Da Tunisi a Berlino e al resto del mondo. Nadia Kaabi-Linke. L’intervista

Nadia Kaabi-Link - Butcher bliss - (2012) -(Photo Bernhardt Link ) - Courtesy the artist

Da un’esperienza personale nasce No (2012), l’installazione video presentata da Nadia Kaabi-Linke (Tunisi 1987, vive e lavora a Berlino) in occasione della mostra Ici l’Afrique/Here Africa curata da Adelina von Fürstenberg e organizzata da ART for the World al Musée des Suisse dans le Monde – Château de Penthes, Pregny-Ginevra. Madre ucraina e padre tunisino, l’artista ha studiato arte a Tunisi per conseguire il PhD alla Sorbona, Parigi nel 2008. L’identità – un tema che la tocca da vicino – è alla base della sua indagine artistica, in cui convergono aspetti psicologici, sociali, geografici. L’opera No, in particolare, racconta le dinamiche burocratiche vissute dalla stessa Kaabi-Linke nel momento in cui doveva recarsi da Berlino a Londra (l’opera ha partecipato alla Liverpool Biennial 2012). La richiesta di visto – avendo lei doppio passaporto in entrambi i casi extracomunitario – si è dilatata in tempi lunghissimi (due mesi) durante i quali è stata privata di un’identità, avvolta nel limbo delle circostanze. L’esito, si sa, in questi casi è subordinato alla sfilza incalzante di domande che sfiorano il paradosso e che richiedono la stessa risposta: ‘No’. Domande snocciolate come in una litania da due labbra che si muovono nel nulla del bianco, ipnotiche. Mentre il ‘No’ viene ripetuto in coro da una folla di adepti (bambini e adulti, uomini e donne) all’interno di una chiesa. C’è ironia, ma anche tanta tristezza e rabbia nell’affrontare la questione spinosa dell’emigrazione. Chi può entrare. Chi non può entrare. Riflessioni in corso…

No è un lavoro sull’emigrazione che parte da una tua esperienza personale…

“Ho espresso la frustrazione che ho provato quando dovevo recarmi in Inghilterra. Volevo parlare di un tema serio come quello dell’emigrazione, ma l’ho fatto in modo più ironico e con umorismo. La forza, forse, viene anche dal contrasto dell’aver preso qualcosa di esistente – il questionario – e di averlo messo in un contesto diverso, inaspettato, che è quello liturgico della chiesa. Se mi fossi trovata a Tunisi, forse, sarebbe stato normale aspettare due mesi per il visto, ma vivendo da quindici anni in Europa ho il permesso di soggiorno. Normalmente da Berlino per ricevere il visto per l’Inghilterra occorrono dieci giorni, due settimane al massimo. Invece, ho dovuto aspettare più di due mesi durante i quali, avendo consegnato il passaporto, non potevo uscire dal paese. In quel periodo in Tunisia c’era la rivoluzione, se fosse successo qualcosa alla mia famiglia non sarei potuta partire!”

Da lì sei partita per una riflessione universale…

“E’ esattamente quello a cui aspiro. Non lavoro tanto sugli eventi, non mi interessa. In questo caso si è trattato di una coincidenza. Volevo fare un’opera che si aprisse a tanti significati e a diversi livelli di lettura.

Nella video installazione il destino delle persone è deciso da quelle labbra che si muovono, avvolte dal bianco…Sono labbra maschili che sembrano più rosse nel contrasto con il bianco. Labbra e voce appartengono ad un uomo inglese e anche la dimensione è quella reale, come pure il livello dove si trovano che è quello dell’altezza dell’uomo. Ho tolto tutto il corpo lasciando solo la bocca, perché volevo ricreare l’idea di anonimità. Quando si consegna il proprio passaporto – come nel mio caso – non si sa chi lo guarderà. Il futuro dell’individuo è nella mani di gente o istituzioni, ovvero di un qualcosa che è molto più grande della persona, ma da cui si dipende completamente. Nell’opera volevo mostrare lo squilibrio tra le forze. Una sola bocca, una sola voce, domina su tutte le persone e le voci che dovrebbero avere più libertà, ma che in qualche modo sono intrappolate in questa situazione.”

Parliamo, invece, della tua identità…

“Identità intesa al plurale! Ucraina, tunisina, marito tedesco… Mi sento dappertutto come una straniera – alla Camus – ma questo vuol dire anche che, ovunque, sono a casa. Da piccola ho sofferto tantissimo, perché a scuola, a Tunisi, mi trattavano come la miscredente. Per gli arabi è un insulto dire kefr. Vuole dire che non si è musulmani, infedeli. Me lo dicevano quando avevo dieci anni, perché la mia mamma non è tunisina, né musulmana o araba. Quindi la sensazione dell’essere diversa l’ho percepita molto presto. A casa parlavamo russo, anche se mio papà è tunisino e con lui parlo anche in arabo. Ma, malgrado tutto, la Tunisia è la mia casa e mi ci sono sempre sentita bene. Il primo choc culturale, in realtà, l’ho avuto a dodici anni, quando siamo andati a Dubai. All’epoca pensavo che saremmo andati in un altro paese arabo e che non ci sarebbe stato un enorme contrasto. Ma lì, come prima cosa, non capivano la mia lingua che è il dialetto tunisino. Mi hanno subito fatto intendere che non ero araba, il loro Islam poi è molto diverso da quello tunisino. La Tunisia è un paese più emancipato, dove le donne hanno più indipendenza e dal punto di vista istituzionale è una repubblica e non una monarchia come Dubai. E’ stato il primo paese, nel mondo arabo, ad avere la Costituzione. Non era, invece, così strano che la mia mamma fosse russa, perché ci sono molti stranieri negli Emirati. Quindi per la seconda volta mi sono sentita diversa. Dopo cinque anni di esilio negli Emirati, tornata a Tunisi ero ormai adulta ed è stato più facile adattarmi. Quando, dopo l’università, sono andata a Parigi per un dottorato, ancora una volta ho avvertito che ero straniera. Non tanto per via del fisico, perché i miei tratti sono piuttosto europei e parlo francese senza accento, ma per il mio cognome arabo. Ci sono voluti sei mesi, ad esempio, per trovare un appartamento. Pur avendo i soldi e il garante, avvertivo che c’era un altro tipo di discriminazione. Arrivata in Germania, dove il razzismo è più sottile, mi sono sentita finalmente in pace con me stessa. Mi sono detta che sarei comunque stata diversa, straniera, e che forse vivere in un paese così diverso da quelli in cui avevo vissuto fino ad allora mi avrebbe fatto accettare la mia diversità.”

