Libri come 2014. Padri e figli, l’arte ci salverà e una saga americana alla Festa del libro di Roma

Libri Come Philipp Meyer
Libri Come, Philipp Meyer

Quinta edizione di Libri Come, la Festa del Libro e della Lettura all’Auditorium Parco della Musica. Tra conferenze, presentazioni, tavole rotonde e maratone, con il collega Pietro Masci, siamo andati a conoscere alcuni protagonisti della letteratura italiana e straniera amati da tutti.

In Come padri e figli erano in dialogo tematico Sandro Veronesi (scrittore) e Michele Serra (giornalista e scrittore). Quest’ultimo, ha fatto uscire a Natale, con grande successo, Sdraiati (Feltrinelli 2013, pag. 108) un libro in cui si parla del rapporto tra un padre ed un figlio e di una loro piccola escursione insieme. Un romanzo realista – ha introdotto Sandro Veronesi – dopo tanti libri, soprattutto presunti scientifici su genitori e figli. Si è parlato prima del testo ed alla fine del contesto, argomento ormai abusato nei media generalisti e nelle fiction televisive.

Michele Serra, che non ha negato per questo libro l’autobiografismo, ha ricordato che il desiderio ricorrente del padre è quello di ascendere ad un pensiero, una filosofia, una comunione di spirito con il figlio. Ciò che vuole il padre, però, non è altro che il figlio rifaccia ciò che lui ha fatto nel suo passato. Per questo nasce la metafora della guerra tra vecchi e giovani. La contrapposizione tra potere e folla di idee da una parte, genuinità e bellezza dall’altra. Un libro che racconta i simboli umani con nobiltà letteraria e romanzesca – ha continuato Sandro Veronesi – vi si narra di un padre all’inseguimento del figlio, mentre il figlio preferirebbe che il padre riuscisse a capire il caos che sta vivendo, ma senza porre condizioni.

Per Veronesi nel dialogo con il tatuatore del figlio esce fuori tutta la saggezza di questi e del figlio ed emergono i preconcetti del padre sui tatuaggi come su tante altre cose, senza che lui sappia come e quando tali preconcetti si sono creati. I ragazzi, invece, stanno cercando da se stessi la propria esperienza, senza essere consigliati dal padre o dal contesto. I genitori – diceva Veronesi – sottovalutano sempre le potenzialità e le preferenze dei figli, ecco perché poi non trovano gli strumenti per instaurare un rapporto.

L’ascesa di Michele Serra con il figlio sui colli della Nasca lo vedrà alla fine solo e sperduto verso la vetta (perché non ricorda più nemmeno la strada), mentre il figlio correndo come un capriolo è già arrivato da solo. E’ l’evoluzione della specie.

L’autore dal canto suo, è rimasto spesso silenzioso e timidamente ha ricordato la storia di questo romanzo, nato cinque anni fa con alcuni lacerti narrativi. Il figlio era là sdraiato, incompreso, misterioso, multitasking (studiava chimica, guardava la TV, giocava con il tablet e sentiva la musica) e lui, un padre incauto, goffo, ingombrante, un padre cosciente di non poter essere sicuro delle sue certezze, della sua autorità, del suo sapere, era là solo, nevrotico ed iperprotettivo, con la paura che i neuroni del figlio potessero entrare in connessione, scomporsi… Alla fine, facendo un esempio personale Veronesi l’ha buttata là:”I figli non vogliono essere amati ma solo e sempre approvati”.

Per le sale nobili dell’Auditorium siamo andati a scoprire due americani di grande valenza e successo.

Camille Paglia (umanista e scrittrice) insegna alla University of Arts di Filadelfia, appassionata di cultura popolare ha partecipato a documentari su film come Arancia Meccanica. Ha scritto un libro di grande successo nel 1990, Sexual personae: arte e decadenza da Nefertiti ad Emily Dickinson (Einaudi 1993, trad. D. Morante, pag. XIII – 924). All’Auditorium ha tenuto una conferenza sul suo ultimo lavoro: Immagini seducenti (Il Mulino 2013, trad. B. Forino, pag. XXVII – 296). Un compendio di storia dell’arte e testi culturali interdisciplinari con l’analisi di un’opera artistica per ogni periodo storico dai preziosi ricordi dei faraoni dell’antico Egitto a Star Wars, ultimo esempio di arte poliedrica e creativa, passando per Pollock e Magritte. “L’unica via per la libertà è l’autoeducazione all’arte – ha detto – l’arte non è un lusso per civiltà avanzate. E’ una necessità: in sua assenza l’intelligenza creativa appassisce e muore“.

