Anni Settanta, l’Arte e la Mostra che non c’è

dalla mostra ANNI '70 ARTE A ROMA-FABIO MAURI, ph Sandro Mele

Gli Anni Settanta sono un periodo strettamente collegato a quello precedente, dove confluiscono le istanze che hanno portato al liquefarsi dell’arte nella vita, per il quale forse più che per altri, è necessaria una revisione della solita classificazione storiografica per decenni: un periodo che ancora oggi rivendica il diritto ad una rilettura oltre la rigidità filologica e classificatoria, dove la Storia si apre alla visione più geografica di una mappa emozionale, un estuario di storie e narrazioni che rimandino all’identità complessa e sfaccettata di un momento cruciale che ha messo in discussione la nozione stessa di arte sui principi dell’avanguardia storica, con tutte le contraddizioni che questo comporta, in relazione all’essere dentro e insieme fuori il sistema, con la consapevolezza che nel contesto della società dello spettacolo non ci potrà essere che “un’ arte del cambiamento” come “espressione pura dell’impossibilità del cambiamento” come ha sancito Debord. L’esercizio critico tagliente e costante da parte degli autori della neoavanguardia è all’insegna della radicalità del qui e ora e di un esercizio dell’autenticità praticato anche nel versante della critica d’arte dalla straordinaria Carla Lonzi. 

Gli Anni Sessanta, quelli dell’euforia dell’opera totale, preparano alla visione apocalittica del, periodo successivo dove si consuma il sogno di cambiare il mondo e insieme si sgretola l’ipotesa di una auspicata, shilleriana società estetica, che porterà ai ritorni all’ordine degli Anni ’80, voluti essenzialmente dal mercato che risorge dalle sue stesse ceneri nel contesto di un economia come vero potere, ben oltre la politica.
Sollevando domande più che dando risposte, tra analisi e superamento dei linguaggi, affondo, ribaltamento, distruzione e ricostruzione dei parametri sociali e individuali come premessa per il mosaico linguistico esploso della contemporaneità, tra derive , regressioni e rimozioni, ibridazioni, contaminazioni e sradicamenti rizomatici, si disegna in filigrana tra le altre, un’appartenenza, un’ identità italiana anche a fronte di un supposto internazionalismo, alibi impugnato dalla critica per una funzionale omologazione. L’arte riflette su se stessa e l’autore fa un passo in dietro, concentrandosi oltre che sulla mente, sul proprio corpo fisico e sociale, trasfigurato o sublimato, scarnificato nei suoi gangli più sensibili, come un sismografo psichico a nervi scoperti, assunto come medium comunicativo: riconosce nel pubblico il vero attore delle drammaturgie estetiche di ordinaria follia, il vero protagonista del processo per un’arte endogena che è pratica relazionale allo stato puro agita nello spazio pubblico per eccellenza, la città,  “spazio sociale”, oltre quelli deputati. Uno spazio emblematico, condiviso e partecipato, nel sovvertimento della “rappresentazione” in quella “presentazione” che appartiene al divenire dell’esistenza.

