittore ha già abbozzato qualcosa, un abbozzo, ma il resto non è ancora disposto. Certamente questo quadro è la risposta alle Meninas di Velasquez; ma rotta è l’architettura e ogni ruolo di ricostruzione logico concettuale. In Goya tutto si disperde e va alla deriva, e questo è più vero di ogni finzione, di ogni fingimento. È la realtà a mentire, ambigua, sfuggente, affascinante: i volti diventano sfacciate avventure; ci si perde, ci si ritrova, ma fuori dall’orizzonte. Sono radici di mentalità diverse, e appaiono inconciliabili, lontanissime terre volte a collidere l’una nell’altra, decifrandosi per frammenti, salvate (ora sì!) dall’illusione che alberga nelle intenzioni e che guidano (s-guidano?) il vivere. Tutto si regge sull’insalubre ipocrisia dell’essere umano, ma che ci definisce e ci spiega molto più profondamente di qualsiasi altra cosa: l’illogicità è la radice a cui siamo internamente costretti e che fa fiorire il nostro vero aspetto; ci gira intorno, ci sfida, e noi crediamo di resistere e la utilizziamo. Goya decide di accettarla, per tutti noi, con tutti noi, che lo vogliamo o no, che lo sappiamo o no.

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Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma, dove vive e lavora. Vincitore di diversi premi, ha pubblicato sette libri di poesie - Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (con Teodosio Magnoni; Exit, 2002), Poesie della non morte (con Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Scheggedellalba (con Pietro Cascella; Cento amici del libro, 2008) - nei quali il suo modo di procedere è “vasto quanto un luogo poiché lì è qui ma quando/ci si avvicina al luogo qui e lì già accade tra la/parola e l’universo che si toccano”. Ha ideato e curato dal 2001 al 2006, per Aeroporti di Roma, il progetto culturale “PlayOn” e ha diretto l’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato due romanzi, Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008). È presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.

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