Intervista a Riitta Ikonen

Eyes as big as plates - Agnes (2011) Riitta Ikonen & Karoline Hjorth, all rights reserved

New York, agosto 2014. Lo studio che Riitta Ikonen (Kouvola, Finlandia 1981, vive e lavora a New York) divide con l’artista Ian Wright è una stanza nel basement della Cristopher Henry Gallery, al confine tra la Bowery e Little Italy. Uno spazio comune in cui è facilmente riconoscibile la presenza dell’uno e dell’altra. La parete di fondo – dove c’è il tavolo con il computer – è tappezzata di pagine di libri, appunti, fotografie.
Tra le “scoperte” più recenti dell’artista finlandese c’è il libro Dialogues with Marcel Duchamp di Pierre Cabana e anche The Tomb of the Unknown Craftsman di Grayson Perry. Ma l’entusiasmo più grande è riservato a The Kingdom of Fungi di Jens H. Petersen, un viaggio nel regno di questi straordinari organismi: caratteristiche, specie, forme. “E’ un libro incredibile!” – afferma Riitta Ikonen – “E’ dinamite… una forma di porno-funghi! L’uomo non è in grado di fare qualcosa di così delicato, morbido, complesso e temporaneo.

La natura è un soggetto ricorrente del suo lavoro. Paesaggi intimamente connessi con il vissuto delle persone ritratte in cui è presente una dolcezza velata di malinconia, timidezza e solitudine, ma anche ironia. Insieme alla fotografa norvegese Karoline Hjorth, Ritta Ikonen porta avanti dal 2011 il progetto Eyes as Big as Plates in mostra presso l’Istituto Finlandese di Parigi (fino al 14 settembre).

Numerosi musei e gallerie l’hanno ospitato durante le sue varie fasi, tra cui Pioneer Works, Brooklyn, New York (2013), Museum of Contemporary Art Kiasma, Helsinki (2012), The Finnish Norwegian Cultural Institute, Oslo (2012).

Il libro è ancora inedito: dalle pagine della maquette – che l’artista sfoglia lentamente – escono fuori ritratti maschili e femminili scattati in Scandinavia, Francia, New York e Regno Unito. Sembrano personaggi delle favole, eroi di un’epoca mitologica in cui uomo, divinità e natura sembrano convivere pacificamente. C’è una totale immersione nel paesaggio naturale, esattamente come in Human Nylon (2005), tesi per il suo diploma in Illustrazione all’Università di Brighton, dove è riconoscibile un’analoga immedesimazione con la materia che, in questo caso, è un’esplorazione delle qualità del nylon.

Alcune fotografie di questa epopea moderna sono in giro per lo studio: Lo sguardo di Velkkari vestito di fiori di campo, Bengt con il copricapo di paglia e sterpi, Astrid incoronata di foglie di rabarbaro. Tuija, Pupi, Svana, Liv, Marie-Ange, Olafur, Woody… indossano fiori di campo, aghi di pino, muschio, canne, erba secca, rami. Sono avvolti dal tramonto di Reykjavik o immersi nella riserva naturale di Lavaux (Bretagna); visioni che prendono forma tra le barriere di sabbia di Fort Tilden (nell’area di Queens a New York), tra i boschi di Sandnes (sudovest della Norvegia), ovunque sia la natura ad affermare la sua potenza. Woody, che è un membro della New York Indoor Gardening Society, è sdraiato sotto le querce centenarie del Pelham Bay Park nel Bronx; Gretha guarda il cielo delle Isole Faroe ed è in grado di sapere perfettamente che tempo ci sarà il giorno dopo, mentre l’ultranovantenne Agnes – con il suo passato di paracadutista (una delle poche donne norvegesi che si sia lanciata in questo sport estremo) – è “perfetta per incarnare la favola del vento del nord”.

Il riferimento ai tre elementi della natura acqua-aria-terra è esplicito; quanto al quarto – il fuoco – non è difficile scorgerlo nello sguardo vivace delle persone ritratte, nella relazione intima che si stabilisce tra le autrici e il soggetto e tra il soggetto e il pubblico. Viene dal profondo: è il fuoco della passione, della conoscenza, della curiosità.

