L’Asia che avanza lascia indietro la vecchia Europa

Un viaggio in Asia rafforza il convincimento che l’Europa, e l’Italia in particolare, arretrano mentre i Paesi del cosiddetto Pacific Rim e l’India avanzano. Il progresso di nuove “tigri” dell’economia – dalla Thailandia all’Indonesia – ricalca quello di Giappone, Cina, Singapore e Malesia.
Sempre più Paesi sono ora in grado di raggiungere alti tassi di sviluppo con un’industria manifatturiera congegnata per le esportazioni, con la promozione degli investimenti e con un’intelligente utilizzazione del capitale umano. Ma l’attenzione degli esperti, come quelli della Banca Mondiale, si sforza in modo particolare di capire in quale misura tale progresso sia dovuto all’intervento dei governi, sistematico e portato avanti attraverso canali molteplici, al fine di incentivare lo sviluppo di industrie specifiche in località specifiche con sussidi, incentivi fiscali e anche repressione finanziaria.

Il miracolo economico dell’Asia fa da contraltare drammatico alla crisi finanziaria ed economica che attanaglia la vecchia Europa, ed in particolare solleva un quesito cruciale, quello circa il ruolo di uno stato autonomo, e non già membro di un’Unione, nel promuovere la crescita e lo sviluppo. Il miracolo è invero più che apparente agli occhi del visitatore, sia pure occasionale, che non tarda a chiedersi come certe democrazie asiatiche, imperfette nella concezione occidentale, siano capaci di conseguire risultati così positivi. Sorge quindi una moltitudine di interrogativi sul modo in cui funzionano le istituzioni dei vari Paesi, alcuni dei quali per l’appunto possono essere classificati semi-democratici mentre in altri, come la Cina, la struttura istituzionale è dominata da un partito unico.
Nonostante le diversità istituzionali, e di conseguenza il peso del diritto nell’azione di un governo, è innegabile che il ritmo di sviluppo sia pressappoco analogo nelle nazioni del Sud-est asiatico, anche se in alcune di esse il costo del lavoro non è più quello di un tempo, così basso da attrarre gli investimenti esteri.

L’altro aspetto che colpisce il visitatore è quello della diseguaglianza. In quelle economie che furono le prime ad affacciarsi alla prosperità – il Giappone, la Corea del Sud e Taipeh – i livelli di diseguaglianza si mantennero bassi anche nel periodo di maggior crescita. In gran parte ciò fu il risultato dell’incremento della produttività agricola che ebbe anche il merito, come in Cina, di assecondare il processo di industrializzazione. Alle loro spalle, è aumentata la legione di quei Paesi asiatici, un tempo oppressi dalla colonizzazione e dalla povertà, che oggi danno vita ad un fenomeno economico e tecnologico che passa sotto il nome di leap frogging, ossia del salto in avanti. Un esempio eclatante è quello della Thailandia, che ormai aspira a collocarsi nel rango dei Paesi sviluppati, vicina ormai all’obiettivo di divenire un Paese “donatore”, pronto ad assistere i Paesi più poveri. L’immagine che il visitatore ritrae dal fervore economico e industriale della Thailandia non lascia dubbi. Superato un periodo di crisi politica, Bangkok sta attraversando un boom turistico in cui gli alberghi a cinque stelle attraggono ricchezza. Lo sviluppo della zona portuale di Laem Chabang è anch’esso impressionante per la quantità delle industrie che l’attorniano e per la modernità ed estensione delle sue strutture di porto container.

A sud, la Malesia presenta uno sviluppo senza precedenti in un Paese con una popolazione etnicamente eterogenea. C’era un tempo in cui Paesi come la Malesia erano condannati alla crescita più bassa del loro reddito pro capite rispetto a quelli con popolazione etnicamente omogenea. Ma ora anche la Malesia ha fatto il gran balzo grazie ad un ambizioso programma di azione affermativa – la Nuova Politica Economica (NEP) – diretto a eliminare la diseguaglianza.
Il governo di Kuala Lumpur è riuscito a portare avanti una operazione di ristrutturazione etnica del lavoro e della proprietà industriale in un contesto di crescita economica spinta. In pratica, il forte tasso di crescita è andato di pari passo con il progresso verso gli obiettivi di azione affermativa. In altri termini, la buona gestione della politica etnica sospinge oggi la Malesia verso la sua inclusione entro il 2020 tra i Paesi totalmente sviluppati. Anche qui il visitatore non può che ammirare le moderne infrastrutture, a cominciare dalle famose torri Petronas, un tempo le più alte del mondo con i loro 452 metri, gioielli iper-tecnologici concepiti con schemi geometrici di tradizione islamica e motivi dell’artigianato della vecchia Malesia.

