La mostra che non ho visto #62. Claudia Peill

Claudia Peill in un ritratto fotografico di Andrea Nisi
Claudia Peill
in un ritratto fotografico di Andrea Nisi

WHEN ATTITUDES BECOME FORM: BERN 1969/VENICE 2013

Settembre 2013. Sentir parlare di una maratona a Venezia sembrerebbe davvero fuori luogo; non ho compreso bene dove si svolgerà questa maratona, forse a Mestre, penso in treno mentre mi accingo ad entrare nella stazione di Santa Lucia.

E così prendo il primo traghetto che mi porta verso l’Arsenale per visitare la 55a Biennale d’Arte e passo una giornata perfetta programmando la visita ai Giardini per il giorno dopo.

La mattina in albergo a colazione incontro un amico che ormai vive a Berlino da anni e insieme parliamo a lungo di questa fatidica mostra, “ When attitudes Become Form”, che ho pianificato di vedere sul finire giornata prima di tornare in stazione e per la quale lui è venuto apposta dalla Germania.

Uscire dall’albergo che si trova in fondo ai giardini è già un problema.. cominciamo a vedere atleti con pettorine, stands con abbeveraggio e servizio d’ordine. Ci chiediamo cosa succede e ovviamente con stupore per la domanda ci rispondono “c’è la maratona! Non lo sapete? Ci sono circa 10.000 persone giunte per l’evento”. Ma come è possibile che a Venezia con tutti quei ponti, con tutte quelle scale, con tutta quell’acqua si possa correre? e soprattutto come si possano percorrere 42 chilometri in una città come Venezia che inoltre è la città più lenta del mondo?

Eppure succede. E questo fa sì che la mia giornata sia drammaticamente rovinata, perché quando tenterò di prendere il traghetto per Ca’ d’Oro e recarmi alla bramata mostra, terminata la maratona, non ci sono più traghetti vuoti ma sono tutti stracolmi di maratoneti stanchi e anche sconfitti che tornano a casa. Vanno tutti in stazione. 6000 partecipanti.

Una volta riuscita a prendere il famoso vaporetto 1, vengo travolta e fatta ostaggio da centinaia di maratoneti che tra salire e scendere rallentano il vaporetto il quale impiegherà inevitabilmente più di un’ora e mezzo per arrivare in Ca’ d’Oro e farmi trovare il portone chiuso.

Questa è la storia buffa di come sia riuscita a perdere irrimediabilmente una mostra che desideravo tanto visitare e che non avrei più potuto vedere poiché era in chiusura e io il giorno dopo stavo partendo per la Germania.

L’interesse profondo nei confronti di questa mostra era proprio nella curiosità di veder riproposta oggi in modo letterale una mostra del 1969, che mantenesse le originarie relazioni e connessioni visuali e formali tra le opere. L’operazione era quella di ridare vita al processo espositivo con cui la mostra originaria “ When Attitudes Become Form” venne realizzata così da superare la mediazione tra documenti fotografici e filmici, e poterla vivere dal vero esattamente com’era, seppur trasportata da ieri ad oggi.

Il mio interesse era ovviamente non tanto dal punto di vista storiografico né curatoriale ma semmai da artista in prima persona.

Cioè volevo vivere di fronte alle opere e -se mai fosse stato possibile- sentire la loro relazione con lo spazio e percepire la stessa situazione e gli stessi equilibri tra forma e spazio e il dialogo tra le opere stesse, senza alcuna mediazione del tempo.

Gli artisti presenti in mostra erano tanti (solo tra gli italiani, artisti come Boetti, Anselmo, Calzolari, e poi Joseph Beuys, Daniel Buren, Nagasawa, o americani come Richard Serra, Joseph Kosuth, Walter De Maria, Richard Tuttle, Bruce Naumann, Dennis Oppenheim solo per menzionarne alcuni) e certamente non tutti strettamente presenti nella mia ricerca artistica attuale ma quello che mi affascinava di questo progetto era proprio l’originalità dell’esposizione, quando ancora non si erano costruiti dei sistemi e dei codici, sia stilistici che di mercato, così serrati. Gli artisti erano tutti giovani, come del resto il curatore stesso, Harald Szeemann, e erano tutti pronti alla sperimentazione e al dialogo tra diversi linguaggi. Quel che più mi interessava della mostra era, presumo, questo senso dell’opera. Voglio dire che la mostra si costruiva sulle opere e sugli artisti e non su degli schemi precostituiti a priori. Erano le opere con la loro spontaneità e mancanza di limiti, dove tutto era lasciato al “processo liberatorio del fare”, a creare un luogo aperto al dialogo e alla dialettica del pensiero.

Quello che pensavo di trovare era proprio un teatro delle idee, dei grandi pensieri su cui venissero costruite le opere e l’osservatore fosse coinvolto a partecipare.
Per il mio lavoro il pensiero è fondamentale, l’idea dell’opera, intesa come progettualità, una strada da percorrere e da seguire. Nella mia ricerca non c’è un solo codice di lettura e la possibilità di decodifica è ampia e mutevole e così anche colui che guarda un’opera ha sempre un ruolo attivo.
Un altro elemento cardine nel mio operare è il processo di slittamento da uno stato all’altro, punto di unione tra diverse realtà e tempi distanti e antitetici che si può definire come una trasformazione.
E questo forse costituisce un mio punto di contatto con molti artisti presenti nella mostra, considerati dei maestri per noi nati negli anni ’60, tracciando quel filo conduttore tra the attitudes e the form.

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Nato mezzo secolo fa a Roma e morto nel futuro, non attraversa di buongrado la strada senza motivo. Impiegato prima in un forno in cui faceva arte bianca poi del terziario avanzato, da mancino dedica alle arti maggiori la sola mano sinistra. Allestisce, installa, fa deperire, dimostra, si confonde, è uno scadente imbonitore, intelligentissimo ma con l’anima piuttosto ingenua. Ha fondato in acqua gli artisti§innocenti, gruppo di artisti e gente comune, che improvvisa inutilmente operette morali. Tra suoi progetti: la Partita Bianca (incontro di calcio uguale), una partita notturna tra due squadre vestite di bianco, a cura di ViaIndustriae, Stadio di Foligno 2010 e, in versione indoor, Reload, Roma 2011 e Carnibali (per farla finita con i tagliatori di carne), Galleria Gallerati, Roma 2012.
Ha contribuito alla performance collettiva TAXXI (Movimento di corpi e mezzi al riparo dalle piogge acide contemporanee) prodotto dal Dipartimento Educazione del Maxxi nel 2012. Sua la cura del Premio città etica (per l’anno duemilae...) e del Premio Retina per le arti visive.

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