Four Season Restaurant. Romeo Castellucci e il compiersi del verbo

The Four Season Restaurant - Ph. Christian Berthelot

Se fosse concesso recitare un mea culpa, sarebbe d’uopo ripeterlo per diverse ragioni: prima su tutte, per non aver percorso assieme a Castellucci, la strada degli incontri di riflessione critica che spianano la strada alla comprensione, in medias res per saperne niente rispetto a La morte di Empedocle firmato Friedrich Hölderlin e in ultimo invece, per la convinzione che il teatro viva d’immediatezza e che a convincere debbano essere il qui e l’ ora, senza naturalmente scartare lo storico, ma per far sì che quest’ultimo debba essere solo un completo d’arredo che sigilli quanto appena accaduto sul palco.

La prima cosa di cui ci si è accorti, è stata una tecnica impeccabile diluita tra cura estrema del suono e della fotografia, che ha raccontato con ferocia apertura e chiusura di questo The Four Season Restaurant, dopodiché, nel mezzo, largo spazio ad un ambiente in cui spiccava la ricostruzione di una palestra occupata da un gruppo di eteree fanciulle marchiate da una stringa rossa sugli avambracci, come facenti parte di una comunità non definita. Gli orpelli delle bandiere appese, il classicheggiare del verso Holderliano, la simulazione del parto e in ultimo una pistola d’oro zecchino che tatua un’impronta sicura sul palmo di chi la impugna potrebbero essere quanto di più inarrivabile per un’analisi in stile logico, e non tanto per la disabitudine alla critica nei riguardi di un teatro di ricerca, quanto per un senso di disorientamento aperto da impercettibili fessure nel mezzo di una quasi immobilità, altro non fosse che per un testo recitato con ogni fibra di ogni arto, poiché la palestra non risiede soltanto in una vecchia spalliera di legno, ma nel compiersi del verbo lanciato in un’acrobazia ginnica dei corpi.

Quando l’andamento pare essersi concesso il lusso di una linearità, invece, accade il comprensibile, per lo meno per gli assetati di mistero. Accade d’ascoltare il fracasso di un cosmo che si svela in tutta la propria franchezza, sconvolgendo i cinque sensi, fastidiandoli e corrompendoli ad una supplica nel non essere abbandonati proprio in quello stesso istante. S’intravede qualcosa, che siano le riflessioni analitiche su quanto detto rispetto al cedere alla sottrazione da parte dell’artista, o forse il rifiuto dell’inquinamento sociale in materia d’immagine, fatto è che ci si sente tanto in accordo quanto comprati rispetto a ciò che accade in quanto accade con una tale maestria, con una tale inversione di senso (vedi il sipario che si tira indietro scoprendo la carcassa di un cavallo), che sarebbe meschino non rimanerne scioccati.

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Maria Rita Di Bari è un acquario del 1986. Si laurea in lingue con una tesi sulla giustizia letteraria dedicata a Sophia de Mello Breyner Andresen e scrive di critica teatrale e cinematografica per testate quali Repubblica.it, “O”, “Point Blank” e “InsideArt”. Ha pubblicato con Flanerì un racconto dal titolo “La fuga di Polonio”.

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