Non dirmi che hai paura. La storia di Samia, atleta del vento

Samia Yusuf Omar è morta in mare il 2 aprile 2012 cercando di raggiungere le coste italiane, e poi l’Inghilterra o magari la Finlandia o la Svezia, sicuramente le Olimpiadi di Londra e il riscatto per un paese, la Somalia, che non l’ha mai nemmeno voluta.

Giuseppe Catozzella (giornalista, 1976) in Non dirmi che hai paura –romanzo arrivato quarto al Premio Strega– racconta la sua storia. Samia è nata insieme alla guerra civile, nel 1991, senza sapere che l’odore normale dell’aria non ha il sentore acre della polvere da sparo: «Laria qui è profumata, ho detto a Teresa, che stava seduta dietro insieme a me.

Non è profumata, è normale, Samia. È solo che non si sente il puzzo della polvere da sparo. Non ci avevo mai pensato. Il puzzo della polvere da sparo era nato prima di me, generato dalla mia sorella maggiore, la guerra, e io non lavevo mai separato dal normale odore dellaria. Ora respiravo laria come doveva essere, e quel vento già mi trasformava».

Teresa è Teresa Krug, giornalista di “Al Jazeera English”; “qui” è Mogadiscio, capitale somala, dove la diciassettenne Samia è tornata ad allenarsi dopo la “disfatta” delle Olimpiadi di Pechino 2008, che l’hanno vista arrivare ultima nei 200 metri seppur tra gli applausi. Sulla pista rossa di uno stadio mitragliato, senza un coach, mangiando prevalentemente pane e acqua (il massimo che il Comitato olimpico può offrire in una Somalia povera e instabile), cerca di mettere su muscoli e resistenza per vincere «da donna somala e musulmana» a Londra 2012.

Samia corre fin da bambina. Il suo primo allenatore è stato il miglior amico Alì, veloce anche lui ma non quanto Samia che piccola, gracile, con gambe lunghe e secche fendeva l’aria come un’aquila, lasciando che fosse il vento prima che i suoi piedi a traghettarla verso il traguardo. Un traguardo che con il tempo – nonostante la guerra, gli estremisti islamici di Al-Shabaab, la morte e gli addii –è diventato sempre più importante: dalle gare cittadine su piste di polvere e rifiuti al gremito stadio cinese dal tartan perfetto, gomito a gomito con le dee della corsa.

Dopo Pechino, Teresa le suggerisce più volte di trasferirsi ad Addis Abeba, dove avrebbe potuto ricevere il supporto adeguato per migliorare, ma Samia non vuole cedere. Poi una notte di luna la Somalia le parla attraverso occhi un tempo famigliari, raccontandole una storia orribile, di un figlio che uccide un padre: «Stavo sprecando tempo. Avevo già buttato via abbastanza anni e talento in un luogo che non mi voleva. E non perdeva occasione di ricordarmelo […]. La mattina dopo […] ho chiamato Teresa in America […]. Ho deciso, vengo con te ad Addis Abeba le ho detto».

Passate le prime lunghe settimane in Etiopia senza poter correre con gli altri atleti, Samia comprende la verità della sua condizione: «ero una straniera senza documenti, senza passaporto. Niente di ufficiale che attestasse la mia identità e la mia provenienza. Essere somali significava anche questo. Non poter essere riconosciuti in casa altrui». Era sola, lontana da casa. Era una tahrib, una clandestina. E soprattutto aveva bisogno di allenarsi professionalmente, alla luce del sole, per vincere a Londra. I documenti non sarebbero mai arrivati dalla Somalia, doveva correre. Lontano.

È il 15 luglio 2011 quando Samia decide di intraprendere il Viaggio. Come la sorella Hodan qualche anno prima, che ora era felice in Finlandia con suo marito e sua figlia Mannaar, avrebbe attraversato l’Africa, poi il Mediterraneo e alla fine un pezzo d’Europa, dritta verso l’Inghilterra, la salvezza, le Olimpiadi.

La Storia, invece, racconta un’altra storia. I sogni coraggiosi e liberi di Samia, atleta del vento, si sono fermati nelle acque gelide del Mare Nostrum incagliandosi in altri sogni dispersi. Infiniti.

«Questa sera parto, finalmente.

È ora di partire, è ora di arrivare. Sono stanca di questa attesa. E stasera con me parte anche mia zia Mariam […].

Anche lei è stata arrestata tre volte durante il Viaggio, anche lei è stanca e ha bisogno di un posto senza guerra, un posto da cui non dovere scappare.

Stasera partiamo e presto troveremo la pace.

Troveremo la pace».

 

 

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Giornalista pubblicista dal 2012, scrive da quando, bambina, le è stato regalato il suo primo diario. Ha scritto a lungo su InStoria.it e ha aiutato manoscritti a diventare libri lavorando in una casa editrice romana, esperienza che ha definito i contorni dei suoi interessi influendo, inevitabilmente, sul suo percorso nel giornalismo. Nel 2013 ha collaborato con il mensile Leggere:tutti ma è scrivendo per art a part of cult(ure) che ha potuto trovare il suo posto fra libri, festival e arti. Essere nata nel 1989 le ha sempre dato la strana sensazione di essere “in tempo”, chissà poi per cosa...

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