Una super mostra a Parigi celebra l’arte contemporanea dell’America Latina. 1960-2013

Pablo Ortiz Monasterio, Policia, serie La ultima ciudad,1988. Courtesy dell’artista e Galeria OMR, Mexico

Continente sconfinato, crogiolo di culture, territorio dalle potenzialità naturali enormi e dagli squilibri sociali altrettanto grandi, scenario di proposte politiche opposte oscillanti tra utopia rivoluzionaria e repressione realpolitica reazionaria, paradiso ecologico paesaggistico e inferno abitativo nell’inurbamento scriteriato delle sue metropoli, il Sud America, con le sue grandi contraddizioni e speranze, è presentato, attraverso l’occhio di 72 artisti di 11 paesi differenti, alla Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi nella mostra América Latina 1960-2013, in collaborazione con il Museo Amparo di Puebla (Messico).

Sino al 6 aprile 2014, i curatori A. A. Espinosa, H. Chandès, A. Fabry, I. Gaudefroy, L. Sacramone e I. Shamoon, hanno diviso in quattro aree tematiche l’allestimento dell’esposizione, cercando di concentrare in questi punti nodali riassuntivi la miriade di spunti offerti loro dal lavoro degli artisti selezionati. L’arco di oltre 50 anni, che abbraccia esperienze plurigenerazionali, viene compartato in campi semantici di ampia metratura: Territori, Città, Informare-Denunciare e Memoria e Identità.

Il sottotitolo della mostra è Fotografie, poiché il mezzo fotografico – con tutte le tipologie espressive affini, dalla stampa off-set al video piuttosto che il collage o la performance – è il fulcro rappresentativo delle proposte estetiche veicolate dagli artisti e in qualche misura la loro risposta alle sollecitazioni socio-storiche, che hanno attraversato il Continente nel lasso di tempo intercorso tra la Rivoluzione Cubana, l’avvento dei regimi militari e le controazioni della guerriglia, fino alle emergenze di una possibile transizione democratica per la più parte degli stati sudamericani.

Tuttavia, se da un lato la foto permette di cogliere in diretta la realtà, dall’altro deve essere accompagnata, per integrare meglio un commento alle immagini catturate, da una componente testuale che ne approfondisca il senso o talvolta lo cambi in relazione all’intenzionalità del messaggio. Così il plesso di una connessione stretta tra letteratura e arte, tra testo e immagine, inscritto nel Dna della cultura latino-americana (dalla pratica educativa di Simon Rodriguez ai poeti concreti degli anni ’50, fino alla prosa immaginifica di Borges, Neruda o Paz) diviene anche la cifra stilistica che sostanzia il concettualismo specifico delle proposte figurative in mostra. Non un approccio metalinguistico, ma l’uso della strumentalità analitica dei mezzi verbovisivo e fotografico come supporto strutturale per una poetica espressiva non disgiunta dall’impegno, dalla denuncia e dall’anelito all’emancipazione sociale e civile.

Nell’ambito tematico, il rapporto al territorio, al cui interno si dispongono i confini non sempre precisi perché in molti casi arbitrari che delimitano i vari stati, viene a costituire in termini traslati un ‘interrogazione sul senso d’identità latino-americana stessa.

Tra i tredici artisti della sezione, il lavoro del franco-argentino Carlos Ginzburg, durante gli anni ’70 e inizio ’80, si dipana come un’analisi del territorio attraverso il resoconto che l’artista ne può fare in veste di osservatore vacanziero. Attraverso le fotografie, scattate in luoghi topici messicani e a Mexico City durante una permanenza di 15 giorni, lo statuto di verità dell’odierna esperienza della condizione di viaggio (rispetto al fascino della scoperta, il contatto con il diverso o il senso dell’avventura che poteva avere un tempo) viene articolata dall’artista non come prospettiva di senso ma in quanto doppio critico del vissuto di un altro: il turista contemporaneo.

