Francesca Woodman. Il tempo scorre lungo il corpo e negli spazi familiari. Fotografie dalla Collezione Verbund

Veste un maglione pesante da marinaio a trecce sui toni chiari, pantaloni apparentemente di flanella da uomo larghi anni ’40, i capelli scendono davanti al viso coprendolo completamente, un braccio è appoggiato sulla spalliera del divano e la mano penzola in modo innaturale, l’altra tiene un bastone che si spinge verso di noi, ovvero verso la macchina fotografica per farla scattare, il terzo inferiore dell’inquadratura è sfocato dalla presenza del tavolo troppo vicino all’obiettivo. Questa è la prima foto scattata da Francesca Woodman nel 1972 a Boulder in Colorado e si chiama Self portrait at thirteen; ne farà tantissime altre, per lo più di se stessa, come in questo caso, ma per un periodo breve di tempo, fino al 19 gennaio 1981.

Francesca era nata nel 1958 a Denver da genitori americani e profondamente innamorati dell’Italia: da qui il nome, un omaggio, entrambi artisti di una certa fama; il padre George pittore e fotografo, la madre Wendy ceramista.

Passerà diversi momenti della propria infanzia a Firenze, la prima volta nel 1959 a solo un anno di età. La famiglia tornerà a trascorrere nuovamente un intero anno in Toscana nel 1965 quando Francesca frequenta la seconda elementare a Firenze ed impara a scrivere e leggere in italiano, due anni più tardi acquisteranno un casale ad Antella, sempre in Toscana. Sembra che la bimba durante la sua infanzia parli meglio italiano che inglese. Dopo essere tornata negli Stati Uniti prima a Boulder e poi ad Andover dove frequenterà la Abbott Accademy, una scuola femminile con corsi d’Arte, tra i pochi licei americani ad averne uno, che l’avvicinerà alla fotografia, conosce Wendy Snyder McNeill, fotografa ed insegnante la cui influenza sarà molto presente, in questo periodo comincia a scattare.
Rappresenterà molto se stessa, abbiamo detto: riscoprendo e riportando ad un contesto contemporaneo la tradizione del Tableau vivant, nata nella seconda metà del 18mo secolo, dove le persone venivano chiamate ad impersonare quadri e sculture in forma vivente, lei ne farà il suo modulo di lavoro, un modo per avere a disposizione un palcoscenico a metà tra il reportage e la fiction collocarci sopra un attore, lei stessa, e connettere i due con requisiti di scena tra abiti, oggetti ed elementi architettonici.

Era un’artista di grande talento con una profonda conoscenza della materia, sia la storia dell’arte che la fotografia, ma afflitta da una insofferenza interiore che la portava a sperimentare molto dedicandosi a pochi elementi costitutivi: il proprio corpo (ad un’amica che le chiese come mai lo facesse, rispose in modo non poco ironico: “E’ una questione di convenienza. Io sono sempre disponibile”), la geometria come riferimento spaziale e compositivo ed una particolare passione per atmosfere dimenticate: abiti dalle apparenze vittoriane e vecchi locali abbandonati.

Un muro scrostato le fa da sfondo, lei è accovacciata come se si stesse ritraendo per difendersi ma non ha sul viso nessuna espressione di timore, si copre la bocca con una mano e con l’altra tiene insieme il vestito strappato da sotto il seno, senza lasciarlo vedere, fino alla vita, esattamente della stessa forma e dimensioni della lacerazione presente nell’intonaco del muro sopra la testa dell’artista. È un’immagine di grande valore simbolico ed esplicativo della sua opera: una composizione semplice ma rigorosa, un uso degli elementi architettonici come contrappunto a stati interiori ed emozionali come fossero un prolungamento del corpo, la figura che mostra o nasconde la nudità in un modo di assoluta interscambiabilità tra le due cose.

Francesca è sia l’architetto senza scrupoli che riduce elementi architettonici, spazi vuoti e loro rapporto con le figure che li abitano, ad una mera equazione da costruire; sia l’abitatrice sensibile e fuori dal tempo che attraversa od occupa quei luoghi con i suoi sensi, le sue immagini, le sue paure. Il nudo poi, presente come un linguaggio necessario, fa dimenticare presto se stesso in un’ottica molto più ampia di ritrarre le cose come fossero altre che caratterizzava il Surrealismo con cui era entrata presto in contatto non nei libri di testo a scuola, che doveva certamente conoscere, bensì nella persona di Giuseppe Casetti e Paolo Missigoi nonchè nei luoghi della libreria romana Maldoror. Nel 1977-’78 trascorse un anno a Roma per seguire i corsi del Rhode Island School of Design (RISD), nonostante fossero in generale anni difficili in Italia, di lotta armata, in particolare il ’77 si era inasprita la situazione di conflitto tra parti contrapposte della società civile; un giorno nel passeggiare per il centro storico, seguendo il tragitto dall’appartamento in cui vive ed il campus, scopre quella Libreria specializzata nelle avanguardie del ‘900 dal Futurismo al Surrealismo. Diventerà un punto di riferimento ed incontro quotidiano, una nicchia in cui vivere dove, conoscendo Sabina Mirri, le si aprirà anche la porta d’ingresso verso il gruppo S. Lorenzo o Nuova Scuola Romana operante negli spazi dell’ex Pastificio Cerere. Quei muri, quelle stanze perdono la loro vera identità per diventare i requisiti architettonici delle sue immagini, dei suoi stati interiori, quelli romani non distinguibili da quelli del Rhode Island o New York, dove vivrà dal ’79 al ’81, la Woodman li usa come sipari emozionali, a tratti sentimentali, vorrebbe ridurre oggetti strutturali a pedine di cui disporre liberamente riuscendoci, tutto ciò che è presente nelle sue immagini diventa simbolo diretto, metafora, ma più richiamo cosciente ed istintivo.

