Speak for yourself #3. Emilio Macchia e l’equivoco linguistico del publishing

Speak for yourself prosegue con l’intervista a Emilio Macchia, co-fondatore dell’Associazione Culturale Strativari e curatore di Fahrenheit 39, rassegna che si è svolta di recente a Ravenna e che affronta aspetti e quesiti legati alla ricerca e al design nell’editoria in Italia.

Da diversi anni, il lavoro di Emilio è incentrato sulle metodologie e sui processi di sviluppo inerenti alla stampa e alla sua comunicabilità visiva per mezzo della grafica. Dal 2010 al 2012 è stato ricercatore presso la Jan Van Eyck Academie di Maastricht in Olanda e l’Associazione Strativari; oltre che seguire le fasi organizzative di Fahrenheit 39, Emilio si impegna nella realizzazione di Offset – il programma di residenza artistica per giovani designer – e lavora anche in qualità di graphic designer , tenendo conferenze sui temi principali della propria ricerca artistica.

In linea con le tematiche affrontate da questa rubrica, ho chiesto a Emilio di discutere più nel dettaglio il progetto Fahrenheit 39 e su luci ed ombre del settore editoriale.

Dal 2010 F39 fa il punto della situazione sul publishing nostrano raccogliendo le diverse e giovani proposte editoriali mediante un bando online; inoltre già da qualche anno ha la particolarità di aver ridefinito la propria linea progettuale attraverso una forma d’indagine conoscitiva dei parametri e dei criteri da assegnare all’editoria e al design.

Negli spazi delle Artificerie Almagià, lo scorso marzo, è stato fatto spazio a file di tesi di laurea in materia di design e stampa, assieme ad una cospicua collezione di magazine, fanzine, libri d’artista, alimentando anche un dibattito sano e coerente sull’editoria indipendente.

Qui seguito la nostra intervista:

Da quattro anni curi la direzione artistica di Fahrenheit 39, festival di ricerca e design nell’editoria italiana. Come è andata l’edizione di quest’anno? Quali erano le aspettative rispetto alle passate edizioni, vi ritenete soddisfatti del risultato?

È andata bene, dall’anno scorso a quest’anno c’è stato un netto miglioramento sia in termini di partecipazione da parte del pubblico sia in termini di contenuti. Gli intenti del nostro festival sono molteplici, all’inizio erano solo una raccolta di estratti sul libro nella sua materialità, nella sua forma oggettuale, mentre dall’anno scorso abbiamo cercato di porci ulteriori domande su cos’è un libro e del possibile rapporto tra la forma e il contenuto, domande che poniamo anche agli ospiti esterni che invitiamo per le nostre conferenze e workshop. Non esistono risposte precise ai nostri quesiti, ma riusciamo così a comporre una bibliografia che aumenta di anno in anno.

Con questo approccio alla ricerca, possiamo dire che Fahrenheit è stato uno dei primi festival ad affrontare il tema dell’editoria proiettandosi più verso il futuro e quindi verso dei futuri miglioramenti nel settore.

Si parte dal censimento, raccogliendo tutto ciò che arriva grazie al nostro bando e poi si fa il punto sulla ricerca, sulla questione legate all’editoria e quindi su possibili prospettive future. L’obiettivo è di fornire così ai partecipanti degli strumenti critici, di ricerca, per potersi migliorare o meglio evolversi nel proprio ambito.

Qual è la difficoltà maggiore nel perseguire obiettivi del genere? Un aspetto che citi nelle interviste o nel saggio d’introduzione a F39 sembra essere soprattutto quello di incontrare il più delle volte fraintendimenti o equivoci sulla terminologia legata al publishing.

Sì, il campo sulla quale mi sono mosso per costruire l’ultima edizione del festival è stato l’aspetto dell’equivoco linguistico. Abbiamo tentato di analizzare lo spettro semantico di alcune terminologie specifiche come self-publishing, art book, art book fair ecc… ecc…Tutte terminologie che se considerate all’estero o per “esterofili” son piuttosto chiare, non tanto per il loro significato specifico, quanto per la certezza con cui semanticamente si muovono.
In Italia invece hanno generato tanta confusione, sia nel pubblico che negli operatori stessi. È qui che sta la difficoltà di costruire un festival come il nostro: dall’esterno viene percepito come un momento per mostrare oggetti di artigianato legati alla carta, alla legatoria e alla stampa d’arte, mentre in realtà è soprattutto altro. Vale tutto, diciamo, vale la stampa e la legatoria, ma anche la ricerca e il design.
La questione legata alla terminologia l’abbiamo affrontata con Clive Phillpot, che abbiamo invitato quest’anno ad una delle nostre conferenze. Clive Phillphot è stato storico direttore della libreria del MOMA di New York e presidente del comitato direttivo artistico di Printed Matter che è la fiera newyorkese più importante al mondo. Nelle sue ultime pubblicazioni tenta di tracciare la terminologia legata al suo ambito di ricerca fornendo una serie interessantissima di esempi pratici [Booktrek: Selected Essays on Artists’ Books (1972-2010) edito da JRP/Ringier].

