Vera Comploj: da Bolzano a New York. Non solo Drag Queen. L’intervista

Prima domenica di settembre a New York: la città si sveglia dal torpore estivo. I clacson suonano intorno a Eleanor Roosevelt Park, al confine tra Chinatown e Bowery. A due passi da qui la storica Marlborough gallery inaugura il nuovo spazio in Broome Street, il pubblico accorre all’insegna di Pizza Time! I suoni delle voci aumentano e intanto la luce del giorno si dilegua. Seduta su una panchina Vera Comploj (Bolzano 1983, vive a New York) – selezionata da Vogue US per la serie Persona che è stata esposta alla Milk Gallery di New York nel 2012 e, nello stesso anno, ha partecipato alla collettiva Be Hospitable alla Biennale di Liverpool – parla del suo lavoro ma anche dell’amore per New York, dove vive dal 2009. Qui, ma anche a Washington, Los Angeles e San Francisco la giovane fotografa ha realizzato il lavoro sulle drag queen che l’ha fatta conoscere al livello internazionale. Nel corso del 2013 In between è stato esposto al Museion di Bolzano e poi al Museo d’Arte Contemporanea – Villa Croce a Genova.

Partiamo dalla fotografia di moda…

Ho sempre voluto fare la fotografa, fin da piccola. Forse è stato mio padre a farmi amare la fotografia, ma anche un po’ odiarla. Lui è una guida alpina e ha sempre documentato le scalate che ha fatto: ogni domenica ci si doveva riunire a casa Comploj, a Selva Val Gardena. per vedere le sue imprese. Dopo il liceo artistico, che ho frequentato a Bolzano, mi sono spostata a Milano dove ho studiato fotografia alla CFP Bauer. Avrei dovuto frequentare il secondo anno, ma mi sono sentita già pronta per cercare lavoro come assistente di un fotografo di moda, volevo rendermi autonoma dai miei genitori e andare all’estero. Alla Bauer, in realtà, si facevano prevalentemente progetti artistici, quindi ero sempre un po’ metà tra un progetto artistico e la moda. Da Milano sono andata a Londra dove ho fatto una ricerca dei miei dieci fotografi preferiti. Uno di loro era il fotografo inglese Ben Hassett. Quando lo contattai mi disse che gli sarebbe piaciuto incontrarmi ma all’epoca viveva a Parigi, gli risposi che non c’era alcun problema, presi il pullman e due giorni ero da lui.

Questo succedeva nel 2007…

Sì, se avessi saputo che sarei rimasta a lavorare con lui così a lungo forse avrei preso l’aereo! Ben mi fece un’intervista e mi prese subito come sua assistente. Secondo me a convincerlo fu la mia risposta istintiva che, anche se ero a Londra, in due giorni lo avrei raggiunto a Parigi. Il mio portfolio, che era in assoluto il primo che avessi mai fatto e conteneva lavori fatti alla Bauer, gli piacque. C’era un po’ di tutto, paesaggistica, ritratti… Il nostro interessantissimo meeting durò due ore durante le quali anche lui mi fece vedere i suoi lavori. Tre settimane dopo mi trasferivo a Parigi per lavorare con lui.

Cosa ti ha fatto scegliere Ben Hassett tra i tuoi dieci fotografi preferiti?

