La rivoluzione di Kelly e Scully

Sean Scully Wall of Light Desert Night 1999
Ellsworth Kelly
Ellsworth Kelly

Alla Morgan Library di New York alla fine di una mostra di opere su carta sul Surrealismo faceva bella mostra di sé un bozzetto cinquanta per cinquanta centimetri di Ellsworth Kelly del periodo francese, metà anni cinquanta. Delle linee d’inchiostro nero tracciate su un foglio bianco, in seguito ritagliato in diversi riquadri e poi ridisposti arbitrariamente in un mosaico. La rivoluzione ha due esiti straordinari: si perde la personalità del segno e quindi l’opera acquista indipendenza rispetto al creatore ed è fatta da uno spazio autonomo, originale, liberato tra spettatore e mondo; l’opera è quindi senza dimensione, ossia non è un bozzetto ma già un muro, una barriera o un tramite che dialoga in funzione di una sua fisicità percettiva (fisicità che è già oltre la natura pittorica degli espressionisti astratti).

Il campo perfettamente monocromatico delle successive opere di Kelly apre, o libera in sé, una profondità naturale simbiotica con la natura del mondo, in accordo con essa. Un’apertura mentale è ciò che ottiene Kelly, un’osservazione depurata da precetti, aperta a diverse possibilità percettive. Scully, figlio di Rothko e nemico dell’arte piatta e minimale, è più vicino a Kelly di quanto pensa, poiché concretizza quella percezione, quella libertà, quella tabula rasa, ricaricandola di un oggetto. Scully lavora con l’idea di un muro come assemblaggio di diversi blocchi tra i quali spesso si intravede o si sente chiaro uno spazio ulteriore, e Kelly ha bisogno del piano concreto del muro per sostenere le penetrazione di uno spazio semplificato all’estremo davanti allo sguardo.

Due opere in relazione e due infiniti, trovati a diverse profondità nello sguardo e concretizzati diversamente, ma ambedue fisici, legati direttamente alla fisicità del mondo. Per Kelly lo spazio pieno di uno stesso colore svuota la visione, per Scully nel vuoto dello spazio appare il peso fisico di un’astrazione, che frena lo sguardo fino all’incontro. Nell’opera di Kelly si fugge, nell’opera di Scully si verifica la propria condizione. In Kelly ci si perde, in scully ci si confronta. Nei due casi l’opera ha un corpo autonomo. Kelly è un selezionatore, Scully è un operaio. Il pericolo per Kelly è che la sua opera rimanga inerte, che non generi (o meglio che non ‘sia’) quell’apertura in sé. Il pericolo per Scully è fare dell’astrazione un colosso che non si muove.

L’opera d’arte è solo un’opportunità per chi crede in essa? In ogni caso che l’opera d’arte finalmente mostri il suo corpo senza essere un riflesso di altro è certamente un risultato entusiasmante per l’arte di questo inizio di secolo. Un nuovo spazio e una nuova ordinazione realistica di esso apparirà e forse è già proprietà dell’arte di alcuni giovani artisti contemporanei. Questo è il tema dell’arte che ci è contemporanea. Kelly e Scully sono il nostro luminoso passato. Quella fisicità sola dell’opera annuncia oltre di sé una trasformazione che ri-scopre le cose del mondo. L’arte concettuale, per la sua azione tautologica, nel flusso impetuoso dell’arte, è un lago oggi prosciugato. Il corpo dell’opera di volta in volta smeteorizzato non si tiene più unito. Solo la pittura mantiene unito il corpo dell’opera, lo riaggrega (cosa che Scully ha dimostrato benissimo, essendo le sue opera realizzate di più parti fuse in un’unica tensione). Scully fa quello che serve all’opera, e l’opera si serve di tutta l’energia che passa in lui e che lo traduce. Eppure l’uomo non è soltanto un’antenna, ma anche aspirazione, desiderio, e soprattutto aspirazione e desiderio realizzato.

Sean Scully Wall of Light Desert Night 1999
Sean Scully
Wall of Light Desert Night 1999

Curioso che Scully sia tanto concreto quanto immateriale: per esempio ‘Wall of light’ è il titolo del suo più recente ciclo di opere. L’astrazione non permette definizione: rappresenta se stessa. Possiede una certa materialità, ma la sua materia non si ritrasforma in altre materie. Come dire: nasconde una visione, non la mostra (anche per Scully è lo stesso). Resta quell’opera di Kelly nella mia mente come un gioiello, un riferimento luminoso che fa vera la vita, che dà un valore umano al tempo. È strano come tute le cose più importanti della vita, gravi, inevitabili, siano rette e sopportate, rese accettabili, vivibili, dall’incontro con un oggetto che non ha nulla dell’animazione vitale che ci pervade. Un oggetto morto che dà la vita!, questa è l’assurdiá umana, a questo siamo ancora assurdamente legati. Arte, fede, religione sono ancora indissolubilmente fusi nel mistero dell’inspiegabilità dell’uomo. Forse la nostra epoca si divide tra paura e incoscienza, e l’Arte non è che una forma di codardia. L’incertezza della vita crea la certezza dell’Arte, che è eternamente incompleta, e che l’uomo tenta di volta in volta di colmare. Creare Arte non serve alla sopravvivenza del corpo ma dello spirito. Perché lo spirito è così importante per il corpo? C’è qualcosa oltre lo spirito e la sua continua rivoluzione? Niente. La calma, la gioia, la serenità che se ne ricavano sono l’arma più intima della vita in noi. È una così fragile costruzione, eppure compiuta essa sembra resistere, resistere a tutto per davvero, anche davanti alla morte. Quell’opera di Kelly, anche lei mi prepara a gioire della morte, e prima della vita, e di tutti. È così o è illusione…è così ed è illusione.