Il contenuto euristico di tale erlebnis (*) riducente, attraverso l’organizzazione senza sorprese del soggiorno, lo spazio mentale che sosteneva il viaggiatore verso la meta e la tensione noetica che la vista del nuovo gli procurava, riposa solo più, per l’artista, sull’assoluta precisione con cui gli elementi significativi e le frange che compongono l’esperienza tipo di un viaggio possono venir smontati, catalogati e analizzati.

L’analisi che dovrebbe sostenere la funzione giudicante del turista durante le sue visite viene compiuta dall’artista nel meta viaggio che costituisce il rendiconto esatto della sua condizione come improvvisato diportista. La pratica artistica di Ginzburg dialettizza così opera e vita: la prima ci restituisce, attraverso la connotazione fredda della tassonomia, la profondità di uno sguardo che ha pure il valore di riscatto verso i soggetti che vengono esaminati, la seconda si staglia invece come lo sfondo su cui può prender corpo la realtà dell’opera.

Il medesimo sguardo – allo stesso modo con cui Lévi-Strauss (citato anche da Ginzburg) poteva osservare imparzialmente le strutture elementari della parentela nelle società primitive indio-americane e trasmetterci il senso di profonda pietà e commozione che lo pervadeva, allorché il suo occhio si posava a descriverci l’intimità e la precarietà caratteristiche di quelle popolazioni – viene utilizzato dalla fotografa brasiliana Claudia Andujar (svizzera di nascita però, la cui famiglia venne sterminata nei campi di concentramento nazisti) per testimoniare, durante una campagna di censimento dei soggetti vaccinati nel 2009, la sua empatia a salvaguardia degli indiani Yamomani in Amazzonia, vittime dell’appropriazione del loro territorio per lo sfruttamento agricolo, minerario e infrastrutturale da parte di lobbies industrial-economiche nazionali e internazionali. Con le fotografie Marcados para, l’artista attiva un cortocircuito simbolico tra l’espropriazione della dignità personale, subita dagli internati ebrei contrassegnati dal marchio numerico sulla pelle del loro numero di registro, e la salvifica registrazione fotografica cui vengono sottoposti invece gli Yanomani per certificarne le vaccinazione contro epidemie e fattori patogeni contratti a contatto con i lavoratori civilizzati operanti in Amazzonia.

Gli indigeni del Nord del Brasile sono al contempo anche l’oggetto della serie di lavori História do Brasil di Anna Bella Geiger (storica video-artista brasiliana, impegnata a sottolineare l’approccio colonialista nell’osservazione dell’esotico), essendo ritratti nelle cartoline postali – riutilizzate dall’artista dopo averle incollate sugli occhi di fotografie con il volto di un uomo – vendute come cliché e stereotipi ‘turistici’ del paese in tutti i chioschi di giornali, mentre in realtà la loro cultura non sempre è stata tutelata con attenzione e sollecitudine d’intervento tanto da essere relegata ai margini della considerazione da parte delle autorità politiche e seriamente minacciata di estinzione.

L’identità socio-territoriale problematica del continente viene metaforizzata da Regina Silveira, anch’ella brasiliana, riunendo nell’assemblaggio di To Be Continued… (Latin American Puzzle) immagini stereotipate e irrelate di personaggi, oggetti e monumenti che rimandano alla storia e cultura sudamericane da un punto di vista superficiale e scontato. Le connessioni caotiche, contraddittorie e improbabili delle tessere del puzzle costituiscono una sorta di commento amaro alla possibilità di raggiungere un punto stabile, o perlomeno provvisorio, per dirimere criticamente anche i drammatici ossimori politici e civili che hanno determinato la fisionomia incerta dell’America Latina.

La traslazione metaforica tra corpo e territorio costituisce pure l’asse portante della denuncia politica nelle foto della serie A Chile di Elias Adasme. Il performer cileno istituisce un paragone tra la forma geografica ‘allungata’ del paese e l’immagine del suo corpo. Talvolta, la sagoma dei confini cileni si sovrappone al corpo nudo dell’artista, altre volte invece egli si fotografa appeso a testa in giù accanto alla mappa nazionale o con la scritta “Chile” sul petto. In qualsivoglia posa, la documentazione di queste azioni venne fatta dal vivo nel 1979-80 a Santiago, in pieno regime di Pinochet. L’evidenza retorica dell’opera trae forza dal rimando sineddottico tra la stabilità fisica del corpo sociale (la silhouette della nazione) e la precarietà prossemica del corpo dell’artista, che simboleggia l’estraneità a rischio fisico della dissidenza durante la dittatura militare cilena.

