Moda. Libertà o conformismo?

1300-1400, English Costumes of All Nations (1882)
1300-1400, English Costumes of All Nations (1882)
1300-1400, English Costumes of All Nations (1882)

Il concetto di moda nasce in un momento preciso della storia dell’Occidente, in quell’Illuminismo che, nell’abbandonare qualunque forma tradizionale di sapere per fondare criticamente il rapporto con il mondo, ne fa proprio lo strumento di superamento dei pregiudizi tradizionali riguardo l’immagine dell’uomo. Così la moda nasce come riconoscimento sociale di chi appartiene a un mondo autonomamente umano, condividendo criteri di gusto collettivi e sganciati da ogni rapporto con la natura e col suo brutale ricordare la nostra finitezza. Vestirsi alla moda è, inizialmente, espressione di libertà.

Manco a dirlo, basteranno pochi decenni per arrivare al concetto opposto: il Romanticismo vede la moda come una costrizione sociale dalla quale dover fuggire, come un conformismo moderno inaccettabile per l’uomo in contatto con l’assoluto. Al sopraggiungere poi della società di massa, sarà il dandysmo a porsi come unico baluardo dell’individuo per fuggire una sociabilità divenuta pericolosa e destabilizzante proprio per i valori più umani.

Vale la pena citare Baudelaire: «nei disordini di momenti come questi alcuni uomini socialmente, politicamente e finanziariamente a disagio, ma assolutamente ricchi di un’energia innata, possono concepire l’idea di stabilire un nuovo tipo di aristocrazia, ancora più difficile da abbattere perché basata sulle più preziose e durevoli facoltà e su doni divini che il lavoro e il denaro sono incapaci di donare». Non a caso la categoria neodandismo è stata recentemente coniata per identificare il tratto comune a tante espressioni della moda tra i più giovani: la protesta sociale è passata da una rumorosa rivolta di piazza a una più silenziosa e sdegnosa (e sovente più economica) raffigurazione del disprezzo verso la società cucita sul proprio corpo.

E’ su questi corpi che la moda, più o meno consapevolmente, sta giocando in questi anni una partita dal prezzo altissimo. Con la forza opprimente di un’industria culturale – quale essa indubbiamente è – la moda impone contemporaneamente: l’adesione a uno status sociale tranquillizzante del quale fornisce gli strumenti (la giacca e la cravatta, i colori della prossima stagione, il tubino nero, il casual che tutto è tranne che «casuale»); i rigidi canoni della bellezza e della salute (90-60-90, la muscolatura tonica, la guerra al grasso corporeo, l’altezza mezza bellezza anche tramite dispositivi artificiali, la chirurgia estetica); l’automatica gogna mediatica per chi non si adegua a lei, tramite un apparato informativo/prescrittivo dal quale è impossibile sottrarsi (pubblicità, testimonial, cultura del consumo e consumo della cultura).
Negare che, con la comparsa di una società di massa e delle successive stratificazioni di culture e gruppi sociali diversi, la moda sia diventata una forma di potere politico, è da illusi sognatori o da persone in malafede. La differenza basilare tra l’artista e il designer – la costitutiva libertà d’azione del primo, l’obbligo di pensare a un target di pubblico per il secondo – si va sempre più assottigliando. L’industria della moda sta riuscendo tanto a schiacciare il lavoro del primo sull’attualità, quanto ad allargare i poteri del secondo facendone un modificatore dei gusti del pubblico, in modo da poterli controllare più che soddisfare. Il risultato che abbiamo sotto gli occhi è la triste «globalizzazione» (leggi: uniformazione) dei gusti socialmente condivisi, e la progressiva riduzione dell’oggetto d’arte a performance appagante per chi più o meno casualmente c’è in quel momento e in quel luogo; prima, appunto, che tramite un progetto di marketing tutti e tre i soggetti – artista, performance e luogo – diventino di moda.

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Lorenzo Gasparrini Dottore di ricerca in Estetica, dopo anni di attività universitaria a Roma, Ascoli, Narni in filosofia, scienze della formazione, informatica, ora è editor per un editore scientifico internazionale. Attivista antisessista, blogger compulsivo, ciclista assiduo, interessato a tutti gli usi e costumi del linguaggio.

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