I cosiddetti Annisettanta, che iniziano appunto già nella seconda metà dei Sessanta, sono all’insegna della relazione e della soglia, dell’essere contro tutto e il contrario di tutto, dell’effimero e dell’infinito, rizomatici, rivoluzionari, spiazzanti, mitici e caleidoscopici: il cosiddetto decennio lungo del secolo breve rimanda, pertanto, all’ immagine di specchi che frantumano e ricostituiscono in miriadi di forme i molteplici aspetti di un momento storico e culturale che possiamo “nominare” come nel gioco delle libere associazioni: politica, spazio, terrorismo, poesia, sociale, utopia, collettività, teatro, città, gioco, libertà, performance, rock, futuro, rivoluzione, guerriglia semiologica, avanguardia, underground, differenza, edipo e antiedipo, indiani metropolitani, manifesti,off, piazza, sesso, autonomia operaia, radio libere, femminismo, liberazione, gli altri e l’altro da sé. Termini che costituiscono una visione complessa che indubbiamente necessita di una rilettura e di un’ interpretazione, anzi di più letture e interpretazioni per trovarne le chiavi e adoperarle per aprire quella porta duchampiana dalla serratura multipla di un presente le cui ombre della rimozione, come le rigide demarcazioni di una visione appiattita, stereotipata e manichea, possono essere fugate solo con la luce radente e trasversale del passato, come indica l’angelo di Benjamin, in questo caso prossimo venturo.
Forse il passaggio dalla cronaca alla Storia e da questa alla geografia, per quel decennio non è ancora avvenuto proprio per la sua particolare complessità e problematicità, per quel portarsi introiettate una serie di questioni irrisolte dei decenni precedenti e forse anche dei seguenti appunto, per quella peculiarità di costituire il giro di boa interrotto del ribaltamento in corso, di rappresentare un nucleo di potenzialità e una portata innovativa che si è scontrata di fatto con l’impermeabilità del reale, inghiottita dal buco nero del sistema, Cronos divoratore che metabolizza ogni spinta contraria restituendola come slogan o mera utopia . Il caleidoscopio, metafora del periodo in questione, è un oggetto magico e ingannevole , tuttavia ci rivela i meccanismi della percezione in senso ampio della realtà come forma di una totalità sempre diversa, secondo un piccolo spostamento che veicola lo sguardo. Proprio gli Annisettanta hanno aperto lo sguardo sul mondo, su quel tessuto di relazioni e interconnessioni che rendono quel momento cosi particolare, per cui si fatica a prendere il bandolo della matassa perché c’è n’è più di uno e la matassa in questione è un groviglio pieno di nodi.

Si va sulla luna (nel ‘69) o è tutta una simulazione? Non conta, il sistema è simulazione come la realtà stessa è il proprio simulacro come profetizza Roland Barthes, come lo è l’uso “scorretto” e disfunzionale della virtualità.
Un periodo, dal punto di vista artistico, da leggere in termini non convenzionali, non unilaterali, non essenzialmente cronologici e rettilinei quanto piuttosto trasversali e perchè no, anche a ritroso, perché il futuro è fatto di passato e presente come flusso continuo, come ci hanno indicato i filosofi controcorrente e le pratiche orientali, in cui si ricompongono l’apparente frammentarietà e le varie lacerazioni, visioni, forme, voci, colori, tensioni, movimenti e pratiche del corpo, a fronte delle dinamiche del consumo nell’ avvento della comunicazione mediale, della militanza, della sovversione dichiarata, ammessa e insieme non concessa, del pensiero concettuale e di quello metafisico, della negazione e della ricomposizione di un’integrità a monte. Tutte facce della stessa medaglia, all’insegna dell’abbattimento delle demarcazioni e delle dicotomie, nonchè dell’intransigenza ideologica che propone una terza via che sgombra il campo da ogni retorica nei termini di “una fine che non finisce di finire”, ma che vorrebbe per certi versi anche farla finita. Insomma una sorta di paradosso spazio temporale, come Duchamp che gioca con l’arte facendole scacco matto e contemporaneamente mettendo in scacco sé stesso come artista. La partita, infatti, si gioca attraverso un’arte che si autoproclama come proprio ineluttabile superamento, rendendosi invisibile e incollandosi come un tatuaggio sul proprio autore in dichiarata crisi di identità, dichiaratamente contro il proprio statuto tradizionale, che però in realtà. lo scacco vorrebbe farlo al mercato, un mercato che ne avrebbe poi prodotto anche le sindoni pur di riacquistare le proprie quotazioni.

L’avanguardia diventa di massa dando la sensazione che la profezia della società estetica era li lì per realizzarsi, e tutti potevano riprendersi la propria vita e il suo luogo per eccellenza, la città, attraverso l’immaginazione al potere e il potere dell’immaginario nell’avvento della società dell’immagine. Insomma, parliamo di un momento come un testo aperto, anzi un ipertesto con molteplici chiavi di ingresso e itinerari da percorrere, che emblematicamente rimanda a una visione della realtà non univoca, ma da reinventare continuamente a fronte di una percezione sempre più complicata che si colora a tratti di accesa visionarietà e che non si può liquidare in una lettura storicistica e filologica riduttiva che sa di accanimento terapeutico. Lo spirito del tempo era quello della condivisione che implicava una revisione dell’atteggiamento demiurgico dell’artista alla luce della partecipazione, per lo sconfinamento dell’arte nella vita, nel bene e nel male, vissuta tutti i giorni.