L’Arte agli inizi, ai primordi, era una protezione dalla natura, una ricerca di integrazione sproporzionata tra due livelli: la natura grande e inglobante e l’uomo in essa alla ricerca di stabilità nell’Esistente. Così poco sicuro di sé allora ma coraggioso, così certo di sé ora da lasciarsi in balia dell’evento. Isolato artificialmente, oggi, dall’Arte cerca il suo posto nello spazio dell’effimero, nel mistero dell’Arte diventata natura, ossia nella seconda natura dell’Arte. In un’epoca di spersonalizzazione tecnologica, di globalizzazione livellante delle identità, all’Arte spetta la vera reazione, trovare la ricostruzione di un’identità liberando una varietà identitaria ancora più vasta di prima, sorprendendo l’appiattimento che ci mette l’uno contro l’altro, e proprio fagocitando fino in fondo isolamento di massa che sembra divorarci senza fine. Lì, vissuto fino in fondo, si trova il capovolgimento. L’Arte opera questi cambiamenti senza trauma, sempre come una rivoluzione necessaria degli stessi pianeti, mettendoci in accordo meccanico gli uni con gli altri. L’Arte è la forma più coincidente alla totalità dell’universo. Siamo dei codardi in attesa, tanto da ricevere un dono da noi stessi. Se non stessimo in questo stato di pausa abbastanza a lungo non riceveremmo alcun risultato. Il corpo solo dell’opera ci impone (suggerisce e ci fa vivere) questo stato di pausa. C’è un alleggerimento nell’arte contemporanea (Kelly) e c’è una semplificazione nell’arte contemporanea (il linguaggio astratto di Scully). C’è un bisogno di immediatezza, oggi, sconosciuto all’Arte precedente. L’opera e la sua interpretazione dipendono dall’opera stessa. Nessuna natura grandeggiante a giustificare l’oggetto artistico, nessun idea sociale a governare l’opera. Scully è ancora legato al luogo urbano per una decriptazione dell’opera, Kelly lavora con delle ombre che seguono una pianificazione elementare geometrica e planare della percezione, l’ignoto di Richter è concettuale ed esistenziale per mezzo di immagine e pittura che si specchiano.

Ma davanti a questi giganti che pure stiamo ridimensionando, artisti come Tuymans o Sasnal sono formiche poiché creano l’opera come uno specchietto per le allodole del loro piccolo privato. Bacon vuole creare uno ‘shock visivo’ come lui stesso dice, che dura l’attimo in cui si percepisce l’immagine. Però, per Bacon accade qualcosa di speciale, egli crea uno spazio preciso dopo la visione dell’opera: la cognizione di una speciale natura umana (l’essere è ridotto all’estremo della sua apparenza reale e solo attraverso sé resta come esperienza vissuta e incontro realizzato). Per Kelly rimane l’idea e una sensazione d’apertura e libertà di tabula rasa, per Scully la partecipazione al fatto di un’astrazione che coinvolge lo spazio vivo, dove passa lo spettatore. Bacon è il solo a disfarsi dal quadro e a immetterci nella nostra memoria una precisa entità vivente senza altri riferimenti che se stessa. Questa entità è già tutti noi, è già quella forma irriducibile che passa dall’uno all’altro attraversando lo schermo di una solitudine assoluta (ma viva, quantomai viva, accesa, irrequieta ci dice Bacon!).

Ho incontrato Scully alla mostra Orizontals and Verticals a Roma al Palazzo delle esposizioni: due sono le frasi che mi sono rimaste in mente “Vorrei che i miei quadri riuscissero a parlare” “Sono come Cimabue”. I quadri di Bacon sono così vicini allo stato irriducibile dell’individuo che può generare la parola. La mobilità interiore dei quadri di Scully ha un sommovimento fisico e spirituale che quasi chiede di essere tradotto in parole, ma si ferma poco prima. Nel vuoto aperto e luminoso di Kelly pare quasi di sentire risuonare una voce, ma ancora non si sente, anche se forse un primo suono altissimo trapela. Richter è aspro duro rumore di fondo, alla radice di una coscienza nuova, di un individuo che reimpara a parlare. Questa è rivoluzione!

Il futuro sta nel passato, solo così il presente si vede e si sente crescere.

 

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Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma, dove vive e lavora. Vincitore di diversi premi, ha pubblicato sette libri di poesie - Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (con Teodosio Magnoni; Exit, 2002), Poesie della non morte (con Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Scheggedellalba (con Pietro Cascella; Cento amici del libro, 2008) - nei quali il suo modo di procedere è “vasto quanto un luogo poiché lì è qui ma quando/ci si avvicina al luogo qui e lì già accade tra la/parola e l’universo che si toccano”. Ha ideato e curato dal 2001 al 2006, per Aeroporti di Roma, il progetto culturale “PlayOn” e ha diretto l’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato due romanzi, Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008). È presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.

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