L’area tematica riguardante le Città è quella che raccoglie più artisti dell’intera mostra: ben 25.

Infatti, la città sudamericana è uno spazio disomogeneo e polimorfo anche rispetto alla varietà degli insediamenti che la popolano. Intanto, le metropoli e megalopoli del continente ospitano da sole l’80% della popolazione dell’intero territorio e, avendo avuto uno sviluppo rapido e non sempre pianificato, presentano una sfumatura di contrasti e sedimentazioni urbanistiche oltremodo complessi al cui interno vecchio e nuovo coesistono, uniformandosi in un allotropo paesaggistico di architetture antiche e moderne e risultando per questo terreno fertile e privilegiato per le esplorazioni degli artisti.

Lo scenario della vita cittadina consente così di formalizzare in termini estetici il cambiamento sia dal punto di vista culturale che economico o sociale.

La crisi finanziaria dell’Argentina, durante i primi anni 2000, viene esemplificata da Facundo De Zuviría attraverso una serie di fotografie di negozi e imprese commerciali dismessi. Le vetrine spoglie o le serrande abbassate, con solo le insegne a ricordare l’attività prima del fallimento imprenditoriale, caratterizzano con metaforica nostalgia la presa d’atto del decadimento economico di interi quartieri di Buenos Aires nel periodo della recessione.

La cilena Leonora Vicuňa, con foto ritoccate’scattate durante una perlustrazione dei quartieri operai e popolari di Santiago negli anni ’80, rende palese il clima di chiusura e depressione culturali imposto dalla dittatura a contesti urbani precedentemente formicolanti di vita bohémienne e abitati da intellettuali e artisti frammisti ai ceti più umili se non emarginati dalla società.

Paolo Gasparini, di origini goriziane ma naturalizzato in Venezuela dove vive e lavora, rende in immagine il gap tra immaginario e reale, intervenuto con la modernizzazione e indotto dal consumismo durante gli anni ‘60, mostrando la proliferazione delle insegne e dei cartelloni pubblicitari di Caracas, Bogotà e Montevideo. Questi si estendono come un sovramondo illusorio del desiderio sul tessuto urbano sottostante, ancora soggetto alle regole di una distribuzione della ricchezza sociale a diverse velocità.

Con Policia, un’immagine dalla serie La ultima ciudad (1988), l’artista messicano Pablo Ortiz Monasterio cerca di cogliere e ‘spiegare’ la sensazione di incertezza e precarietà ‘controllata’ che si respira nell’immensa concentrazione di eventi che avvengono lungo le strade della gigantesca Città del Messico. Nel quadretto di una famiglia india, con il padre che porta sulle spalle un sacco di mais, ripreso attraverso il parabrezza di uno scooter della polizia, lo sguardo preoccupato di uno dei ragazzi assume l’emblematicità dell’inquieto, vigile e transitorio scorrere della vita all’interno dello sconfinato orizzonte della megalopoli.

La violenza è l’oggetto discorsivo del capitolo Informare-Denunciare. Violenza, come spunto di espressione unificata tra scrittura e immagini, che viene sviluppato dagli artisti e rispetto alla sua dislocazione politica, a partire dalla controreazione sanguinaria operata nella seconda metà degli anni ‘60 dai regimi militari di molti paesi sudamericani per impedire il proliferare nel Continente dei movimenti di guerriglia innestato dalla rivoluzione cubana, e nei confronti del suo manifestarsi, dopo la normalizzazione democratica degli anni ’90, come conseguenza dell’attività illegale del crimine organizzato e del narcotraffico oltre alla perdurante disparità sociale anch’essa generatrice di conflitti.

