Perché parlarne ancora. Gerald Bruneau, I Bronzi di Riace, provoc-azione tra scandalo e omofobia

Gerald Bruneau mentre fotografa i Bronzi di Riace da lui rettificati

Premesso che tra il Kitsch e il Trash c’è una gran differenza (come si sottolinea a breve nella nostra Le parole dell’estetica) e che entrambi i concetti, diversamente utilizzati nella e dall’Arte oggi lasciano il tempo che trovano (avendo lasciato e trovato già abbastanza, in anni addietro: tanto consistentemente da risultare, oggi, territorio trito e ritrito, abusato: un neo-neo-qualche cosa), vale la pena di analizzare l’opera-Azione di Gerald Bruneau al di fuori di tali categorie.

Il fatto: alcuni fotografi hanno il permesso di immortalare i due capolavori d’arte diventati il simbolo della Regione Calabria; proprio questa, per dotarsi di un efficace lancio turistico e artistico all’estero, li invia al Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria a tale scopo.
Siamo a febbraio. Simonetta Bonomi, Soprintendente dei Beni archeologici della Calabria da cui dipende il Museo, li accoglie in attesa di vedere il risultato delle pose. I modelli sono, nemmeno a dirlo, i due meravigliosi Bronzi di Riace.

La storia è nota. Furono rinvenuti il 16 agosto 1972 da un giovane sub dilettante romano, Stefano Mariottini, nel Mar Ionio a 300 metri dalle coste di Riace e a 8 metri di profondità; portati a galla una il 21 e una il 22 agosto grazie ai Carabinieri del nucleo sommozzatori che usarono un pallone gonfiato con l’aria delle bombole, divennero un caso: sia per la varietà di ipotesi attributive e di datazione (sono del periodo severo, intorno al 460 a. C.), sia di interesse storico-artistico e di pubblico. Le operazioni di restauro a Firenze durarono cinque anni e a conclusione (il 15 dicembre 1980) furono mostrate in pompa magna: al Museo Archeologico di Firenze e poi a Roma. Io c’ero. Rammento la fila chilometrica, ordinata e chiassosa, tra gridolini di meraviglia e fenomeni di vera isteria collettiva.

Dopo anni di riflettori puntati, a livello nazionale e internazionale, e pop-olarizzazione sono diventati parte delle meraviglie archeologiche e culturali italiane mai abbastanza promosse e valorizzate. Come sempre in Italia…

Gerard Bruneau è uno dei fotografi chiamati a restituire la sua visione dei Bronzi 2014.

Il vitalissimo monegasco vissuto a Parigi e a New York, dove collabora attivamente all’interno della Factory di Andy Warhol, producendo foto straordinarie, e poi campagne (tra le quali quella elettorale e memorabile di Jesse Jackson, 1988) e reportage pubblicati dal “Washington Post”, “Time”, da “Newsweek”, “Le Figaro”, “Le Monde”, “Vanity Fair” e dal “Magazine” del “Corriere della Sera”, e trapiantato da anni a Roma, è un autore originale, un birbante non nuovo a servizi fotografici scabrosi o, comunque, tosti. La Dott.ssa Bonomi dovrebbe saperlo, avendolo accolto per fargli esercitare lecitamente il suo lavoro all’interno del Museo di cui essa ha la responsabilità. Non solo: di lui deve apprezzare la libertà creativa, evidentemente, tanto da aver trovato bella l’idea di vestire le due statuarie opere di un velo bianco e da non aver trovato nulla da obiettare da una precedente rettificazione – duchampianamente parlando – della Paolina Bonaparte detta Borghese, di Antonio Canova (si legga, anche: gerald-bruneau-da-warhol-alla-paolina-borghese-una-rara-intervista...).
La Soprintendente torna nei suoi uffici e Bruneau procede. Il tulle c’è: ammanta il giovane e il vecchio come sposi novelli. Sin qui tutto a posto. Poi, al velo si aggiungono altri indumenti, imprevedibili.
E’ lo stesso autore a raccontare di aver comprato quasi casualmente in un negozietto lì vicino alcuni accessori Camp: un boa di piume color magenta elettrico e un tanga leopardato. Veste con questi capi sgargianti le due statue bronzee.
Quando i custodi si avvedono dello strano camuffamento intervengono ma l’artista è veloce e lo scatto anzi gli scatti e un video son tratti. Di tutto è dato conto parecchio dopo dall’ANSA, dall’Ansa.it /Calabria alla sezione Notizie (http://www.ansa.it/calabria/notizie/2014/08/02/tanga-e-velo-da-sposa-in-scatti-gerald-bruneau-_3ecca7cd-5d60-4a8d-8337-3da59e5b6086.html) ma rivelato prima di tutti da Dago spia che pubblica photogallery (http://www.dagospia.com/mediagallery/Dago_fotogallery-118766/575505.htm), video (http://www.dagospia.com/video/cafonal-2/1/gerald-bruneau-trucca-i-bronzi-di-riace-365.htm) e tutta la faccenda (http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/soprintendente-museo-reggio-calabria-bruneau-prendo-82285.htm).
Simonetta Bonomi strepita, rilascia interviste, come suo diritto; ma grida anche al complotto (qualcuno vuol forse ridicolizzarla per qualche oscura manovra? O vuol mettere in difficoltà i Beni Culturali tutti per una richiesta negata: di trasporto dei Bronzi all’Expo milanese?).

