Maria Lai, riannodiamo il filo. Parola all’artista

Il 16 aprile dell’anno corrente si commemorava il primo anniversario della scomparsa di una grande artista, ma prima di tutto di una grande donna, e maestra di vita: Maria Lai.
Chissà se il suo volto, segnato dal tempo che scorre, ma sempre dolce, se il suo sorriso lieve e silenzioso, piccolo, ma estremamente coinvolgente, come lei stessa era, è stato presente quando la sua amata terra di origine, radice e corteccia, la Sardegna, ricordava la sua dolorosa scomparsa… ci piace pensare di sì.

Ad Ulassai, provincia dell’Ogliastra, dove l’artista era nata, presso la Stazione dell’arte, Museo di Arte Contemporanea sorto da un suo progetto e che raccoglie molte delle opere donate dalla Lai al proprio paese, si è inaugurata una mostra a lei dedicata e intitolata Parola d’artista. L’esposizione, ancora visitabile fino al 30 giugno 2014, raduna opere della Fondazione e altre provenienti dalle collezioni di enti e di privati, riunendo in particolare quelle dove si rintraccia una comune cifra stilistica: la scrittura con il filo.

Tra i capolavori esposti, I Racconti del Lenzuolo, della fine degli anni ottanta, i libri cuciti ed un grande lavoro dedicato a Gramsci.

Mi imbattei per la prima volta nel lavoro di Maria Lai nell’aprile del 2013, proprio quando era da poco scomparsa, mentre lì dove mi trovavo, al Mambo, Museo di Arte Contemporanea di Bologna, venivano esposte le sue opere in occasione di una mostra intitolata Autoritratti. Iscrizioni del femminile nell’arte contemporanea. Rimasi rapita proprio da I racconti del lenzuolo (1984, filo cucito su tela); mi avvicinai incuriosita da ciò che inizialmente sembrava proprio la scrittura di un racconto che doveva essere affascinante e coinvolgente, ma che da vicino si è rivelata essere un fitto aggrovigliarsi di fili neri. Quel lavoro, di forte impatto, aveva evocato un misterioso mondo dove la mano della donna mi sembrava protagonista, su di un candido lenzuolo bianco, e mi parlava di tradizioni, di ritualità, legate intimamente all’universo femminile, ma che si dichiaravano in maniera nuova, autonoma, creativa e in qualche modo anche drammatica, se per dramma si può intendere quella dolce e severa illeggibilità di fili neri ricamati come fitte parole.
Il filo nero quindi come l’inchiostro, di una scrittura che racconta storie profonde, il filo, quell’elemento che ci “lega e collega” , che tiene unite le cose insieme, la pagina e il racconto, il bianco e il nero, l’ombra e la luce, il pieno ed il vuoto, per ricordare la lezione del grande maestro dell’artista: Arturo Martini.

Ma il filo è anche il simbolo della vita e della donna, a partire, se si vuole, da quel cordone ombelicale che ci lega inestricabilmente alla figura materna nel momento in cui veniamo al mondo, fino ad arrivare alla millenaria storia di miti e legende che lo legano alla figura femminile, pensiamo al filo di Arianna, alle Parche, o a Penelope, e non sarà un caso se sono davvero molte le artiste nel tempo ad averlo scelto come medium linguistico e strumento di lavoro e
Maria Lai è sicuramente una di queste.

Tutto il percorso dell’artista ogliastrina è come appeso a questo filo, che traccia i segni di una storia al femminile sì, ma universale, perché l’arte per Maria Lai è unione di uomo, donna, e divinità. Da sempre sfuggita ad ogni collocazione da parte della critica, inseguiva quel filo fin da bambina, affascinata dai numerosi telai brulicanti nelle case di Ulassai. Ogni donna ne aveva uno e tutte tessevano. La tessitura diventava quasi un rituale per le donne del luogo, a scandire il loro tempo quotidiano, come testimoniano le bellissime storie raccontate dallo scrittore sardo Salvatore Cambosu, grande amico della Lai: “Appo intenso sonu’ e telarzu, e sa bidda no parìat più morta…” (Ho sentito un batter di telaio e il villaggio non mi sembrava più morto, tratto da: Un Cervo in ascolto in: Salvatore Cambosu, Racconti dettati a Maria Lai, 2008 ).