Camille Paglia è una donna pacata, ma molto energica, acuta, culturalmente vissuta. Ha messo subito in dubbio nel nostro futuro la sopravvivenza delle arti visuali, che nel passato costituivano una combinazione di scultura, composizioni pittoriche, musica e performances. A partire dalla tradizione greca una rappresentazione della lotta esistenziale dell’uomo che rafforza il suo carattere. L’intervento della civiltà elettronica (l’i-phone, l’i-pad) – ha detto — sostituisce quest’arte con immagini distorte e rimpicciolite che si trasmettono tra soggetti ma non hanno un substrato artistico nel senso di cui sopra. Siamo continuamente bombardati di immagini, ma non c’è più l’insegnamento della storia dell’arte per selezionarle, classificarle, guardarle dentro. Il compito di rivalutare il ruolo dell’arte è dei genitori che si richiamano ai valori tradizionali, come sono quelli della famiglia italiana dov’è cresciuta Camille Paglia e che le ha dato le basi educative e filosofiche. L’autrice si ricollega sempre alle sue origini della generazione dei baby-boomers. In tale contesto sembra avere una combinazione romantica ed idealistica del rapporto arte-vita che fa parte della storia italiana. Una visione dell’Italia, madre di tutte le arti, che non corrisponde più alla realtà, mentre invece esistono i problemi esistenziali, pratici e tecnologici di ogni giorno, come nelle altre parti del mondo. Nella prefazione del libro la sua idea: In un’epoca di macchine magiche e incantatrici una società dimentica l’arte e rischia di perdere la propria anima. La salvezza è un ritorno all’arte per ridare un significato alla nostra esistenza, per ritrovare il mondo visuale perduto.

Philipp Meyer, invece, ha scritto un primo romanzo su due ragazzi che fuggono on the road attraverso l’America: Ruggine Americana  (Einaudi 2010, trad. C. Mennella, pag. 431). Con il secondo romanzo Il figlio (Einaudi 2014, trad. C. Mennella, pag. 553), una saga di grande ampiezza, un racconto epico di una famiglia del Texas lungo tre generazioni, Meyer è già considerato all’altezza di Melville, Faulkner, Fitzgerald. Il grande romanzo americano rifatto con un suo stile personale dove racconta come un entomologo, con un affascinante modo di usare la lingua ed una notevole costruzione narrativa, la vita dei pionieri, gli usi e costumi dettagliati degli indiani Comanche, i pascoli dei bisonti, lo sfruttamento dei messicani, le ombre del caos della guerra civile e la nascita della puteolente industria petrolifera.

Sotto le domande di Taiye Selasi e Elena Stancanelli, Meyer ha svelato il suo oggetto mitologico, quello della prima storia americana. Puntando sul figlio primogenito che doveva continuare la tradizione di famiglia ed era il primo nato in Texas, rapito e soggiornato pressi gli indiani. Sfatando mitologie false come i pionieri avidi e gli indiani non violenti o viceversa. Gli esseri umani sono sempre gli stessi – ha detto – . Inizialmente in Texas c’erano tante tribù con sette tipi di linguaggio, poi prevalsero gli Apaches che furono distrutti dai Comanches e infine dai bianchi. All’essere umano piace la guerra e piace disumanizzare l’avversario.

Taiye Selasi ha ricordato che il libro parte con Jenny (la terza generazione) che sta morendo, dopo una aggressione e ritorna indietro alla insediamento della famiglia dei Mc Cullouch, primi coloni in Texas, fondatori di un paese con la violenza delle armi prima e la potenza del denaro poi. Il linguaggio non è quello dei western ha confermato Meyer, perché c’è invece una lunga descrizione dei dettagli, la storia vera con i problemi della terra, gli usi e costumi degli uomini bianchi o rossi che la popolavano e poi il sogno americano. Questo libro, secondo l’autore, dovrebbe togliere qualsiasi fraintendimento: ogni paese è composto di gruppi umani e l’essere umano è fatto anche di violenza e sopraffazione.

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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