Furini ha lasciato Roma, viva Furini. L’intervista

Arezzo, Benoit Pailley. Image Furini Arte Contemporanea
Arezzo, Benoit Pailley. Image Furini Arte Contemporanea

“La crisi è la più grande benedizione per le persone e le Nazioni, perché porta progressi.
La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura.
E’ nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie.
Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato.”
Albert Einstein

Cultura e ricerca innescano innovazione, progresso e sviluppo. Ma quando l’economia di un Paese presenta un segno negativo si tagliano in primis spese e finanziamenti destinati proprio a questi settori.
Quella che stiamo vivendo oggi è una crisi strutturale, economica e sociale, oltre che di rappresentanza, che ci parla della difficoltà di immaginare un futuro, della fatica di costruire un’alternativa.
Da questo stato di perenne emergenza nessun campo è immune. Nello specifico, negli ultimi anni sono davvero molte le gallerie romane costrette a chiudere o a cercare nuovi escamotage per alleggerire i crescenti oneri fiscali.
Ne abbiamo parlato con i galleristi della Furini Arte Contemporanea, struttura che abbandona anch’essa il suo spazio a Via Giulia per tornarsene nella città natale – Arezzo -, lasciandosi alle spalle l’austera Capitale.

Come è cominciata e quando l’esperienza a Roma, sopratutto perché avevate deciso di aprire una galleria proprio in questa città?

“L’inizio dell’avventura romana è cominciata nel 2009 ed è stata un’esperienza ricca di soddisfazioni. La città si presentava molto recettiva e soprattutto si sentivano chiaramente l’entusiasmo delle giovani gallerie e l’aria dei nuovi Maxi e Macro. Per questo abbiamo pensato a Roma piuttosto che ad altre città, grazie al fermento che si respirava e alle prospettive di sviluppo che erano già apprezzabili.”

Come mai ora siete pronti ad andarvene, e sopratutto con che spirito lo fate?

“Come abbiamo già anticipato ad amici e followers, non viviamo questo spostamento in modo drastico. Si tratta di spostare fisicamente, anzi traslare, qualcosa che in realtà non cambia il suo contenuto. Quindi stessi progetti, stessa ricerca, stesso impegno nazionale e internazionale, ma aprendoci ad altri spazi. Uno è ad Arezzo, in una suggestiva chiesa sconsacrata del XVI secolo, nel centro storico della città. L’altro è una project room a Rijeka (Fiume) in Croazia, per aprire una porta su un’area che ci intriga e ci interessa molto. Di sicuro il nostro legame con l’artista Nemanja Cvijanovic ha favorito questa decisione. Siamo quindi molto carichi e pieni di idee che non vediamo l’ora di realizzare, cercando appunto di fare le stesse cose in maniera diversa, perché in momenti particolari/difficili come quello che stiamo vivendo, non si può stare ad aspettare che qualcosa cambi, è necessario muoversi.

In Italia le gallerie vengono calcolate alla stregua di normali negozi?

“Sì, pensiamo, per esempio alle utenze da pagare… Questo atteggiamento ci parla più nel profondo di cosa significa “fare cultura” nel nostro Paese e sopratutto come viene considerato chi la produce.
Purtroppo tutto il sistema economico contemporaneo in genere è concentrato in ciò che è commerciale e consumistico, che dà quindi risposte economiche immediate, mentre la cultura è ben altro. A nostro avviso le cause di questa errata interpretazione sono da ricercare nella dispersione delle potenzialità, nell’improvvisazione di certi attori di questo scenario che purtroppo va a scapito di categorie intere: infiniti artisti, curatori, critici, galleristi e quant’altro, ma solo una parte sono realmente dei professionisti, con formazione ed esperienza appropriate. Gli altri tirano su castelli di sabbia… Così si genera una nebulosa di un tutto che si distingue con difficoltà, ma che alla fine porta ad avere una visione distorta e senza dubbio più scadente di tutto l’insieme.
Chi ama l’arte in Italia(e la compra) sembra orientarsi verso il lontano passato o verso artisti e opere della prima modernità, ormai da tempo acquisiti.”

Secondo te perché non si riesce ad intravedere la portata di vitalità che il contemporaneo porta con se’?

“Purtroppo la cultura del contemporaneo è debole. Se da una parte manca una vera e propria educazione in senso didattico – ad esempio perché in Italia, come da programmi ministeriali, la storia dell’arte contemporanea si conclude con la Transavanguardia il più delle volte! – dall’altra c’è proprio un timore a priori del nuovo, di ciò che non è conosciuto e quindi prevedibile.”

Nella vostra galleria come selezionate gli artisti? Su che basi?

“La selezione degli artisti è qualcosa di molto delicato, è la somma di tanti elementi che è difficile approfondire in poche battute. Certamente noi seguiamo le nostre inclinazioni che sono il frutto della nostra sensibilità personale e della nostra esperienza. Ci piace seguire gli artisti che ci hanno colpito fin dai tempi del college e dell’accademia, poi al momento giusto, se si ritiene ci siano le basi per fare progetti, iniziamo a pianificare con lo stesso artista per creare un percorso. Poi ci sono gli artisti il cui percorso ad un certo punto si incrocia con il nostro, e da qui nascono nuovi progetti insieme.”

La vostra è una galleria che fa ricerca, come tale si muove su un terreno sperimentale difficile da attraversare ( ma che contribuisce attivamente a rivitalizzare il terreno dell’arte). A tuo parere come potrebbero e dovrebbero essere aiutate gallerie e progetti che partono con questo spirito?

