Festival Internazionale del Film di Roma 2013. Quartetto all’italiana

L'ULTIMA RUOTA DEL CARRO_Germano-Memphis

Tra i film presentati al Festival Internazionale del Film di Roma ce n’erano anche di italiani, tra cui: L’ultima ruota del carro di Giovanni Veronesi (FC), I corpi estranei di Mirko Locatelli (C), Song’e Napule dei Manetti Bros. (FC) e Take five di Guido Lombardi (C). Sono quattro storie di persone normali, di caratteri comuni, di personaggi verosimili.

L’ultima ruota del carro (al cinema dal 14 novembre) racconta la vita di Ernesto Fioretti (Elio Germano), figlio di tappezziere, che attraverso gli anni (dai Sessanta ad oggi) si dipana raccontando in parte il privato e in parte la nostra Storia. Ernesto è un uomo mite, gran lavoratore, onesto, capace di affetti sinceri. Molto giovane si sposa con la sua amata Angela (Alessandra Mastronardi) e il suo migliore amico rimarrà sempre (e nonostante tutto) il simpatico faccendiere Giacinto (Ricky Memphis). Ad insegnargli, sin da piccolo, che non ha voce in capitolo perché è solo «l’ultima ruota del carro» sarà il padre (Massimo Wertmüller), un uomo duro, figlio della sua epoca, che sicuramente cova un amore immenso senza saperlo, però, spiegare. Un uomo che, forse, si è sempre sentito lui per primo l’ultima ruota del carro e si preoccupa solo che Ernesto possa avere un posto sicuro nel mondo, magari accanto a lui.
Il figlio, però, è stato raccomandato per un posto fisso nella mensa di una scuola materna e, avendolo ottenuto, abbandona il lavoro di tappezziere: questa iniziativa segnerà un punto di rottura insanabile tra i due. Ernesto, tuttavia, sulla scia delle emozioni del Mondiale vinto nel 1982, lascerà quest’ultima occupazione per mettersi in affari con Giacinto in una propria impresa di traslochi. Svolgerà questo lavoro, a fasi alterne, per 40 anni, percorrendo l’Italia in lungo e in largo e, nel frattempo, guardando dal suo finestrino l’Italia in movimento e gli italiani alla ricerca del proprio posto.
Il film di Veronesi scorre via naturalmente – complice un cast affiatato e tangibile nei propri caratteri – come sfogliare le pagine di un album di famiglia, ripercorrendo la propria storia e quella del Paese dalle fotografie in bianco e nero a quelle in digitale. È un film su un uomo che cammina nel Tempo, dalla gioventù alla vecchiaia sempre accanto alla stessa donna, incapace di imporsi, di ribellarsi, a volte vittima ingenua per quanto sospettosa, ma che riesce a trovare anch’egli la sua catarsi. Quella voce sopita, ma non spenta, il giorno in cui aveva creduto di essere (un po’ per finta, un po’ per davvero) «l’ultima ruota del carro».

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Voltando pagina incontriamo I corpi estranei. Qui la cinepresa racconta la soggettiva di Antonio (Filippo Timi), padre di un bellissimo bambino, Pietro, malato di tumore al cervello, che per seguire le cure del figlio si trasferisce momentaneamente nell’ospedale milanese dove il piccolo deve essere operato. Il resto della famiglia, moglie e due figli, sono rimasti a casa. Antonio è solo, in un contesto spaesante ed estraniante come può essere un ospedale, le cui corsie diventano ricovero di angosce, dolori, paure e nuovi (forzati) incontri.
Qui Antonio conoscerà Jaber (Jaouher Brahim), quindicenne tunisino che assiste l’amico Youssef gravemente malato, senza mai riuscire a trovare con lui un vero contatto, nonostante i tentativi di “integrazione” del ragazzo. I due si avvicineranno e allontaneranno lungo tutta la pellicola, senza però mai toccarsi, sentirsi davvero. Sono come due rette parallele che di quando in quando si dimenticano di non potersi intersecare, e si sfiorano. Per poi abbandonarsi ancora alle proprie solitudini, alle proprie attese.
Il film di Locatelli ha di reale quel senso di incompiutezza che a volte certe relazioni possono lasciare addosso. Quel senso di sospeso. Ha di reale un rapporto che non si esprime in lunghi abbracci e sguardi partecipi, che non è subito (né mai) amicizia fraterna, ma che in fondo lo vorrebbe. Ha di reale la distanza che non crolla, ma si incrina un po’ di fronte alla sofferenza dell’altro. È un film veritiero, o almeno verosimile, tanto che a volte si vorrebbe che fossero i protagonisti a guardare anziché essere guardati. Vorremmo essere sempre gli occhi di Timi-Antonio (splendido nel ruolo di padre) e di Brahim-Jaber (giovane ma non sprovveduto), e non della cinepresa, che ha il difetto di inquadrare la strada fatta e non quella, ancora, da fare.
Da sottolineare, infine, le magnifiche musiche dei Baustelle che accompagnano l’avvicendarsi di questi due corpi estranei.