Non c’è nulla di improvvisato in queste immagini che sintetizzano nella fotografia diverse fasi del processo artistico che parte dalla scultura per arrivare alla performance prima dello shooting, eppure tutto sembra spontaneo. L’intervallo di tempo in cui l’idea si traduce nello scatto, è annullato dall’immediatezza in cui lo sguardo mette a fuoco i dettagli, lasciandosi condurre in una dimensione onirica – in parte anche surreale – ma incredibilmente accogliente e confortevole.

Eyes as Big as Plates è il lavoro che porti avanti dal 2011 con Karoline Hjorth e dà il titolo anche al libro…

“Stiamo ancora ragionando sia sul layout che sui contenuti del libro. Le foto sono state pubblicate già sul blog, ma anche se il libro è in fase progettuale è il modo più facile per mostrare questo lavoro. Il titolo viene da una favola popolare che parla di troll che hanno occhi grandi come piatti di stagno, vivono sotto il ponte e hanno tre capre. Ci siamo ispirate sia alla favola De tre bukkene Bruse degli scrittori norvegesi Peter Christen Asbjørnsen and Jørgen Moe che a Hans Christian Andersen. Quando abbiamo iniziato a lavorare al progetto, il titolo non esisteva. E’ venuto solo in un secondo momento. Siamo partite cercando delle personificazioni della natura. Chiunque può avere una forte connessione con i fenomeni naturali, ma abbiamo immaginato che nelle comunità gli anziani avessero un’esperienza più consolidata. Il lavoro è nato nel 2011, durante una residenza di un mese e mezzo a Sandnes, in Norvegia. Andavamo in giro incontrando la gente, parlavamo con loro e gli chiedevamo se volevano partecipare al progetto. All’inizio pensavamo alla relazione tra le favole tradizionali e alla personificazione dei diversi personaggi delle favole stesse, però spesso quando ne parlavamo con la gente ci rispondevano che era una cosa infantile, sciocca. Così ci siamo indirizzate velocemente verso la natura, cercando di immaginare quale fosse la relazione tra le persone e il paesaggio naturale per trovare la formula giusta. Halvar è uno dei nostri primi modelli, è un ex contadino. L’abbiamo fotografato a Sandnes, nella terra dove è nato, nei suoi campi intorno alla casa. Torleiv è uno dei suoi migliori amici, è un professore di linguistica. Nella foto sta ascoltando l’erba che cresce.”

Quali sono le maggiori difficoltà nell’approccio con la gente e nel loro coinvolgimento nella messinscena?

“Messinscena è la parola giusta, perché fin dall’inizio del progetto abbiamo pensato ad una rappresentazione, al momento in cui succedeva qualcosa tra noi e il modello. La fotografia è importante, ma viene dopo l’incontro. Incontri durante i quali ci siamo spostate in altri luoghi, alcune volte molto distanti, lavorando per ore. Non è facile, può essere duro, spesso fa freddo, ma se siamo molto concentrate e mettiamo a fuoco il nostro obiettivo, allora succede qualcosa tra noi e le persone che fotografiamo. Soprattutto quando i modelli indossano i costumi, provano qualcosa che non hanno mai provato prima. Ed è lo stesso per noi. Questa è la magia! Abbiamo incontrato delle persone eccezionali, bellissime.”

I costumi sembrano naturali, ma in realtà sono delle sculture che realizzi combinando vari materiali.

“Se abbiamo il lusso di avere tempo, i costumi vengono realizzati in anticipo. Quando siamo andate in Islanda abbiamo pubblicato su un giornale l’annuncio che stavamo cercando modelli per il nostro progetto. Abbiamo aspettato che arrivassero delle risposte, poi abbiamo parlato con tutti quelli che ci avevano contattato. Avevamo tante donne a disposizione, ma ci serviva anche qualche uomo, così siamo andate in una ferramenta. Lì abbiamo trovato un paio di modelli. Nel progetto, infatti, abbiamo due idraulici. Prima dello shooting parliamo, chiediamo alle persone da dove vengono, cosa fanno, quali sono i loro gusti e qual è la loro relazione con la natura. Spesso, in base alle risposte, decidiamo quale è il costume più adatto. Alcune volte li realizzo la notte prima, altre il giorno stesso. Anche per i materiali dipende dalla situazione. Per Astrid, la signora con il rabarbaro – ad esempio – avevamo in mente un personaggio dalla lunga chioma fluente, è stata lei ad indicarci la pianta di rabarbaro che cresceva nel suo giardino, sul retro della casa. Era enorme, dalla foto non si ha la percezione di quanto fosse grande, ad ogni modo abbiamo tagliato alcuni rami e siamo andati nell’arboreto. Ho lavorato velocemente per costruire quel copricapo, fermandomi perché stava diventando troppo pesante. Sì, comunque, si tratta proprio di sculture.”