È sdraiata in terra, imprigionata tra un vetro ed uno specchio, il viso in ombra, come solito, i muri portanti del palazzo sono visibili così come una libreria vuota e la vista sul palazzo di fronte. Le inquadrature nelle sue fotografie sono una finestra su di una messinscena dove lo spettatore è molto presente, evocato, auspicato nelle immagini in cui Francesca si nasconde vicino ad un muro o dietro una carta da parati strappata, uno specchio per difendersi, ripararsi, definirsi sul suo palcoscenico. È un’arte già performativa, una fotografia che non riprende una scena ma la mette in scena ed attraverso di lei racconta una realtà vicina, sentita, interiore. Senza dimenticare quello che ha sempre scosso ognuno si imbattesse nelle sue opere: l’incontenibile forza dirompente dell’adolescenza e di un latente malcontento interiore affiancati ad una estrema maturità artistica nel prendere ed elaborare classici immergendoli nel contemporaneo che cominciava ad affacciarsi nella forma della Transavanguardia.
La sua visione si colloca tra artisti come Robert Mapplethorpe e Cindy Sherman, sono i primi artefici della rappresentazione del mondo attraverso una messa in scena che vede il medium del loro sguardo come riferimento, per parlare del mondo che ci circonda, della società e delle molteplici realtà che la compongono. In Francesca il self-portrait è il mezzo con cui riprendere sé per capirsi, cogliersi, definirsi in quanto soggetto sebbene trasportato nella polvere, tra mobili antichi e locali fatiscenti, al contrario che in Cindy Sherman dove la protagonista diventa espressione del femminile innalzato a genere collettivo.

Nella maggior parte delle immagini sembra alla ricerca di un luogo dove poter collocare il proprio corpo nello spazio, concentrandosi in alcuni casi all’interno dei suoi confini, ispezionandolo e sondandolo quasi, in altri casi cercando il medium della citazione od ispirandosi in modo formale a classici della storia dell’arte. Un tentativo di far sparire, assimilare, confondere il corpo con lo spazio in una fusione. In un’immagine scattata nel Rhode Island tra il 1975 ed il 78 la troviamo nuda in una teca di vetro che sembra scivolare sul pavimento da sinistra verso destra, il viso è nascosto e lo spazio in cui è rinchiusa ridefinisce i confini di un interno già di per se privo di elementi determinanti, ha l’aspetto di un’opera d’arte che risvegliandosi si ritrovi prigioniera.
Francesca è la figura efebica vestita da una tunica che sembra accarezzare un cigno oppure la figura femminile crocefissa allo stipite di una porta mentre si copre il viso con delicatezza, in soltanto due tra tante riuscitissime rivisitazioni di classici del rinascimento, così come il corpo nudo che vediamo in tante fotografie dove si sia gettata da sé a terra o tra la polvere di antiche stanze.
Cercherà di ridurre le geometrie delle forme a linguaggio espressivo di una interiorità divenuta esteriore, nella ricerca non senza stregua di un senso da catturare, collocare tra le pieghe della propria vita, con entusiasmo e risolutezza raggiungendo momenti di grande bellezza e di toccante profondità, rimanendo ancorata alle proprie immagini da evocare ma non riuscendo forse a liberarsene. Il 19 gennaio 1981 decide di suicidarsi.

Ci ha lasciato foto in cui si confronta con gli specchi e foto in cui vorrebbe diventare parte delle mura o pavimenti che siano, gioca con gli elementi strutturali del suo corpo e dei corpi “architettonici” che la circondano in Alcune, delle sue, disordinate geometrie interiori, titolo del progetto che aveva appena realizzato.

Una mostra dell’artista fruita  dall’autore, è  stata inaugurata alla Vertikale Galerie – Galleria verticale – VERBUND, Am Hof 6a, 1010 Vienna nel 2014.

 

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Dario Lombardi nasce a Roma, si diploma all’Istituto Superiore di Fotografia. Vive e lavora a Vienna come freelance. Ha affrontato diversi generi nella sua professione, dalla fotografia di scena, teatro e danza, passando per la moda ed arrivando al ritratto. Si confronta negli ultimi lavori con la tematica dell’essere umano ed il suo rapporto con il contesto in cui vive. Nel 2008 espone “Hinsichtlich”, reportage sulla donna che veste il velo come scelta religiosa e come confine tra la sfera privata e pubblica. Nel 2009 pubblica insieme con Gianluca Amadei una serie di interviste e ritratti sulla scena professionale ed artistica dei designers in Polonia, dal titolo “Discovering Women in Polish Design”. Attualmente si occupa della mostra-installazione “Timensions” per il Singapore Art Museum 2012, una ricerca sul rapporto tra l’uomo e lo spazio/tempo.

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