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Proseguiamo, dunque, con i prossimi due film con i quali apriamo il capitolo partenopeo. Il Fuori Concorso Song’e Napule  è molto divertente, fa ridere senza sforzarsi di far ridere, senza ricercare la battuta a tutti i costi, portando in sala una comicità spontanea. Si parla di raccomandazioni (fenomenale Carlo Buccirosso nel ruolo del Questore Vitali), di Camorra, di cantanti neomelodici e di Napoli.
Paco Stillo (Alessandro Roja) si è laureato al Conservatorio, ma con una spintarella entrerà in Polizia e due anni dopo lo ritroviamo in procinto di infiltrarsi in un’operazione per arrestare un potente boss di camorra: Ciro Serracane (Peppe Servillo), detto Fantasma perché nessuno sa che volto abbia. L’occasione sarà il matrimonio della figlia Antonietta Scornaienco, al quale dovrebbe partecipare anche Serracane.
Paco, nonostante sia riluttante, dovrà entrare a far parte del gruppo di Lello Love (Giampaolo Morelli), amatissimo cantante neomelodico ma che lui non stima affatto, come tastierista assumendo l’identità di Pino Dynamite. Una volta alla festa dovrà fotografare col cellulare il Fantasma, per permettere così alla squadra guidata dal Commissario Cammarota (Paolo Sassanelli) di identificarlo e arrestarlo. Ma il compito si rivelerà ancora più difficile di quanto Paco potesse immaginare…
Il film di Antonio e Marco Manetti, nato da un’idea di Giampaolo Morelli, non delude. È una commedia che guarda Napoli con affetto, nonostante i suoi mille difetti, e della quale pian piano lo stesso protagonista si innamora anche grazie all’affetto, ricambiato, per la sorella di Lollo Love, Marianna (Serena Rossi), che avrà il compito di traghettarlo lungo un percorso di riscoperta della sua città. È un poliziesco fresco e arioso, con più risate che drammi, che mette al posto giusto i buoni e i cattivi. Magari la realtà fosse come questo film, l’ultimo, è giusto ricordarlo, prodotto da Luciano Martino (1933-2013).

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Di altra atmosfera, invece, è Take Five. Napoli, giorni nostri. Cinque “irregolari” – Sasà (Salvatore Striano), Sciomèn (Peppe Lanzetta), Ruocco (Salvatore Ruocco), Gaetano (Gaetano Di Vaio) e Carmine (Carmine Paternoster) – tentano il colpo grosso in banca, decidendo di accedere ai caveau attraverso le fogne, che si rivelano un vero e proprio mondo sotterraneo.
Il film di Guido Lombardi è uno spaghetti-gangster, cullato da un’anima jazz che influenza la pellicola già dal titolo (sta per take five minutes, un modo per dire “prendiamoci una pausa”, ed è anche, e soprattutto, il nome di una canzone omonima di Dave Brubeck). Il colpo, per i cinque, rappresenta una rivalsa rispetto alla loro condizione, una via di fuga dallo stallo e la mediocrità in cui sopravvivono.
Il regista ha voluto fortemente questo cast, e ha fatto bene, rinunciando anche a nomi importanti. È stato in grado di creare un gruppo compatto e affiatato, credibile. Il finale, poi, farà chiudere il cerchio, liberando Sasà, Sciomèn, Ruocco, Gaetano e Carmine dai loro fantasmi. Definitivamente.

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Ognuno di questi quattro film è un buon film, a modo suo, con il dono del racconto. Piacciano o meno, non penso sia discutibile la grande forza narrativa che appartiene al nostro cinema, così introspettivo e attento ai particolari, alle personalità. A volte sarebbe bello vedere esplodere di più le inquadrature sopra i tetti di Roma o lungo il golfo di Napoli o su qualunque delle nostre verdi vallate, a perdita d’occhio. Ma finché i caratteri italiani saranno così interessanti, e i registi all’altezza di essi, saremo in grado di vedere anche ciò che non si vede.

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Giornalista pubblicista dal 2012, scrive da quando, bambina, le è stato regalato il suo primo diario. Ha scritto a lungo su InStoria.it e ha aiutato manoscritti a diventare libri lavorando in una casa editrice romana, esperienza che ha definito i contorni dei suoi interessi influendo, inevitabilmente, sul suo percorso nel giornalismo. Nel 2013 ha collaborato con il mensile Leggere:tutti ma è scrivendo per art a part of cult(ure) che ha potuto trovare il suo posto fra libri, festival e arti. Essere nata nel 1989 le ha sempre dato la strana sensazione di essere “in tempo”, chissà poi per cosa...

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