Ho visto che quest’anno avete invitato principalmente ospiti stranieri…

C’era anche un italiano, Alessandro Ludovico, autore del libro Post-digital Print [(2012) edito da Onomatopee], il quale ha fatto una presentazione della propria ricerca dove affronta l’avvento del post-digitale o meglio i mutamenti che sono avvenuti nell’editoria classica dopo l’avvento dell’editoria post-digitale.

Abbiamo superato una fase iniziale più emotiva in cui il mezzo tecnologico ha preso il sopravvento suscitando entusiasmo e al tempo stesso timore, riformulando così l’aspetto esperienziale del leggere, oltre che la forma dell’oggetto-libro. È possibile sperare di trovare una via di mezzo traendo vantaggi dai due mondi, editoria classica ed editoria post-digitale? È inutile declamare “Print is not dead… o è inutile sperare in un punto d’incontro?

Sono d’accordo sul fatto che sia inutile parlare di stampa morta o non morta. Io prendo semplicemente atto dell’avvento del digitale, non sono sicuro che esista una via di mezzo, un compromesso. Il libro digitale – se così si può chiamare perché come dice Philpot: ”Gli e-book non sono libri, ma macchine per la lettura.” – può migliorare e così il libro cartaceo. Possono migliorare entrambi. Il libro cartaceo, rispetto alla distribuzione e alla produzione, più che rispetto alla sua forma, idem anche l’e-book. Credo che a livello artistico e di ricerca, come sia Ludovico che Silvio Lorusso affermano, l’avvento del digitale abbia dato un’enorme svolta a chi si occupa di arte e di design e questa è una cosa sicuramente positiva, ma non vedo comunque punti di incontro perché parliamo di due mondi totalmente diversi.

Parliamo più strettamente di self-publishing, di bolla dell’autoproduzione e di un fenomeno che non si arresta. Com’è la realtà delle cose? Che direzione sta prendendo?

Intanto, il self-publishing esiste da quando esiste l’editoria. Il fenomeno che ci ritroviamo ora  è  più una tendenza. Sarebbe interessante prendere in considerazione tutti quegli aspetti sociologici legati alle cause per cui un individuo o un gruppo di individui decidono di autoprodursi, piuttosto che chiedere alle grandi catene. Per quanto mi riguarda, l’autoproduzione è dovuta a questioni di limiti, può sembrare banale, ma davanti ad un limite economico o di altra entità si tenta di fare con ciò che si ha. Inoltre, l’autoproduzione non impone tutte quelle condizioni che impone invece una casa editrice, tra scelte estetiche, di materiali, cliché ed etichette. Bisogna però stare attenti, essendo un fenomeno che si sta popolarizzando si genera una marea di materiale superfluo e superficiale. Questo aspetto lo si nota nei festival di editoria. L’anno scorso un ospite di F39 diceva che prima di stampare, di produrre qualsiasi lavoro cartaceo, bisogna esserne assolutamente sicuri – anche per un discorso legato all’impatto ambientale. La popolarizzazione di questo fenomeno, soprattutto con l’avvento dei blog, di tumblr e di molti festival non tanto “sinceri”, è molto pericolosa. È tutta autoproduzione, è tutto self-publishing. Bisogna essere in grado di distinguere ciò che è pretestuoso e ciò che non lo è.

Tra gli aspetti pericolosi è possibile parlare anche di autoreferenzialità?

Sì, nel senso che detta a se stesso dei canoni estetici. Vengono prodotti materiali che diventano parte di questa nuova forma visiva, di questi canoni estetici, e quindi sono autoproduzioni che si somigliano tutte, le une con le altre, come si vede spesso in questi festival, e parlo anche di contenuti, dall’archivio web alle indagini sul territorio.

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Mariacarla Auteri nasce a Caltagirone (CT), ma si trasferisce subito al Nord dove si diploma al Liceo Artistico di Bologna e si laurea in Progettazione e produzione delle arti visive presso l'Università IUAV di Venezia con una tesi sulla performance In search of the miraculous di Bas Jan Ader, estrapolando da essa possibili interpretazioni sull'esperienza estetica tra uomo e "territorio magico". Collabora attivamente con riviste d'arte contemporanea online, è autrice di diversi saggi e testi critici.

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