Mont’Oro, in mostra la poesia di Bruna Esposito e il pensiero filosofico di Pietro Fortuna. L’intervista

Senza titolo, 2014 - acciaio, ottone e vetro 5 x 50 x 3,5 cm

È giunto a conclusione MONT’ORO, progetto espositivo a cura di Guglielmo Gigliotti per la galleria Montoro 12 Contemporary Art a Roma. Come spiega il curatore, l’idea di questo ciclo di tre mostre “ è figlia di un piccolo segno – un apostrofo impertinente, che ha diviso in due il nome Montoro, suscitando visioni: la montagna, l’oro, l’arte come enigmatico «palazzo» …”. Da febbraio, dunque, si sono avvicendate nello spazio romano sito nell’antico Palazzo Montoro, tre bi-personali, a cominciare da quella di Gregorio Botta ed Emmanuele De Ruvo, e proseguendo con le esposizioni di Simone Cametti e Marina Paris. Chiude la rassegna la mostra di Bruna Esposito e Pietro Fortuna alla quale desideriamo dedicare un approfondimento. Scrive Gigliotti:

“Pietro Fortuna e Bruna Esposito — si spartiscono, oltre che gli spazi in galleria, anche il sole giallo dell’arte: il primo propenso a far suoi i raggi del pensiero, la seconda a far da nido a quelli della poesia”.

Ed in effetti, sembrano quasi componimenti poetici, le installazioni dell’artista. Che coniuga potenza e leggerezza alla ricerca di un punto di equilibrio tra microcosmo e macrocosmo, l’uno e il tutto, l’interno e l’esterno, il presente e il passato. Ambientazioni che creano territori metaforici, coinvolgono il visitatore in uno spazio meditativo dove è accompagnato in punta di piedi. Attraverso minimi dettagli, suoni, vibrazioni, ritmi, sottrazioni, il tenue movimento del bambù di Non c’è pace tra gli ulivi. La Esposito dà origine ad un sentimento di nostalgica memoria che appartiene ad ognuno e in ognuno riverbera. Qui, solo a volersi predisporre all’ascolto, i nostri sensi compartecipano a un’emozione tutt’altro che spettacolarizzata e tramite l’emozione, l’autrice intesse un colloquio diretto, direi quasi intimo, con ciascun singolo visitatore. In Tulipani, la sagoma di donne nomadi che evocano civiltà mediterranee, trasformandosi in fiori accentuano la sua poetica legata alla natura, all’essenza organica dell’essere e del cosmo.

“Nomadi siamo in effetti tutti… qui sono ritagli di foto di donne velate mussulmane”.

Come suggerisce l’artista nel testo:

“i fiori si svelano da soli. I fiori, cui pistilli e profumi col velo rivelano”.

Nelle installazioni c’è sempre un dialogo delicato eppure molto intenso con lo spazio che le accoglie.

“In effetti mi sento sempre molto coinvolta e avvolta nei luoghi” afferma Esposito. Che in questo caso è intervenuta negli spazi della galleria sull’orditura di numerica: “una mia traccia di metodo per la mostra – dichiara e continua: Il numero 3 mi ha ispirato, esponendo 3 variazioni di 3 temi, tre esemplari di ogni lavoro: i Tulipani – In Teca – Non c’è pace tra gli Ulivi, erano sempre 3. L’opera esposta in vetrina intitolata Threesome ha dettato il metodo”.

Nell’altra metà della galleria, le opere di Pietro Fortuna. In questo caso è l’artista stesso ad accompagnarci con le sue parole/pensieri nell’approfondimento del suo interessante lavoro qui esposto; partendo da una riflessione del filosofo dell’ermeneutica Hans Georg Gadamer, che afferma: Ciò che deve valere come vero, tende verso quel che è credibile…

“Pensando che la verità debba essere raggiunta chissà dove, questa sarà sempre destinata altrove e sempre oltre; il cammino verso la verità è sempre un viaggio della speranza perché, al di qua della verità, non si può che sperare, dunque avere fede. Ecco che aver fede, significa dubitare sull’efficacia di quell’incontro. Infatti, di fronte alla certezza non s’invoca la fede perché viene meno il bisogno di qualsiasi soccorso. Ma chi ha fede in genere ritiene che questa sia una modalità d’accesso alla verità, e per poterla prefigurare si presuppone di possederne già una parte. Ma le verità  particolari sono solo certezze mentre la verità è sempre universale. Rimane dunque il fatto che è vero soltanto il dubbio, il rimedio di cui si serve la fede. E questo è il motivo per cui l’ossessione della verità ha reso gli artisti dei falsari le cui procedure di verità sono infine le stesse della tecnica. Dove le modalità particolari sono separate dal fine universale che si vorrebbe raggiungere e ogni conseguimento è solo il risultato di un accertamento, una verità relativa in quanto vera rispetto al processo che è stato messo in atto. Non dobbiamo dunque meravigliarci che l’arte agisca come la scienza.. e la riflessione di Gadamer è sempre più attuale.”

Alla luce di questa anticipazione, potresti descrivere le tue opere in galleria cominciando da quelle poste a terra?

“Potrei definirle come una cerimonia che ha smarrito o forse non ha mai avuto il proprio oggetto. Resta la cerchiatura, il bordo, un tratto virtuoso che ci dice che qualcosa rivendica la propria singolarità. L’eterna indifferenza delle cose che sembrano, come dice Meister Eckhart, tremare quando il nostro sguardo le intercetta, prima del loro divenire immagine. L’irrappresentabile è ciò che cinge la singolarità, privandola di ogni tensione di duplicità e lasciandola come evento assoluto”.