Il cantore più accreditato, tra i 17 artisti selezionati per il tema, contro la violenza istituzionale è certamente l’argentino Leon Ferrari. L’artista, deceduto nel 2013, perdette un figlio desaparecido durante la repressione di Videla. In mostra vi sono collage e fotografie calligrafate della serie Nunca Mas, realizzata per l’edizione in fascicoli del Informe de la Conadep [1] sul Terrorismo di Stato pubblicato nel 1995 dal giornale “Pagina 12” e “EUDEBA”.

In questo lavoro, Ferrari istituisce una sorta di critica storica alla civilizzazione cristiano-occidentale – il cui Ethos fideistico non è mai disgiunto per lui dalla componente violenta del castigo – combinando immagini che associano le responsabilità dei militari del suo paese alla giustificazione dei massacri di massa presente nell’ira di Dio della Bibbia, nell’anelito all’evangelizzazione degli indigeni da parte dei Conquistadores o nella salvaguardia della razza ariana perseguita dai Nazisti.

Significativa di questa denuncia della corresponsabilità religiosa, o per lo meno di coinvolgimento indiretto non ammesso da parte delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche argentine nella conoscenza delle eliminazioni sommarie, è l’opera che mostra una foto della fregata Libertad (simbolo emblematico delle Forze Armate di mare) con le vele ricoperte di scritte (eseguite a mano dall’artista) che riportano particolari sul ritrovamento di cadaveri lungo le spiagge uruguaiane e sul modo in cui le vittime degli annegamenti venissero preparate al lancio mortale durante il volo dagli ufficiali preposti, i quali a loro volta erano confortati dai cappellani militari circa il carattere cristiano di quel tipo di esecuzione.

Il medesimo riferimento ad una responsabilità confessionale, anche se mediato dal sarcastico e drammatico rimando alla qualità della sepoltura, si respira in Gloria evaporada (1994) di Eduardo Villanes. L’artista peruviano utilizzò per una performance di protesta nel 1995 le scatole di cartone in cui veniva contenuto il latte in polvere Gloria; in tali  contenitori erano stati inviati dalla polizia di Lima ai parenti i resti di dieci persone uccise e carbonizzate dagli squadroni della morte durante il governo illiberale di Fujimori. Cambiando la sottoscritta delle scatole con la sostituzione di “gente” al posto di “eche” (latte, appunto), Villanes riscatta in gloria postuma la memoria dissolta nel nulla, ridotta in polvere e offesa degli assassinati. dalla brutale restituzione dei loro resti

I collages di Guillermo Deisler (nato in Cile nel 1940 e morto in Germania nel 1995) sono dei rebus a doppia articolazione semantica per veicolare contemporaneamente messaggi politici e sviare la censura. Nel fotomontaggio Sans Titre (1977-78), egli decostruisce i meccanismi ingannatori della propaganda, particolarmente martellante in Cile durante la legislatura di Pinochet, mostrando come sotto l’apparenza sorridente del potere si nasconda la realtà di una pratica repressiva ben diversa dalle ireniche dichiarazioni pubbliche del dittatore.

L’installazione Violencia(1973) di Juan Carlos Romero, che occupa tutta una parete dello spazio espositivo sotterraneo della Fondation Cartier, sintetizza in misura eclatante e quasi ‘catartica’ l’intreccio di esasperata tensione creato in Argentina dalla repressione politica e dal dilagare comune della violenza, sottoponendo alla parola ripetuta in nero su una striscia a fondo giallo foto di articoli di giornali e manifesti su cui campeggiano immagini crude e dirette di omicidi e torture.

Il quarto punto dell’esposizione, Memoria e Identità, riassume i temi trattati nelle sezioni precedenti e, essendo orientato a riflettere sulle prospettive e conseguenze del cammino intrapreso dal Continente negli anni ’90 verso forme di governo ed amministrazione democratiche dopo le parentesi storiche di decenni politicamente contrassegnati da autoritarismi e dittature, raccoglie esperienze di lavoro di artisti delle ultime generazioni. Nondimeno tutte le opere dei 18 esposti sono allineate su un medesimo registro critico, anche se talvolta più ironico di quello delle generazioni precedenti, rispetto alla complessità di nodi culturali ancora da far decantare come quelli identitari e memoriali.