L’arte, per te, è stata una forma terapeutica?

“Quando ero piccola avrei voluto essere ballerina. A Tunisi studiavo danza moderna al Conservatorio, ma quando siamo arrivati a Dubai, negli anni ’90, non esistevano scuole di danza. Quello è stato il primo trauma. Così ho cominciato a disegnare e scrivere poesie. Caratterialmente sono una persona molto aperta, ma in quei cinque anni a Dubai mi sono chiusa in me stessa. E’ stato allora che ho capito che sarei voluta diventare pittrice. Penso che l’arte mi abbia salvato.”

Quindi sei partita dalla pittura per arrivare alle installazioni. Il tuo lavoro artistico è concettuale…

“A Tunisi, dove ho frequentato l’Accademia di Belle Arti, mi sono specializzata in pittura, poi sono andata a Parigi per un dottorato sulla ricerca scientifica dell’estetica. Penso che questo studio mi abbia insegnato un modo di riflettere molto sistematico che ha dato al mio lavoro un’altra dimensione concettuale e sperimentale. Per me è molto importante soprattutto la sperimentazione e anche se un lavoro funziona bene, una volta realizzato è concluso e devo buttarmi in qualcosa di nuovo.”

Ricordo di aver visto nel padiglione The Future of a Promise, alla Biennale di Venezia 2013, il tuo lavoro Butcher Bliss (2010) in cui ti esprimi utilizzando il bianco…

“Ho usato il bianco e la porcellana per riprodurre le parti interne dello stomaco di una vacca. Volevo lavorare sul contrasto, sulle estreme sottigliezze dell’estetica del mondo arabo-tunisino, in cui c’è un rapporto con la bellezza che è molto particolare e che, dall’altro lato, è anche molto violento. Una dualità che avverto ovunque, tutti i giorni: in famiglia, in strada, nei rapporti umani, nell’architettura. Da una parte, appunto, è tutto molto sottile – come lo è anche l’erotismo – non detto, ma c’è anche tanta violenza. Io, poi, non mangio carne e una cosa che continua a scioccarmi è vedere le nostre macellerie, a Tunisi, che espongono anche le teste degli animali con il sangue che cola. Più si vede sangue, più la carne è fresca. Ancora una volta un contrasto. Un’altra cosa a colpirmi sono i nomi come Macelleria della Pace. Nomi che esprimono sempre il contrario di quello che è una macelleria. L’opera s’intitola Butcher Bliss che in tedesco vuol dire Macelleria della Gioia ma anche della Fortuna. C’è un sottofondo di bellezza-violenza, ma l’aneddoto che ha ispirato l’opera è legato a Zine Abedine Ben Ali: quando era ancora presidente si diceva che c’era un macellaio che era sparito, perché aveva chiamato la sua macelleria Macelleria del 7 novembre. In arabo macelleria significa anche massacro. Il macellaio, forse, pensava di glorificare il regime, perché il 7 novembre è il giorno in cui Ben Ali ha preso il potere, ma in un doppio senso allude anche al massacro culturale avvenuto in quella stessa data. Ma si tratta solo di un aneddoto, non so se sia vero o falso. Quest’opera ha un rapporto con la Tunisia, ma indiretto. Il regime di Ben Ali non era come quello di Saddam Hussein. Ma il sistema di Ben Ali – per tutta la sua durata – ha approfittato della gente, della terra, delle risorse prendendo tutto per la sua famiglia e lasciando il paese come una carcassa. Quest’opera ha tanti piani di lettura. Ho usato la porcellana perché è un materiale delicato ed elegante che si usa per le tazze della cerimonia del tè, ma in questo caso mostra la pelle dello stomaco della vacca. Un modo per mostrare quello che solitamente non è visibile. Ho aperto quello che è nascosto. In un certo modo è anche un lavoro su di me.”

Le linee della pelle fanno venire in mente una scrittura…

“Sì, sembrano arabeschi, forme geometriche. Avrò avuto diciotto anni quando in un mercato ho visto queste parti dello stomaco. Tutto il resto è venuto dopo, nel 2010. Questo è il mio modo di lavorare. Metto da parte una serie di elementi che poi, ad un certo momento, acquisiscono un senso.”

Lo consideri un lavoro politico?

“Non vedo il mio lavoro in categorie: politico o non politico. Questa è la mia vita, il mio quotidiano che è fatto di sociale, politico, amore. Temi che s’incrociano sempre. No, la mia arte non è politica, esce semplicemente dal suo tempo.”

Info mostra

  • dall’8 maggio al 6 luglio 2014
  • Ici l’Afrique/ Here Africa
  • a cura di Adelina von Fürstenberg
  • Musée des Suisses dans le Monde, Pregny-Ginevra
  • organizzata da Art for the World in collaborazione con il Musée des Suisses dans le Monde
  • www.nadiakaabilinke.com
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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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