Storia americana. Fotografie di Gordon Parks a Palazzo Incontro, Roma

Gordon Parks, Uomo che sbuca, Harlem, New York, 1952
Gordon Parks, Uomo che sbuca, Harlem, New York, 1952

I dettagli hanno importanza in tutto il lavoro di Gordon Parks (Fort Scott, Kansas 1912-New York 2006): particolari che rafforzano il racconto, focalizzano la questione, stimolano le connessioni, come appare evidente nella mostra fotografica Una storia americana (a cura di Alessandra Mauro), organizzata da Contrasto e da Civita, promossa dalla Provincia di Roma e dalla Regione Lazio e realizzata dalla Gordon Parks Foundation di New York, in collaborazione con la Fondazione Forma per la Fotografia di Milano (che ha ospitato la prima tappa espositiva).

Il vestitino di una bambina appeso sul comò di una caotica camera da letto di Harlem (1967), gli stivalletti femminili a Fort Scott (1949), il volto di Malcom X stampato sulle felpe indossate dai giovani a Watts, California (1967), le mani. Mani alzate, quelle fotografate da Parks durante la marcia su Washington (1963); i pugni di Muhammed Ali a Londra nel 1966; la mano con la sigaretta accesa e l’anello d’oro che esce fuori dalle grate della prigione di Chicago (1967); le mani sui fianchi e lo sguardo di sfida di Flavio da Silva, un ragazzino delle favelas carioca (1961).

Scatti che registrano la realtà in sequenza, modalità tipica del linguaggio fotogiornalistico. Ma nel caso di Gordon Parks, che si è fatto le ossa lavorando nel dopoguerra – ovvero nel momento del loro massimo exploit – per Life, primo fotoreporter afroamericano di una delle più grandi riviste americane (con Look e The Saturday Evening Post), il panorama è molto più ampio.

Parks, infatti, è stato anche scrittore, compositore, regista (nel 1971 ha diretto il popolarissimo Shaft il detective, tra i primi film della blaxploitation), compositore e, soprattutto attivista politico, vivendo dall’interno le discriminazioni razziali.

Alla fotografia arriva per caso: sguardi rubati di un venticinquenne nato nel Midwest che lavora come cameriere per la Northern Pacific Railroad e acquista la sua prima macchina fotografica in un banco di pegni.

La consapevolezza di avere in mano “un’arma contro povertà e razzismo”, non tarderà ad arrivare. Nel 1941 inizia a collaborare con la Farm Security Administration (FSA): è dell’anno successivo una delle sue icone più conosciute. Ella Watson (American Gothic), donna delle pulizie di colore che vive a Washington D.C., è ritratta con una grande bandiera Star&Stripes alle spalle, in una mano una scopa di saggina e nell’altra uno spazzolone per lavare i pavimenti. Nel suo dramma esistenziale questa donna non è sola, come non lo è Red Jackson, boss della gang di Harlem, né il bianco Hercules Brown, proprietario dell’emporio di Somerville, neppure tanti altri personaggi anonimi o meno.

“Tentare di fermare le stragi di ragazzi a Harlem, non sarebbe stata solo un’avventura giornalistica in più da inserire nel curriculum.” – scrive il fotografo – “Sentivo ancora vivo in me il tormento che la morte dei miei amici aveva lasciato sulla mia infanzia. Adesso, finalmente, avevo l’opportunità di fare davvero qualcosa.”

La visione di speranza – il sogno americano – è anche il punto di vista liberale di Life e delle altre testate fotogiornalistiche, portato agli estremi dalla visione hollywoodiana, in cui è prevista una possibilità di redenzione, di giustizia, di sogno – appunto – nel magma delle negatività. Il lavoro, la fede religiosa, la militanza politica: tante strade per guardare oltre.

In mostra, a Palazzo Incontro, in questa prima grande retrospettiva europea dedicata al fotografo statunitense (sono esposti anche alcuni numeri originali di Life con le copertine firmate da Parks, come quella del 25 agosto 1952 e del 31 maggio 1963) tra le 160 fotografie si alternano stampe vintage e moderne, come pure l’uso del bianco e nero insieme al colore. Sono a colori, ad esempio, le foto di moda pubblicate su Vogue, il sevizio sul crimine nel regno di Al Capone (1957) e anche Segregation in the South (1956) con la colonnina del distributore dell’acqua riservato alle persone di colore accanto a quella con la scritta “white only”, un’immagine che non può non ricordare quella ancora più forte di Elliott Erwitt che inquadra due lavandini sormontati dalle scritte “white” e “colored”, fotografati in North Carolina nel 1950.

Una sezione della mostra è riservata, poi, ai ritratti: Alexander Calder a Roxbury, Connecticut nel 1952; scatti in bianco e nero con Ingrid Bergman a Stromboli nel 1949 (in alcuni è presente anche Roberto Rossellini) in momenti perfettamente neorealistici.

I sentimenti più profondi di lotta all’ingiustizia, di rabbia, non sono sopiti quando l’obiettivo di Parks indugia nel farsi portavoce delle istanze dei Black Muslims o delle Black Panthers ed è in mezzo alla folla di migliaia di persone, durante la marcia su Washington nell’estate del ’63. In bianco e nero la fotografia di Martin Luther King durante il suo discorso trascinante. Un momento storico. “Martin era emozionatissimo.” – scrive Coretta Scott King nel libro autobiografico La mia vita con Martin Luther King (1969) – “Me ne resi conto dalla posizione delle spalle e dal tono della voce, prima rauca, quasi velata, poi sempre più alta e armoniosa man mano che si accalorava. Iniziò, con grande eloquenza, il discorso che aveva scritto, nel quale essenzialmente diceva: “Invece di onorare i suoi sacri impegni, l’America ha dato ai negri un assegno a vuoto. Noi siamo venuti oggi qui per incassare questo assegno e non accetteremo che ci si dica che non c’è danaro nella banca della giustizia”. Quando arrivò alle richieste ritmate di libertà ora, di lavoro ora, la folla cominciò a scandire ora in cadenza. L’entusiasmo del pubblico trasportò Martin verso le più alte sfere dell’ispirazione. Lasciati da parte i fogli degli appunti, dimentico dei limiti del tempo, si abbandonò alla foga dei sentimenti, con parole alate che sembrava scendessero su di noi, sull’immensa folla e sul mondo come da un luogo più alto, quasi che il Cielo stesso si fosse aperto e parlasse per bocca di lui. Disse: “Io vi dico oggi, nonostante le difficoltà del presente e quelle che dovremo affrontare in futuro, che ho ancora un sogno nell’anima mia. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano. Io sogno il giorno in cui questo paese si scuoterà e comprenderà il vero significato del suo credo, quel credo per cui il fatto che tutti gli uomini sono stati creati uguali è una verità che non ha bisogno di dimostrazioni.”

Info

  • Dal 5 dicembre 2013 al 16 febbraio 2014
  • Una storia americana. Fotografie di Gordon Parks
  • a cura di Alessandra Mauro
  • Roma, Palazzo Incontro
  • volume edito da Contrasto
  • www.fandangoincontro.it
  • www.gordonparksfoundation.org
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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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