Autostrade moderne, treni ad alta velocità, sistemi di trasporto urbano con metropolitane tecnologicamente avanzate, oltre che alberghi cinque stelle a iosa, stanno rapidamente cambiando il volto di metropoli asiatiche che una volta erano sinonimo di poveri agglomerati urbani senza speranza. Ma quello che il visitatore percepisce quasi ovunque è il senso di stabilità e prosperità economica, dagli sfarzosi negozi che offrono prodotti griffati agli empori che vendono di tutto. Nelle grandi città asiatiche si assiste ad una vita pulsante, fino al punto da rimanerne sopraffatti nei grandi mercati all’aperto, come il Chatuchak di Bangkok, che con i suoi 8.000 posti vendita è una tentazione irresistibile per lo shopping che richiama, dicono, più di 200.000 visitatori nel week end. Non verrebbero qui se non avessero soldi da spendere e le occasioni di acquisti non fossero allettanti.

L’India infine presenta un’evoluzione stupefacente. Non per nulla i cartelli pubblicitari dell’ente del turismo indiano sfoggiano lo slogan “Incredible India”. Il contrasto tra la modernità della nuova India e il sottosviluppo delle sue regioni ancora depresse fa parte della sconcertante realtà di una nazione che sta sforzandosi di risolvere i pressanti problemi creati dall’urbanizzazione. Una visita a Mumbai – con oltre venti milioni di abitanti, la quarta città più popolata al mondo -non può che aprire gli occhi ai problemi di una società che attraversa una drammatica transizione. Basta parlare con le donne che ormai chiedono a gran voce di venire empowered che in parole povere significa avere il diritto di decidere il proprio destino. Una recente inchiesta ha appurato che mentre l’89 per cento delle donne ritiene di avere le stesse opportunità culturali degli uomini, quando si parla di matrimonio solo il 14 per cento pensa di avere la libertà di scegliere il proprio partner. Più grave è la statistica secondo cui il 44 per cento delle donne teme l’oscurità.

Al tempo stesso, la proliferazione di banche, società multinazionali e industrie di tecnologia informatica sta cambiando non solo il volto della metropoli, ma le norme stesse di comportamento sociale. L’industria IT è il più importante motore della transizione della società in quella che è ormai la terza potenza industriale al mondo. Bangalore ne è la vetrina, una città giardino con una popolazione di 8 milioni di mezzo di abitanti, il dieci per cento dei quali lavorano nell’industria IT. Il prodotto di questa Silicon Valley indiana rappresenta l’8 per cento del PIL nazionale e il 20 per cento delle sue esportazioni.
Come è giunta a tanto l’India? Una prima risposta è semplice, per l’eccellenza della sua istruzione universitaria. Le radici del progresso tecnologico non sono recenti ma risalgono al 1947, quando il Primo Ministro Nehru realizzò gli Istituti Indiani di Tecnologia sul modello del MIT (Massachusetts Institute of Technology) americano. Un’idea che non è mai venuta ovviamente ai leader politici italiani. Ma questo è un altro discorso. Quello che importa segnalare è il “progresso visibile” non solo nel gigante tecnologico che è oggi l’India, ma nei Paesi del Pacific Rim come il Vietnam, che hanno colmato secoli di arretratezza e di miseria con la volontà di compiere il gran balzo in avanti. L’Asia avanza mentre l’Europa è impantanata. Un viaggio in Asia rafforza purtroppo questa conclusione.

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Marino de Medici è romano, giornalista professionista da una vita. E’ stato Corrispondente da Washington dell’Agenzia ANSA e Corrispondente dagli Stati Uniti per il quotidiano Il Tempo. Ha intervistato Presidenti, Segretari di Stato e della Difesa americani, Presidenti di vari Paesi in America Latina e Asia. Ha coperto la guerra nel Vietnam, colpi di stato nel Cile e in Argentina, e quaranta anni di avvenimenti negli Stati Uniti e nel mondo. Ha anche insegnato giornalismo e comunicazioni in Italia e negli Stati Uniti. Non ha ancora finito di viaggiare e di scrivere dei luoghi che visita. Finora è stato in 110 Paesi e conta di vederne altri.

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