Il paraguaiano Fredi Casco, co-autore anche del film Revuelta(s), (2013) [2] con Renate Costa, nell’intento di cogliere le caratteristiche dell’identità ‘rappresentativa’ del potere del suo paese lungo 50 anni, riporta a matita sul retro di cartoline, nella serie Foto Zombie (2011), le silhouettes dei politici nazionali durante incontri diplomatici con personalità e autorità straniere.

Susana Torres invece, con cadenza apparentemente più divertita, mostra immagini di prodotti di consumo rigorosamente a marchio Inca. Esposti come artefatti unici e dislocati in un’ambientazione museale, questi oggetti attestano nel medesimo tempo una specificità etnica indissolubilmente legata al loro sfruttamento commerciale. Nel contraddittorio amalgama di eredità culturale e tradizione in parte banalizzate, lasciano sussistere le proprie valenze ontologiche originarie solo in quanto prodotti della distribuzione di massa.

L’aspetto consumistico e neoliberale del passaggio dalla post-dittatura alla democrazia in Argentina viene esaminato dal fotografo Marcos López, nella serie Pop Latino (sottosezione di un progetto espositivo di levistraussiana memoria dal titolo Tristes Tropicos) con una ricchezza iconografica singolare, frutto della fusione di componenti drammatiche e spettacolari piuttosto che artefatte e autentiche. Le scenografie delle sue composizioni ‘metropolitane’sono estrapolate dai media, dalla pubblicità e dalla réclame, fondendosi con gli stilemi delle telenovelas televisive e dei fumetti per arrivare ad una sorta di kitsch urbano critico, che l’autore definisce “la texture del sottosviluppo” e con cui vuole far confrontare lo spettatore per porlo di fronte, cioè in immagine, alla sensazione di sconcerto, scetticismo e di decontestualizzazione che intende denunciare.

Nel contesto delle specificità sudamericane contemporanee la possibilità di subire aggressioni anche mortali sembra essere messa in conto e nel novero delle evenienze per nulla improbabili (almeno presso le classi più facoltose e il ceto politico) tanto che lo stilista più fashion per gli abiti imbottiti a prova di coltello o pallottole è il colombiano Miguel Caballero ( che viene chiamato “L’Armani armato” della moda). L’artista peruviana Milagros De La Torre presenta, nella serie Bulletproof (2008), fotografie su preziosa carta carbone dei suoi prodotti di sartoria, dalle giacche alle camicie, che ingannano rispetto alla loro funzionalità in quanto oltre ad essere vestibili sono scelti da clienti che intendono tutelare soprattutto la propria incolumità. Questa doppia disponibilità come utilizzabili crea nell’osservatore una tensione irrisolta tra un aspetto famigliare e uno inaspettato, tra la formalità elegante delle linee e la consapevolezza non solo estetica della loro destinazione secondaria. In sostanza, una sorta di ibrido emotivo o piccola sublimità percettiva che è poi la cifra sensibile che contraddistingue la specificità di approccio a tutte le opere in mostra.

Note

1.  (Comisiòn Nacional sobra la Desapariciòn de Personas), istituita nel 1995 a seguito delle rivelazioni dell’ex-capitano dell’esercito argentino Adolfo Scilingo, riguardanti l’uccisione di migliaia di dissidenti per annegamento dopo essere stati sedati con iniezioni di Pentotal e gettati in mare dagli aerei della Marina.

2.  Si tratta di un documentario, presentato all’interno della mostra, in cui l’autore intervista trenta dei partecipanti ad America Latina 1960-2013. I colloqui con gli artisti, ripresi a coppie nei loro luoghi d’origine e di lavoro, sono ‘intercalati’ da spezzoni di paesaggi urbani del sub-continente, letteralmente attraversato da cima a fondo da Casco per raggiungere i suoi intervistati.

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Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.

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