Arte e vita, la sfida dell’avanguardia storica viene presa alla lettera e agita: Eco nel ‘77 identificava nella guerriglia semiologica delle radio libere, dei graffiti e della protesta “l’ultimo capitolo della storia delle avanguardie” : come nelle avanguardie storiche la questione centrale è quella dell’identità, la ricerca del ruolo e della funzione dell’artista e dell’arte in un’accezione critica, attraverso un’opera sospesa tra presenza e assenza, oggetto e comportamento, alto e basso, salvezza e caduta. L’arte fuori e dentro sé stessa in una narrazione che, oltre le apparenti dicotomie, è da leggersi come tessuto di relazioni, coesistenza fluida e sincronica : “L’arte non è un bene elargito per sempre all’umanità : è una funzione e pertanto è relazione” scriveva Argan, proprio in quegli anni. Anni la cui energia si sviluppa tra la vitalità del positivo e quella del negativo, che sta proprio in quella modalità di stare al mondo concependo l’incontro come dispositivo di trasformazione, stabilendo rapporti, relazioni, sinergie, sodalizi anche dialettici e tormentati, nella capacità di collaborare in gruppo, di discutere, uscendo dal proprio solipsismo, vivendo e sperimentando insieme. Anni in cui “tempo artistico e tempo vitale coincidono” come scriveva Achille Bonito Oliva.

A Roma, come indicava Maurizio Calvesi, il sacrosanto binomio arte e vita si consuma in uno spazio totale teatrale dove lo spettatore diventa osservatore consapevole e coinvolto in una messa in scena tra realtà e artificio, caratteristica di una città all’insegna di un barocco fuori dalla sua cornice storica che ne permea la grande bellezza: un clima che si consuma in quei luoghi elettivi come l’Attico di Sargentini o La Tartaruga di Plinio De Martiis, che abiurando al proprio statuto commerciale, erano veri e propri teatri- laboratori di creazione e confronto, spazi magici e antropologici con una loro particolare sacralità, in una Roma provinciale e internazionale, attrattiva e dialettica che trasudava di un esuberante vitalismo bruciato dal fuoco dalla propria energia creativa e dal mito di un’ arte che divorava se stessa nella cornice della propria inevitabile e mitizzata sparizione.

A fronte di questa premessa, visto che gli Annisettanta sono gli anni della relazione in senso emblematico, reale e metaforico, una mostra che condensi tutto ciò, una mostra perfetta è per ora un sogno ad occhi aperti: una mostra all’insegna della condivisione curatoriale tra critici delle nuove generazione e protagonisti dell’epoca che l’hanno vissuta sulla propria pelle, a partire dalle testimonianze e dai documenti, dalle opere, ma anche dalla loro negazione, e che rimandi a quel caleidoscopio a quella molteplicità, a quel vitalismo, a quelle tensioni, a quella dialettica on/off , a quell’atmosfera trasgressiva e radicale fatta di narrazioni oltre i parametri istituzionalizzati dalla critica ufficiale, a fronte di una lettura per individualità e non per trend codificati. Una mostra che non c’è, di cui quantomeno negli ultimi anni, non si vede l’ombra e proprio perciò necessaria per ristabilire pesi e misure che restituisca dell’arte, di quell’arte, la caratteristica di tessitura vitale in continua negazione e rigenerazione, restituendo l’identità degli Anni ‘70 a Roma, e non solo, nella loro autenticità e realtà: una storia tutta da scrivere, ma prima ancora da “ascoltare”, Carla Lonzi docet, per una mostra tutta da fare, Istituzioni permettendo.

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Patrizia Ferri- storica, critica d’arte, curatrice e giornalista. Docente presso l’Accademia di Belle Arti e l’Università “La Sapienza” dove co-dirige il CEDRAP (Centro di ricerca e documentazione sull’arte pubblica).

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