Anche se Oscar Wilde fa scuola da sempre (ne Il ritratto di Dorian Gray, primo capitolo: “…there is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about.”), il nostro fotografo non necessita di pubblicità di questo tipo, che rischia di relegarlo nell’ambito del cafonal o dello scandalo-a-tutti-i-costi. Infatti, ecco che la scure dei censori si abbatte su di lui. Ora tutti si ri-accorgono che i Bronzi di Riace esistono, che hanno un disperato bisogno di cure, di attenzione, di essere visti, comunicati, valorizzati. Riattualizzati, anche. Forse lo scandalo, dunque, fa più bene all’oggetto delle foto che non a chi le ha prodotte…

Ora l’interrogativo: come mai quasi nessuno si chiede, piuttosto, il “perché” di questa azione contemporanea, accontentandosi di sparare (pre)giudizi a catena?

Come spesso avviene, riprovazione e turbamenti privati e pubblici colpiscono l’Arte e non, piuttosto, l’abominio reale: così fu per l’installazione di Maurizio Cattelan in piazza XXIV Maggio a Milano (simulacri di bimbi appesi a un albero), che offese più dei bambini (veri) sfruttati e costretti a mendicare nell’indifferenza della collettività in quella stessa città dove molti perdettero tempo a scagliarsi contro l’arte piuttosto che ad agire per la salvaguardia dell’infanzia negata. Anche oggi sta accadendo qualcosa di vagamente simile: con l’opera Piggyback dei fratelli terribili, protagonisti di spicco della YBA, Young British Artists (ormai ex Young!), gli inglesi Jake and Dinos Chapman , esposta al MAXXI già da un po’ ma solo ora osteggiata e censurata; è stata tacciata di pedopornografia dall’Osservatorio sui diritti dei minori da quell’Antonio Marziale che dà prova di non capire un accidente di arte né di quello che essa sottende. Del resto, anche Caravaggio scandalizzò con il suo giovane San Giovanni Battista – 1595/1598, ai Musei Capitolini a Roma – e via via lo fecero opere di altri autori, sino ad arrivare alle foto di Wilhelm von Plüschow o di Wilhelm von Gloeden (per restare alle combinazioni più elevate).