Avevo visto le sue fotografie sui vari Vogue e mi piaceva il suo punto di vista molto pulito e geometrico. Ero anche curiosa di vedere che persona ci fosse dietro quelle immagini, ma non mi aspettavo che fosse così giovane. Quando ho suonato alla sua porta avrà avuto trentatrè anni. E’ stato straordinario lavorare per lui. Per i primi due anni, a Parigi, ho lavorato full time. Io gli ho dato tantissimo, ma anche lui a me. Con lui ho potuto lavorare con la pellicola, anzi proprio vedendo il mio interesse per la camera oscura ne abbiamo costruita una nel suo appartamento. Se fotografavamo in bianco e nero ero io a sviluppare i magari 50 rullini usati per il servizio per Vogue. Durante i weekend lui andava via e mi lasciava usare la camera oscura. Come tanti artisti Ben ha un carattere molto forte, differentemente dal mio di allora. Forse è per questo che sono stata l’unica assistente che è riuscita a rimanere a lavorare così a lungo con lui. Del resto ero appena uscita dalla scuola e preferivo imparare, piuttosto che lavorare con qualcuno che mi lasciasse fare quello che volevo. E’ stata una sorta di terapia d’urto e credo che abbia funzionato abbastanza bene, anche perché per vivere e lavorare a New York bisogna avere un carattere molto duro.

Dal punto di vista tecnico quale è stato il suo insegnamento?

Mi è sempre piaciuto che Ben portasse avanti, accanto ai suoi lavori di moda, anche le ricerche personali, lavori che sono molto diversi da quelli di moda. Ha anche una profonda conoscenza della storia della fotografia e questo mi ha stimolato molto. Non mi ha mai visto solo come assistente, ma anche come fotografa. Lui stesso mi dava i rullini da portarmi in Italia durante le vacanze di Natale e, quando tornavo, era curioso di vedere quello che avevo fatto. Diversamente da altri mi diceva che durante i servizi anziché andare a spostare le luci o cose del genere, dovevo sempre stargli accanto nel momento in cui scattava. Eravamo noi a dirigere gli altri e io dovevo sempre osservare il suo punto di vista, perché vedere la reazione della luce da davanti, piuttosto che di lato, è sicuramente più importante.

Da Londra a New York…

Per me è stato molto importante stare vicino a Ben Hassett durante la sua evoluzione personale e professionale. L’ho seguito anche qui a New York dove è stato preso da Art + Commerce, una delle migliori agenzie per fotografi di moda. Nel frattempo ha messo su famiglia, ha una moglie e due figlie, un appartamento a Manhattan… insomma deve sbarcare il lunario. La fotografia, per lui, è diventata da creatività pura a business.

Parallelamente hai portato avanti il tuo lavoro personale sulle drag queen che è stato esposto anche al Museion di Bolzano…

Gli anni che ho trascorso a Parigi mi hanno aiutata molto a osservare e imparare, così quando sono arrivata a New York sono esplosa. Ho sentito il bisogno di fare qualcosa per me. Visto, però, che durante il giorno lavoravo moltissimo per Ben, e spesso anche nei weekend, non rimaneva che uscire di notte. Era l’unico momento in cui potevo spegnere il cellulare, evitare di guardare le mail e non avere nessuno che mi assillasse, insomma vivere un mio mondo molto parallelo da quello diurno. Parallelo anche rispetto al mio stile di vita, perché quello delle drag queen è completamente diverso dal mio mondo. A Washington ho avuto per la prima volta la possibilità di fotografare un backstage di drag queen e lì ho capito subito che mi interessava intraprendere quel percorso.

Washington, New York, San Francisco e Los Angeles…

La ricerca iniziata a Washington è proseguita a New York e nelle altre città. Ma già qualche anno fa, quando ho trascorso un anno a Firenze, il mio ex coinquilino frequentava una drag queen. Non era, quindi, un tema del tutto sconosciuto. Questo progetto, in realtà, è nato in maniera casuale ma poi mi ha appassionata sempre di più. Sono una persona a cui piace ascoltare e nel mio lavoro di fotografa c’è questa curiosità di conoscere persone nuove. E’ anche una sfida, naturalmente.

Quali sono state le maggiori difficoltà nel portare avanti questo progetto? Lo consideri concluso?