“Di sicuro non si favorisce un contesto se lo si opprime. E certamente le pressioni fiscali e la burocrazia che girano attorno al sistema-arte non fanno altro che comprimere, fino a strozzarla, tutta una serie di attività che vanno dalla ricerca, alla produzione, alla promozione e alla diffusione delle opere d’arte. Alcuni paesi supportano ad esempio le gallerie che partecipano a fiere internazionali, perché esportano un’eccellenza del paese stesso, come se portassero al di fuori dei confini una vetrina che lo promuove. Inoltre, in altri Paesi le aliquote dell’imposta sul valore aggiunto sono inferiori a quella italiana, e questo ci rende meno competitivi.”

Potresti tentare di fare un confronto con l’Estero, dove alcuni spazi smessi e abbandonati, vengono destinati e a progetti culturali che spaziano dal musicale, al cinematografico mentre in Italia non è così! Di cosa ci parla queste scelta? E Perché in un periodo di crisi come questa si decide volutamente di non investire nel settore?

“In questo periodo di crisi l’Italia ha deciso di tagliare laddove si sarebbero potute trovare le poche, se non uniche, risorse per mantenere in piedi questo Paese: la cultura e l’educazione. Sussiste ormai da troppo tempo un’infondata convinzione di poter continuare ad ottenere risultati costanti nel tempo grazie all’eredità del passato e senza necessità di investire più di tanto nel futuro (e neppure nel presente!). In un certo senso è come se la fama di Paese dell’arte, della cultura, della moda, della cucina, dei territori suggestivi, della tradizione consenta di pensare che sia possibile tirare i remi in barca e per lasciarsi trasportare dalla corrente. E non c’è nulla di più sbagliato, perché è come percorrere una strada senza uscita, quando il desiderio collettivo è invece quello di portarsi avanti.
All’estero certi progetti vengono supportati dallo Stato, che riconosce la produzione artistica – e dunque la formazione artistica – come elemento in cui investire, che arricchisce e potenzia l’identità del Paese stesso. Gli artisti che producono arte, le gallerie, i curatori, le fondazioni, ecc.. sono categorie inserite nel sistema sociale ed economico come qualsiasi altra. Non si pensa, come purtroppo si fa in Italia, che la cultura sia destinata a pochi e sia un accessorio, e che quindi debba gestirsi da sé. All’estero(e per fortuna in alcune aziende italiane viene fatto da anni) si investe in cultura perché questo rilancia la loro immagine come difficilmente potrebbero fare altrimenti. A nostro avviso, un’azienda che supporta l’arte ottiene subito un’identità di profilo superiore, perché investe in un patrimonio comune, favorisce un sistema che crea connessioni, che utilizza un linguaggio internazionale e aperto.”

A Roma, come in tutta Italia, molti importanti poli museali sono in crisi – sia su un piano prettamente economico che di proposte.

Non esiste un’sistema’ di collegamento tra le gallerie e i grandi musei, e si continua a parlare dell’autoreferenzialità del ‘sistema arte’, visto come un circuito chiuso e di interesse solo per chi è del settore.

“Purtroppo è così che viene visto dall’esterno e questo ci sembra davvero frustrante, visto che l’arte si rivolge sempre ad un pubblico senza fare distinzioni. A volte ci rendiamo conto che certe situazioni sono effettivamente difficili da approcciare arrivando da altri contesti che non sono quelli culturali e artistici, c’è poca chiarezza, e a volte probabilmente poco interesse del fruitore a capire davvero come funzionano certe dinamiche. Diciamo che le responsabilità sono da attribuirsi ad entrambe le parti: del circuito che non si apre facilmente ai profani e del pubblico che aspetta di trovare nell’occasionalità tutte le risposte. Come in ogni contesto, si impara e si comincia ad apprezzare con occhio critico quando ci si nutre costantemente di un qualcosa, anche se a piccole dosi. Se si pensa che vedere una, due mostre all’anno, o una fiera possa essere sufficiente a sviluppare una coscienza critica o una conoscenza, questo è del tutto fuorviante, nonché deludente.”

Secondo voi come si potrebbe rispondere a tutto questo?

“Probabilmente una delle cure più efficaci sarebbe quella di liberarsi da preconcetti e soprattutto non abbandonare mai il desiderio di conoscere e apprendere. La curiosità è un elemento peculiare dell’essere umano e per questo se ci si ferma al conosciuto e si pretende di giudicare e valutare ogni novità con gli stessi parametri, si fa un errore di partenza che impedisce ogni altro sviluppo. E’ necessario aprirsi, osservare, cogliere quello che l’arte ci offre al momento, con i linguaggi e le tematiche contemporanei, perché si tratta di una cronaca in tempo reale e che in seguito diverrà storia, ma non dobbiamo perdere l’occasione di viverla ora che ci passa davanti agli occhi.”.

In ultimo quali sono oggi le vostre aspettative e le vostre speranze?

“Il nostro impegno ora è quello di usare i nuovi spazi espositivi di Arezzo e Rijeka per creare nuovi circuiti e nuove connessioni, portando avanti una programmazione consistente e di qualità e misurarci anche con nuovi contesti, favorendo le contaminazioni, intrecciando i linguaggi.”

La galleria Furini ha deciso di concludere con alcune stimolanti riflessioni di Albert Einstein. A mio parere riescono effettivamente a cogliere lo spirito e l’entusiasmo che c’è alla base di questa intervista.

“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose.
Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni.
La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza.
L’ inconveniente delle persone e delle Nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia.
Senza crisi non c’è merito.
E’ nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze.
Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo.
Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla.”
(Albert Einstein)

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Ilde Cavaterra è nata a Roma dove vive e lavora. Laureata in Lettere e Filosofia, si interessa di cinema e arte contemporanea di cui scrive collaborando con art a part of cult(ure).

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