Festival delle Letterature. I racconti della Scrittora e della Figlia del Papa

Chi non risica non rosica”, recita l’adagio. Gli organizzatori del Festival delle Letterature, nonostante la pioggia minacciata, hanno deciso di rischiare, mantenendo la location della serata nello spazio aperto e pieno di vento del Campidoglio. E hanno colto nel segno. Perché chissà se l’ambiente chiuso di un teatro avrebbe fatto esclamare a Dario Fo, salendo sul palco, “Non ho mai avuto una scenografia così bella!”.

Ma procediamo con ordine. Il titolo della serata è Pubblico e privato. Apre il piano di Alessandro Gwis (ha pubblicato due cd da solista, Alessandro Gwis e #2, e vanta collaborazioni con autori del calibro di Paolo Fresu e Stefano Di Battista).

Le note rimbalzano delicatamente nella luce blu di cui è colorata tutta la scena, fino a che non si presenta sul palco la figura di Silvia Ballestra, vestito nero e sciarpa rosa.
Marchigiana trapiantata a Milano, pubblica il suo primo romanzo nel 1991, mentre l’ultimo libro, Amiche mie, è uscito da poco per Mondadori. Il suo inedito si intitola Obama ed io e analizza con ironia sagace la difficoltà incontrata da una scrittora nel passaggio continuo dalla vita reale alla vita narrata nei propri romanzi. Il racconto si apre con una telefonata del direttore de l’Unità, che invita Silvia a scrivere di getto un commento alla stretta di mano tra Barack Obama e Fidel Castro in occasione dei funerali di Nelson Mandela. L’autrice cerca di declinare: è una scrittora, non le appartiene la forma minimalista dell’articolo di giornale. Nulla da fare. E da qui parte  un’acuta riflessione su quanto sia rischioso e su quanto incida sui rapporti sociali la scelta di selezionare dalla vita di tutti i giorni elementi che saranno, opportunamente rielaborati, inseriti in un romanzo. Come placare l’ira funesta delle zie e delle nonne marchigiane che si sentono ridicolizzate dalla scrittura della propria nipote? Come evitare i forse poco piacevoli commenti di tutti quei genitori (di compagni di classe del figlio) che si considerano tirati in ballo nelle storie romanzate di Silvia, se non indossando un paio di baffi finti o fingendo di stare cinguettando su Twitter? Ogni mondo più grande, fino a comprendere l’intero pianeta Terra, è composto di mondi più piccoli: le Marche, che ogni tanto si fanno risentire soprattutto assumendo la forma di un amministratore di condominio, la scuola, Bologna, l’università, i figli, la scrittura… E capacità di chi esercita il mestiere di scrivere sta nel gestire in maniera efficace quanto di questi piccoli mondi viene inserito nei propri romanzi, mantenendo un rapporto quantomeno civile con chi ne entra, suo malgrado, a far parte.

L’atmosfera è distesa, l’inedito di Silvia Ballestra ha strappato risate spontanee, e l’entrata in scena di Dario Fo è introdotta, ancora una volta, dalle note eleganti di Alessandro Gwis. Anche il premio Nobel indossa una sciarpa rosa. Esordisce con la sua voce da cantastorie, esclamando un sonoro “Buonasera!”. Quella che presenta è una lettura scenica ispirata alle vicende di Lucrezia Borgia, protagonista del suo ultimo romanzo, La figlia del papa, edito quest’anno da Chiarelettere. È accompagnato da tre giovani attori: Sara Bellodi, Graziano Sirressi e Jacopo Zerbo. Viene fornita una lettura davvero inedita delle vicende della famiglia Borgia: si parte dalla morte di papa Innocenzo VIII e dalla volontà di succedergli del cardinale spagnolo Rodrigo Borgia, il quale però, prima di salire al soglio pontificio, si sente moralmente costretto a confessare ai propri figli (Giovanni, Cesare, Lucrezia e Goffredo) di esserne il vero padre. La giovane Lucrezia lotta invano contro le manovre della propria famiglia, che non la vede altro che come una pedina per i propri interessi politici, mentre Rodrigo (interpretato dallo stesso Fo) è un attore nato, e mostra un’umanità a metà tra la finzione e l’autentico che manifesterà anche quando, davanti a un’assemblea di alti prelati, si troverà a doversi difendere dall’accusa di omicidio del proprio primogenito, Giovanni.
E qui si tocca il punto più alto della rappresentazione: Rodrigo si lancia nell’annuncio di un progetto di radicale riforma della Chiesa e della curia papale, affermando che “l’unico modo per salvare questa Chiesa è di rinnovarsi e presentarsi al credente trasformato in un altro uomo”, che occorre liberarsi dai privilegi di cui gode la gerarchia ecclesiastica, parlare al popolo, e “interrompere la collezione di concubine di vescovi, cardinali e preti”. Ciò che sbalordisce è che, con il proseguire dell’intervento di Dario Fo/Rodrigo Borgia, ci si accorge della netta sovrapposizione tra passato e presente, e ci si chiede se il personaggio che parla sia effettivamente un papa rinascimentale o, forse, non sia un esponente della classe politica dei giorni nostri. E spiazza capire con quanta efficacia l’attualità possa essere letta tramite il filtro del cursus storico.

Applausi e ancora applausi per Dario Fo. Gli interventi hanno provocato reazioni e riflessioni non indefferenti. E meno male che non è piovuto: si poteva perdere un’occasione così?

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Lorenzo Moltedo nasce a Roma nel 1991. Laureato (triennale) in Lettere Moderne presso “Sapienza” Università di Roma con una tesi sull’Orlando Furioso, è davvero curioso di conoscere cosa gli riserva il futuro. Non saprebbe immaginare una vita senza libri (e lo scrive con il rischio di sembrare retorico). Tra gli altri suoi interessi: viaggi, corsa, cinema e, in generale, ogni forma di manifestazione artistica. Quella con artapartofcult(ure) è la sua prima esperienza “ufficiale” di scrittura.

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