Se si vuole rintracciare nell’artista la prima impronta di questo filo, bisogna osservare bene i suoi disegni, che fin dagli anni quaranta, quando il disegno era ancora uno dei linguaggi prevalenti nella produzione dell’artista, mostrano una evoluzione della linea che si fa sempre più sottile e filiforme, ma è con i collages e con i telai, negli anni settanta, che l’artista raggiunge un punto di svolta per la propria ricerca. Quel filo che si materializza nelle sculture dei Telai, alcune visibili presso la Stazione dell’Arte, diventa poi protagonista, sulle tele e sulle pagine cucite, fino a toccare l’apice di una poetica, se si vuole anche di sofferenza, nei bellissimi libri cuciti. Questi libri sono sempre aperti, ma illeggibili, ed offrono a chi guarda una grande emozione insieme ad una sensazione di limitatezza: non si possono sfogliare, perché le pagine sono legate tra loro, come nel Libro Scalpo, dove l’inestricabile ed ingombrante matassa di filo nero che tiene unite e costrette le pagine del libro si affianca alla profonda suggestività di una poesia muta.

Ma i libri-oggetto sono solo una parte della immensa produzione dell’artista nuorese, conosciuta dal pubblico e dalla critica principalmente per altri lavori più recenti, come Legarsi alla montagna, del 1981, quella bellissima performance, se così si può denominare, dove i protagonisti furono gli abitanti di Ulassai, i quali con un nastro azzurro di tela di jeans (ventisei chilometri di nastro, quindici centimetri di larghezza) legarono tutte le case del paese, mettendo i pani delle feste fatti dalle donne laddove esisteva tra le famiglie un legame d’amore, e lasciando passare il nastro liscio dove vi erano rivalità. L’operazione fu immortalata dalle fotografie di Piero Berengo Gardin e da un video di Tonino Casula intitolato Legare, collegare. Quando furono legate tutte le case, quattro scalatori portarono il capo estremo del nastro in cima alla parete a strapiombo che sovrasta il paese. Non ricevette molta attenzione da parte della critica questa operazione, che, come molti dei lavori di Maria Lai, si faceva fatica ad inquadrare in una etichetta adeguata. Performance? Land Art? No, la vera operazione Maria Lai l’aveva fatta con le persone, lei restava dietro le quinte, lei aveva fatto si che quel filo nero cucito sulle pagine adesso diventasse azzurro e si srotolasse nelle mani degli abitanti del suo paese, un paese dalle tradizioni forti e difficili da sradicare, un paese sempre a rischio di frane, dalla condizione sempre precaria. Resi partecipanti attivi al gioco dell’arte, gli abitanti diventavano consapevoli del loro spazio, della loro presenza nel mondo, in quella frazione dell’Ogliastra, che quel giorno del 1981 diventava qualche modo il centro dell’universo.

E’ stato coniato un termine che ben si attaglia anche alla condizione antropologica particolare caratteristica degli artisti provenienti da un territorio insulare: glocal, indicando un equilibrio tra due situazioni, quella dell’identità territoriale e antropologica legata al genius loci, e quella della globalizzazione del linguaggio attento alle sperimentazioni internazionali. Senz’altro la condizione di insularità è una radice dalla quale non si può prescindere, l’artista stessa ha spesso ricordato che è proprio dalla sensazione di precarietà che nasce l’arte. Ma la sua grande forza è stata proprio quella di fare della sua identità un punto da cui compiere infiniti viaggi, come tutti i viaggi fatti di partenze, e di ritorni, inseguendo quell’”ansia d’infinito”, motore che spinge la nave verso nuovi orizzonti e nuove scoperte. Il primo viaggio quando da piccola per sfuggire al destino di donna previsto dalla tradizione della propria terra, scappò via cercando e incontrando l’arte, approdando all’Accademia di Roma prima e a Venezia poi, dove il grande maestro Arturo Martini mise subito a dura prova il suo carattere innocente e dirompente allo stesso tempo, temprandolo, rendendolo fertile di una profonda lezione mai più dimenticata.

Maria Lai non c’è più, ma di lei è rimasto tutto, di lei parlano le strade del suo paese, con i suoi interventi ambientali, un vero museo a cielo aperto. Di lei permane soprattutto l’insegnamento, che fa vivere l’artista oltre il tempo della vita materiale, nella forza del ricordo, di un’artista che credeva nella funzione anche pedagogica dell’arte, ma che rifuggiva dall’autocelebrazione. Ad Ulassai si ricorda Maria Lai come “maestra di vita”, a me piace ricordarla con uno dei suoi bellissimi aforismi:

“L’opera d’arte occupa un piccolo spazio, ma come l’atomo, può sconvolgere uno spazio immenso”.

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Anna Di Matteo è storica dell’arte specializzata in arte contemporanea, critica e curatrice indipendente, lavora con diverse associazioni che si occupano di arte contemporanea; collabora presso associazioni no-profit con progetti artistici e didattici, ha pubblicato su riviste specializzate web e cartacee. Perché l'Arte? Perché ci rende presenti, e liberi.

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