Alla Biennale d’Arte di Venezia 2013, neo e post moderne isterie. Thomas Zipp e Ryan Trecartin

All’interno della variegata e rigorosa Biennale d’Arte di Venezia pensata da Massimiliano Gioni come sguardo filogenetico dell’umanità alle prese con il mistero dell’esistenza, passando attraverso l’esigenza di poterla compendiare in immagini e vivificare con l’immaginazione [1], il tema della devianza e della possessione da immagine (e la sua codificazione/classificazione iconografica) occupa un posto non trascurabile e, in certa misura rivelatore, per l’intero impianto dell’esposizione. La completa mediatizzazione del mondo contemporaneo fa sì, come scrive lo stesso curatore della Biennale, che:

«si rende manifesta una condizione che condividiamo tutti, e cioè quella di essere noi stessi media, di essere conduttori di immagini […] Oggi le immagini che ci posseggono sono migrate al di fuori dei nostri corpi. Siamo posseduti da immagini artificiali, create spesso allo scopo di dirci cosa comprare e in cosa credere». [2]

Questa isteria, questa condizione violenta o «nuovo regime dell’immaginario» che percorre il corpo sociale e investe i soggetti, ben al di là dei comportamenti indotti, fino a plasmarli secondo un conio di vera e propria trasformazione antropologica, è in qualche misura l’oggetto della ricerca espressiva di Ryan Trecartin e Thomas Zipp.

Il primo lavora sulla compulsione immaginaria a 360%, comparendo, con Lizzie Fitch, a Venezia sia all’interno della rassegna ufficiale ( all’Arsenale) sia alla Punta della Dogana, nella mostra Prima Materia (curata da Caroline Bourgeois e Michael Govan); il secondo invece, con attitudine modernista, tenta un approccio tassonomico alla sindrome isterica, circostanziandola alla sua osservazione e messa in opera come oggetto di discorso simbolico. Il suo lavoro Comparative Investigation about the Disposition of the Width of a Circle figura tra gli Eventi Collaterali a Palazzo Rossini in Campo Manin (a cura di Zdenek Felix, con il supporto organizzativo di KAI 10/ ARTHENA FOUNDATION Düsseldorf) .

Trecartin (coadiuvato dalla Fitch) conclude l’infilata dell’Arsenale con l’intervento Not Yet Titled, composto da quattro video dislocati in ambienti che fondono la dimensione domestica con quella da studio d’interni: una sorta di environment pubblico/privato che suggerisce la possibile estroflessione dei ruoli tra osservatore ed osservato.

In certo senso, la sua proposta – condotta come riflessione sul potere/possibilità sagomatrici dei nuovi media rispetto all’idealità effimera comportamentale che sono in grado di imporre oltre il possibile disagio e senso di vuoto che attanaglia i soggetti che rifiutano di adeguarsi ai modelli proposti – riassume bene, in termini di ambiguità futuribile, la tassonomica raccolta di opere e oggetti che Giani ha predisposto come un percorso di rispondenze simpatetiche evolvente dalle forme naturali a quelle artificiali.

In effetti, i lavori riguardano l’universo allucinato, istericamente postmoderno, sospeso tra internet e sitcom, reality e talent show, in cui si agitano teenagers truccati e logorroici, che, come nei precedenti lavori dell’artista texano, mostrano una genericità sessuale ambigua e promiscua. Un mondo, in cui la consistenza identitaria è costruita secondo i parametri immaginari di Second Life e pubblici di Twitter, dove il ritmo narrativo delle immagini è scandito da inserzioni rapsodiche, incongrue e confuse, sincreticamente tenute insieme dalla logica delle interruzioni pubblicitarie e delle testimonianze visive di You Tube.

In Prima Materia, invece Trecartin e Fitch presentano tre sculptural theaters: Public Crop (2011), Local Dock (2011), Porch Limit (2012), occupando la prima grande sala al piano terra della Punta della Dogana. Le installazioni sono veri e propri ambienti-scultura, adibite per proiettare, come sale cinematografiche, films e costituiscono una parte del progetto Any Ever (2009-11). In realtà, solo la prima ospita una visione (si tratta di Popular Sky, 2009) mentre le altre (Porch Limit, 2011, è un’aggiunta al progetto e funziona solo come puro referente architettonico) non prevedono proiezioni.

Funzionano come zone franche, con poltrone, divani e sedie ad interloquire con strutture a castello, dove il flusso identificativo dei personaggi che popolano gli schermi e l’intreccio frenetico della sceneggiature lascia spazio, per lo spettatore, ad ulteriori compressioni o alleggerimenti narrativi, suggeriti solo dalla dislocazione spaziale degli arredi.