Per un fotografo dire che un progetto è concluso è veramente difficile, anche perché si tratta di un lavoro fatto insieme a delle persone. Un rapporto che continua, anzi in alcuni casi è diventato un’amicizia vera. Ad esempio con Tiara Qistina, che è di Singapore e abita qui a New York, ho girato anche il video. Tiara è stata una delle prime persone che ho fotografato, lei mi ha aiutata psicologicamente ad entrare nel suo mondo. Afferma di vivere per seguire i suoi sensi: in ogni paese si concentra su un certo senso. Ora, a New York, sta attraversando un capitolo della sua vita in cui il senso che sta elaborando è l’udito.

Nel progetto In Between hai fotografato anche a colori, ma è il bianco e nero a prevalere…

Sì, nel caso delle drag queen ho scattato prevalentemente in bianco e nero perché mi piaceva questo grande distacco tra il nero e il bianco che è lo stesso tra uomo e donna. In loro, tuttavia, c’è una certa complementarietà. Il linguaggio del bianco e nero, poi, è quello che mi ricorda la notte. Nello stesso tempo ho voluto lasciare spazio alla fantasia del pubblico, perché il mondo delle drag queen è molto colorato di per sé e bisognava lasciare la possibilità di riflettere.

Il soggetto potrebbe essere provocatorio, ma il tuo modo di fotografare non lo è affatto…

Le mie foto non sono provocatorie perché penso che nell’era in cui viviamo ci sia già abbastanza provocazione, basta aprire una qualsiasi rivista di moda. Le considero più dei ritratti che sono la risposta alle conversazioni che ho con queste persone. Non mi interessava “venderle” come oggetti sessuali. Anche il fatto di fotografare con la Rolleiflex con solo 12 scatti è stato significativo, perché diversamente da quando si fotografa in digitale, stando tutto il tempo a vedere quello che si è fotografato, con la pellicola s’instaura una relazione diversa con il soggetto. C’è anche una percentuale di casualità che trovo molto bella.

Dopo l’esposizione al Museion la mostra è andata a Genova, in occasione di un festival sulle identità sessuali…

E’ stato molto bello perché il progetto di In Between è stato presentato nel ghetto di Genova, un quartiere vicino al porto pieno di vicoli stretti e molto bui dove ci si può perdere facilmente. Vivono lì soprattutto gli extracomunitari, ma c’è anche una piccola comunità di prostitute transessuali italiane che hanno tra i 50 e i 70 anni. Persone che hanno lasciato i loro paesi e città trovando rifugio in quella specie di comunità che è come una famiglia per loro. Lavorano da mezzogiorno alle sette di sera in piccole stanze che chiamano bassi: è il loro ufficio. Anche Lisetta Carmi le ha fotografate già alla fine degli anni Sessanta, documentando il loro mondo. Qualche anno fa l’amministrazione comunale voleva mandarle via con l’idea di riqualificare il quartiere, ma ci fu una grande mobilitazione di molti cittadini, sostenuta dalla Comunità di San Benedetto del Porto – Don Gallo è sempre stato vicino agli emarginati – grazie alla quale sono ancora lì. In occasione della presentazione del progetto sono nate nuove idee e sono stata invitata a tornare a fotografare. Purtroppo nel frattempo Don Gallo è morto, ma qualche mese fa sono tornata a Genova per una settimana per documentare la sua stanza con tutti i suoi oggetti, i suoi abiti, il cappello e ho fotografato anche tre prostitute transessuali. Il progetto è un work in progress che non reputo parte di In Between, perché è molto diverso, anche se è comunque basato su una ricerca di identità.

Un’ultima domanda su New York dove hai scelto di vivere. Cosa ti affascina di questa città?

Sono una fan spietata di questa città! Il bello è che New York non è di nessuno. Le persone arrivano da diverse parti del mondo, per la maggior parte, da sole. Forse è per questo che ci si aiuta tutti, considerando le difficoltà di iniziare una nuova vita in un paese nuovo. Si percepisce questa forza dei legami, anche se certe volte sono conoscenze di solo pochi giorni.

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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