La disposizione degli oggetti sembrerebbe seguire un ordine, una motivazione che tende a ottenere un risultato …

“I miei oggetti prendono posto come se obbedissero a un ordine prestabilito, scelti e convocati nello stesso luogo. Ma a quale vocazione risponderebbe la loro presenza? Si direbbe a nessuna, perché è solo l’effetto di una mia azione. Da me voluta e perseguita. Si presuppone, a questo punto, che ci debba essere una motivazione che l’ha spinta e, dunque, una finalità… Che io abbia scelto un modo tra i tanti per ricavare un certo risultato. Dunque, una maniera. Ma se la maniera non fosse solo una modalità, così come per il fedele pregare non è un mezzo per andare a Dio, ma è  sentire Dio presso di sé? Allora tale modalità sarebbe l’essenza stessa di quella vocazione. Ecco perché a proposito delle mie opere parlo di una maniera felice dove ogni possibilità si esaurisce nell’evento di un incontro inderogabile, in un luogo conveniente e in un momento favorevole”.

In galleria sono disposte a parete tre fotografie intitolate: Una regola passiva, Due regole passive e Tre regole passive; potresti soffermarti sul senso di questa installazione?

“Perché se ne tragga il senso autentico intanto bisognerebbe possederle tutte e tre anche se sono indipendenti l’una dall’altra. Diciamo che acquistarle tutte sarebbe non solo cosa saggia ma, non secondariamente, cosa gradita!

Cosa rappresentano le foto?

“Tre luoghi. Il Trocadéro a Parigi, la Hall della Compagnia delle Poste a Città del Messico e, infine, una terrazza in Rwanda. Tutte da me scattate negli ultimi tre anni. Ma a ben guardare su ogni foto sono stati praticati dei fori o delle asole circolari da cui si colgono altre immagini. A volte semplici campiture di colore o delle biglie di vetro… Potremmo pensare che questi oggetti rappresentati all’interno dei fori trovino lì la loro dimora, ma come dicevo il Trocadéro, la Hall e la terrazza sono per noi altrettanti luoghi”.

E le regole che citi nel titolo?

“Vorrei prima specificare che per passivo intendo etimologicamente patire dal participio passato pàti di passivus, ciò che soffre l’azione, ciò che non agisce, ma appunto, patisce. Quindi le regole, che pur ci siamo dati, non sono altro che la condanna a essere subite e se mai dovessimo contravvenire a queste regole sarebbe una mera illusione credere di essere liberi perché anche la libertà si imporrebbe come condizione e dunque afflizione”.

Parlaci dunque delle regole passive Una Due e Tre

“Ebbene la Prima regola passiva fa sì che un luogo per essere tale non può cedere il proprio spazio a un altro luogo rimanendo esso stesso luogo, ma solo assorbirlo, comprenderlo, assumerlo. Qui interviene la Seconda regola passiva: ciò che è prima, anticipa tutto ciò che segue, anche un futuro che potrebbe apparire avverso e tale da compromettere la sua provenienza. Infine la Terza regola passiva che vorrebbe dar ragione a un antico problema: l’arte è il più del reale o il meno del reale? Sono forse sono meno veri quegli oggetti che vediamo attraverso i fori dell’immagine in primo piano, la stessa che cede parte del suo spazio – rimanendo lo stesso luogo (Prima regola passiva) –? E quanto è più vero il presente rispetto al suo avvenire – ciò che è prima anticipa tutto ciò che segue (Seconda regola passiva) – ? A questo punto ci sarebbe da chiedersi a cosa servano le prime due foto giacché la terza (la terrazza in Rwanda) sembra contenere le altre due. Ma la Terrazza in Rwanda non è né il Trocadèro né la Halle della Compagnia delle Poste. Questo è un fatto! Ma c’è anche da dire che le mie considerazioni sono del tutto indifferenti all’identità di questi luoghi. Credo, a questo punto, che sia saggio considerare ancora una volta che ciò che chiamiamo luogo non rappresenti altro che una convenzione, un prodotto della ragione; quindi la motivazione a esporre tutte e tre le foto va ricercata esclusivamente nel senso delle ipotesi che ho espresso e che ci portano diritti alla conclusione… ”.

Che conclusione?

“Che tra i grandi prodigi dell’arte si aggiunge, ora, la capacità di provocare un’amnesia dello sguardo. Attraversare un’immagine pensando di andare oltre a prenderne altre, dimenticando la compostezza del Trocadèro o il fasto della Halle della Compagnia delle Poste. Probabilmente la fresca terrazza in Rwanda sarà l’unica a esser vista!”

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Lori Adragna nata a Palermo, vive e lavora a Roma. Storico dell’arte con perfezionamento in simbologia, critico e curatore indipendente, dal 1996 organizza mostre ed eventi per spazi pubblici e privati tra cui: Museo Nazionale d’Arte orientale di Roma; Villa Piccolomini, Roma; Museo D'Annunzio, Pescara; Teatro Palladium, Università Roma Tre; Teatro Furio Camillo, Roma; Palazzo Sant’Elia, Palermo; Museo di Capodimonte, Napoli; Complesso monumentale di San Leucio, Caserta; Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese, Roma. Come consulente editoriale e artistico ha collaborato con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (mostre e cataloghi nel Complesso monumentale di S.Michele a Ripa) e come collaboratore-autore presso l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani. Lavora con la qualifica di content editor presso Editalia, IPZS. I suoi testi sono pubblicati su enciclopedie, libri, cataloghi e riviste, in Italia e all’Estero. Scrive come free lance per numerose riviste specializzate nel settore artistico e collabora con la testata Artribune.

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