Se, come sembra, i teatri rimandano agli ambienti dove l’autore vive con la Fitch ed altri tre amici/attori, la dimensione ‘interattiva’ della ricerca di Trecartin abbraccia in questo modo l’ambito comunicativo senza soluzione di continuità tra scambi di vita reale e virtuale, tra spirito comunitario e immaginario individuale, tra simbolica sociale e tribalizzazione mediatica, in sostanza tra la formatività plastica del potere e la resistenza/adattamento dei singoli.

Mentre Trecartin armeggia con la frenesia ansiogena dell’isteria multimediale per visionarne in qualche misura i recessi di senso e le future coordinate immaginali e immaginarie, Zipp conduce una scandaglio apparentemente storico e analitico nei confronti del suo oggetto, tanto da circoscriverlo – all’opposto dell’artista americano che lo devolve nel ricettacolo protettivo delle sue quasi sale cinematografiche – all’interno di una fittizia asettica clinica per malattie mentali.

La possessione da immagini, che sembra coinvolgere per l’artista tedesco soprattutto l’autore piuttosto che lo spettatore, viene ‘trasposta’ in costruzione artistica, mediante un confronto analogico con la scienza medica, attraverso la ricostruzione di un vero e proprio Istituto di ricerca, dove il quadro clinico pare articolarsi come un percorso espositivo. Il nosocomio di Thomas Zipp infatti è composto di otto ambienti: sala d’accoglienza, ufficio del direttore, biblioteca, ambulatorio, dormitorio, auditorio, area di svago e corridoio. Quadri, sculture, oggetti, referti e documenti, oltre agli arredi e strumentari medici tutto è prodotto dall’artista, che schizofrenicamente si sdoppia nel suo altro malato, proprio mentre offre allo spettatore la garanzia sensibile, attraverso l’installazione, di poter condurre il gioco della propria guarigione come medico.

Per quanto riguarda gli spunti referenziali di Comparative Investigation…, appare perlomeno, all’interno di questo quadro categoriale, poco cogente il riferimento adombrato dal titolo alla canzone di David Bowie The Width of a Circle (1970), da cui l’autore suggerisce essere stato ispirato soprattutto nella lettura subliminale del testo della popstar inglese come resoconto del suo rapporto ambivalente con la droga. Certo è che più che il richiamo al Nietzsche di Così parlò Zarathustra, gli pseudo filosofemi di Bowie sembrano rimettere mandato sapienziale a Il Profeta di Gibran, autore in voga nella controcultura pre New Age degli anni ’70, esplicitamente citato dal merlo parlante nella strofa della canzone in cui il cantante si riconosce come mostro[3]. Tant’è che la coesistenza degli opposti, alla base degli aforismi di Gibran, è la sola nota riconoscibile di un’influenza avvertibile in Zipp rispetto alla sua sintesi adialettica di paziente/medico.

Ben altra evidenza assume invece, nel contesto della verosimiglianza di tutta l’installazione a Palazzo Manin, l’interesse di Zipp verso l’espressione l’arc de cercle, utilizzata alla Salpêtrière da Charcot per connotare la posizione tipica assunta dalle isteriche durante le loro convulsioni.

Così come il ‘maestro’ di Freud aveva fatto per circoscrivere la specificità dell’evoluzione del disturbo nevrotico, fissandone la scansione in immagini esemplari quasi fosse su un set artatamente predisposto, con altrettanta abilità ‘visuale’ l’artista ci guida, attraverso gli spazi della sua casa di cura, lungo i meandri e i labirinti della psiche.

Il cursore diretto sulle immagini visualizzerà le didascalie; cliccare sulle stesse per ingrandire.

Note

1.  «Al centro dell’esposizione si pone una riflessione sui modi in cui le immagini sono utilizzate per organizzare la conoscenza e per dare forma alla nostra esperienza del mondo. Ispirandosi a quello che lo studioso Hans Belting ha definito un’”antropologia delle immagini”, la mostra avvia un’indagine sul dominio dell’immaginario e sulle funzioni dell’immaginazione» ( M.Gioni, È tutto nella mia testa? in Il palazzo enciclopedico. Vol I, Venezia, Marsilio, 2013, p. 23).

2.  Ibid. p.24-5.

3.  “…Then I ran across a monster who was sleeping by a tree… And I looked and frowned and the monster was me… Well, I said hello and I said hello… And I asked Why not and I replied I don’t know… So we asked a simple black bird who was happy as can be… And he laughed insane and quipped KAHLIL GIBRAN” (D.Bowie, The Width of a Circle, lyrics)

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Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.

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