La mostra che non ho visto #50. Riccardo Caporossi

Riccardo Caporossi in un ritratto di Dino Ignani
Riccardo Caporossi in un ritratto di Dino Ignani

Premetto che oggi mi sembra ben difficile non poter conoscere qualsiasi cosa venga messo in mostra, anche una sola immagine di riferimento può scorrere di fronte al nostro sguardo. Molteplici sono i mezzi di riproduzione e altrettanti i mezzi di distribuzione che promuovono l’evento.

Forse bisognerebbe essere “ciechi” perché l’immaginazione si alimenti di un racconto orale o si affidi ad un frammento per stimolare la nostra percezione. Dico questo perché credo di interpretare il senso di “la mostra che non ho visto” come una riflessione comparata per mettere in moto: memoria, logica, conoscenza, sentimento, sensazioni, alterazioni, fede, metafisica, filosofia, gioco, stato sociale, storia e chi ne ha più ne sciolga. Insomma il corpo; il nostro corpo che reagisce. Così tutto comincia a mescolarsi per produrre uno stato di intima e sincera contemplazione.

Questa “messa in moto” scaturisce da una impressione. Un input che scuote e scatena i sensi (non ultimo il senso di colpa).

Veniamo al dunque, all’oggetto: “la mostra che non ho visto”.

Le mostre che non ho visto sono tante ma quella di cui la perdita mi induce a scrivere è quella di Anselm Kiefer, artista contemporaneo di origine tedesca. Una piccola pubblicazione mi dà notizie: Anselm KieferI Sette Palazzi Celesti – . Sette torri, sette campanili, sette costruzioni giganti; presenze in “quiete” che sembrano sfidare la nostra mancanza di quiete. Tale è la loro mole e la loro rudezza che si stagliano come uniche testimonianze di un paesaggio desertificato, ormai in rovina.

Kiefer è nato in Germania nel 1945, quando è finito tutto; figlio tedesco delle e tra le macerie. Non si salverà neanche lui dalla mancanza di indulgenza di Primo Levi che ha avuto il coraggio, fino alla morte, di svelare la macchina dello sterminio, inerme e impotente a ribellarsi ad essa, battendosi per evitare l’assuefazione a quella degradazione che avvicina la sua opera alla visionarietà sconcertante dei paesaggi, umani e non, di Samuel Beckett.

Kiefer sembra avere tutto ciò presente. La storia tedesca e la sua rimozione collettiva sono il suo punto di partenza; interrogandosi, attraverso l’opera, su quale possa essere il ruolo di un artista tedesco dopo l’Olocausto. Le sette torri si ergono non tanto come testimonianza, quanto come un percorso di redenzione da quel passato infausto. I sette gradi di questa scalata mirifica sono i sette palazzi celesti che si innalzano come dita per cercare di toccare e scalfire il cielo ma anche come misura umana, troppo umana, per riuscire a sollevarsi oltre dal nostro ancoraggio, con piedi di piombo, alla terra.

Ma torniamo con “la mostra che non ho visto” alla “messa in moto” di una riflessione; questa volta come se la guardassi dal buco della serratura di due porte, una ha impresso sulla targa: Architettura; l’altra: Teatro. Il comune denominatore è il nostro ruolo di spettatori. Immagino il visitatore zig-zagare tra questi palazzi come nei quotidiani itinerari cittadini che, spiando dall’altra porta, ci fa comparse (nonostante il nostro desiderio di protagonismo) tra quelle quinte armate come totem eretti in una radura. Ci si aggira tra i resti e gli abbandoni che il tempo ha lasciato scivolare a terra, ormai privi di vita e polverosi. Oppure si avanza per scalare queste torri quasi immedesimandosi in un anacoreta in cima alla colonna. Forse è su quel piedistallo la provocazione dell’operare dell’operaio Kiefer. Ogni torre conserva o protegge sulla sua sommità, come uno scrigno a cielo aperto, vari elementi con i quali, sempre l’operaio, legge e interpreta il mondo e li consegna a noi spettatori, vicino o lontano, come frammenti caduti che presto si polverizzeranno sull’arido suolo o come fragili forme che si stagliano a contatto con il cielo per il desiderio ascetico e mistico. Altro comune denominatore tra Architettura, Teatro e Spettatori: il dolore di una perdita.

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Nato mezzo secolo fa a Roma e morto nel futuro, non attraversa di buongrado la strada senza motivo. Impiegato prima in un forno in cui faceva arte bianca poi del terziario avanzato, da mancino dedica alle arti maggiori la sola mano sinistra. Allestisce, installa, fa deperire, dimostra, si confonde, è uno scadente imbonitore, intelligentissimo ma con l’anima piuttosto ingenua. Ha fondato in acqua gli artisti§innocenti, gruppo di artisti e gente comune, che improvvisa inutilmente operette morali. Tra suoi progetti: la Partita Bianca (incontro di calcio uguale), una partita notturna tra due squadre vestite di bianco, a cura di ViaIndustriae, Stadio di Foligno 2010 e, in versione indoor, Reload, Roma 2011 e Carnibali (per farla finita con i tagliatori di carne), Galleria Gallerati, Roma 2012.
Ha contribuito alla performance collettiva TAXXI (Movimento di corpi e mezzi al riparo dalle piogge acide contemporanee) prodotto dal Dipartimento Educazione del Maxxi nel 2012. Sua la cura del Premio città etica (per l’anno duemilae...) e del Premio Retina per le arti visive.

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