Tornando a Gerard: perché la scelta di un tale travestimento d’imperio dei due uomini?, ci chiediamo… Risposta:

“omosessualità e pederastia nella Grecia classica non erano pratiche anormali, né oggetto di reprimenda sociale. Quindi sbaglia chi pensa che ho voluto contaminare del morbo del XXI secolo due icone classiche. Ho solo cercato di restituire un ordine di idee antico attraverso la banalità kitsch del presente…”

Questo ci disse il 31 luglio Gerard, confermando quanto precisato a Dago Spia:

“se gli storici antichi scrivono che il futuro Re dell’Epiro Alessandro amava Filippo II il Macedone e che il filosofo Parmenide di Elea amava il giovane Zeno o che Alessandro Magno per tutta la sua (breve) vita ha amato l’amico d’infanzia Efestione, questo non diffama il loro valore umano, militare o filosofico.”.

Giocando, l’artista dice la verità. E fa paura (incredibilmente, ne fa meno il commissariamento della città, la malavita che preme, il rischio di collusione con la ‘Ndrangheta e la consegna alle mafie etc.)…

Le foto non sono belle. A mio modesto parere Gerard ha prodotto serie molto migliori e opere meno didascaliche; ma questo incidente dell’incomprensione e del severo, rozzo rimprovero sta caricando queste di un non-so-che alto e altro… Anarchicamente, questa è arte politica. Infatti, Gerard ha provato a dare voce ai due guerrieri tramite un inno guascone (e guastatore) all’allegria e alla differenza, tentando di “capire cosa significhino oggi e per chi”, sia “cercando di non insultarli nel mummificarli più di quanto non siano già stati”, sia di “farli parlare facendone parlare”, riconsegnandoli “a un immaginario collettivo: al di là del loro decretato ergastolo museale.”. C’è riuscito? Forse.

Quel che è certo è l’esagerazione di una reazione da parte di gente comune, giornalisti, addetti-ai-lavori, benpensanti etc. per questo atto artistico assolutamente temporaneo, non derisorio né distruttivo: tanto spropositata (arrivando a sollecitare un’inchiesta della Procura e richiesta di danni), dicevamo, da celare, per certi versi, un sentire indistintamente omofobo…L’arte non è un sacello sacro intoccabile ma è qualcosa di semprevivo che si può discutere, ridiscutere, citare, de-liturgicizzare tutte le volte che ciò sembri necessario all’artista, e su cui è possibile ironizzare, che si può tirare in ballo per aprire – e darci – un punto di vista sulle cose differente, come Duchamp e la sua baffuta L.H.O.O.Q. ci dissero già. Oggi quella versione di Gioconda è diventata anch’essa venerabile capolavoro (con buona pace dei Dadaisti, che certo non pensarono, all’inizio dei loro exploit , di produrre merce da musei, aste e ricchi collezionisti).

I Bronzi di Riace non sono esclusivo appannaggio di Reggio Calabria, non proprietà privata, non della Calabria, né della Soprintendente, né di Franceschini né di Bruneau: sono di tutti, patrimonio culturale dell’umanità. In quanto tali, una volta accertato il rispetto della loro integrità fisica (la protezione da vandalismi e dal temibile cancro del bronzo), non sarà un bagno nell’estetica Queer a danneggiarli. La lesa maestà di cui si accusa Gerard Bruneau nasconde, invece, uno sdegno conservatore (meglio usare un più efficace sinonimo: reazionario) per la lesa virilità maschia, etero dei Bronzi e, dunque, uno svelamento di arretratezza sociale, etica, culturale: di un Paese dove “si fa ma ancora non si dice”, di “scherza con Fanti, lascia stare i Santi”, dimenticati di Pax e Dico e dei diritti dei LGBTQ.

P.s. 1: questo blitz e la successiva campagna mediatica accesa su giornali e webmagazine di mezzo mondo rappresentano una pubblicità gratuita e virale che andrà certamente a favore dello sbigliettamento ulteriore del Museo e, poiché da cosa nasce cosa, anche di una maggiore conoscenza dei due capolavori di provenienza greca o magnogreca o siceliota.

P. s. 2: a chi è convinto che boa e perizoma siano segno avvilente di banalizzazione di genere rispondo che sono, piuttosto, un simbolo ironico, ludicamente adoperato da LGBTQ anche durante i Gay Pride. Piaccia o meno, anche questa desacralizzazione funziona!

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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