Eyes as Big as Plates è interamente realizzato fotografando con la pellicola. Anche l’imprevisto fa parte del progetto?

“Alcune volte programmiamo lo shooting, all’inizio facevamo anche degli schizzi, ma quando ci si trova di fronte alle situazioni reali le cose sono diverse. Ma noi siamo anche molto adattabili. Lo scorso novembre eravamo in Islanda e, come sempre, fotografavamo con la macchina fotografica di medio formato. Ma non sapevamo che fosse rotta. Abbiamo lavorato, lavorato, lavorato… siamo andate anche alle Isole Faroe, prima di tornate in Norvegia, dove abbiamo portato le pellicole a sviluppare. Dopo qualche giorno l’uomo del laboratorio ci ha chiamato, perché c’era un problema. Avevamo solo il 10% del lavoro fatto. All’inizio fotografavamo anche in digitale come forma di salvataggio, ma il digitale non ha la magia della stampa analogica. Quindi abbiamo pensato che non serviva e non l’abbiamo più usato. Di solito fotografiamo in digitale durante il backstage, ma non per le foto che vendiamo. Karoline è la fotografa, lei conosce tutte le cose tecniche, ma scegliamo tutte le cose insieme. E’ come se avessimo un unico cervello. Io mi sento più scultrice. Sono sempre coinvolta con il materiale e la forma, da ogni punto di vista. La scultura si vede anche all’interno di un ambiente.”

Nel 2007-2008 con la fotografa tedesca Anja Schaffner hai realizzato la serie Leaf and Bird. Quanto è stato importante, per te, essere presente anche davanti alla macchina fotografica?

“Sono una ragazza di campagna al 100%. Sono nata a Kouvola, una città che dista un’ora e mezzo da Helsinki, verso est. Ma ho trascorso moltissimo tempo della mia vita – forse la parte più nutriente – nella Karelia del nord. Una zona remota della Finlandia, quasi al confine con la Russia laghi, lupi, natura selvaggia. Quando sono andata a Londra, per studiare al Royal College of Art non mi sono mai sentita veramente a casa. Leaf and Bird è stata la scusa per uscire dalla città e tornare nella natura. Così per un anno, forse un anno e mezzo, con Anja che era una mia compagna di classe al corso di Visual communication, Art and Design abbiamo viaggiato ovunque, con i nostri costumi di uccelli e foglie, scattando fotografie. Non penso che sia stato così importante che ci fossi proprio io davanti all’obiettivo. Ma non credo che nessun altro avrebbe potesse esserci, perché è stato un progetto lungo. Anche la scelta degli alberi, dei paesaggi era fondamentale, andavamo in un posto, poi magari ci spostavamo e tornavamo lì. E’ stata un’immersione totale nella natura. Non potevo pagare qualcuno che potesse fare da modello, per questo ero io a posare. In fondo quello che faccio oggi non è così diverso da allora, ma trovo che i miei modelli siano molto più carismatici di me!”

Dal 2009 ti sei trasferita a New York. Cosa rappresenta, per te, questa città?

“A Londra, malgrado tutto, mi sono divertita. Ho collaborato con molti dipartimenti di musei, tra cui la Tate Britain, la Barbizon School e anche la Serpentine gallery. Ho fatto diversi lavori, sempre nell’ambito artistico. Ma avevo bisogno di rimettere a fuoco il mio lavoro personale. Così, nel 2009, sono arrivata a New York per seguire un progetto con Ian Wright. Sono rimasta tre mesi. Ho amato subito New York, perché la gente è molto comunicativa e accogliente. Qui mi sento bene. Così ho continuato ad andare e tornare, finché non ho avuto un visto di un anno. Un mese fa mi sono sposata con un’americana e ora la richiesta per la green card è stata inoltrata! Naturalmente ci sono problemi anche in questo paese, ma mi piace la gente di New York, la grande energia che c’è qui.”

Info
www.riittaikonen.com
www.christopherhenrygallery.com

+ ARTICOLI

Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.