Festival della Letteratura #6. Alberto Arbasino scortato da Marco Belpoliti, presenta il suo “Ritratti italiani”

arbasino-e-gli-italiani-illustri-il-nuovo-libro-0_80958-krFD--400x320@MilanoCapelli bianchi e occhiali da sole scurissimi, mestiere consumato, si siede davanti a noi Alberto Arbasino come in un salotto televisivo con telecamere sottintese.
Guidato con levità da Belpoliti, chiacchiera amabilmente sui suoi innumeri ricordi dispiegati negli oltre novanta ritratti contenuti nel libro.

Il primo  è di  Gianni Agnelli che Arbasino descrive come un uomo elegante che produce auto ineleganti, ordinarie.
Erano ordinari i modelli, era ordinaria l’industria e lo erano inevitabilmente.
Invece i personaggi del libro sono tutti straordinari.
Ci racconta, Arbasino, che il personaggio che trovò più interessante tra questi ritratti italiani è forse l’ultimo, Federico Zeri. Uomo straordinario per le sue trovate, le telefonate che faceva fingendosi un’altra persona. Per esempio fingeva di essere una lavandaia alle prese con lenzuola sconvenienti di un monastero femminile.
Una volta arrivando a casa sua con De Agostino, che lui amava molto, ci dissero che era  a Roma. Era andato a casa di un vecchio professore appena morto per prendere dei volumi che forse non lesse mai, ma che voleva possedere.
Nel volume non si raggiunge il numero di cento personaggi, ma neppure uno è noioso. “I noiosi li ho tirati via, non li ho messi“.

Aldo Moro non era un personaggio divertente. Un suo segretario, collezionista di quadri,  tampinava Andrea Dotti che abitava nello stesso palazzo di Audey Hepburn per essere ricevuto a casa di lei, ma Dotti riusci a non invitarlo mai.
Racconta di aneddoti che comprendono Carlo Levi benedicente, Moravia dispettoso, Calvino che aveva un tipo deciso, duro, profondo e soprattutto ligure di mancanza di sense of humor, in una rimpianta vita di caffè e pizzerie romani.
Di un incontro con  Feltrinelli già in clandestinità, in cui, per la prima volta, secondo Feltrinelli, Arbasino lo prese sul serio dopo undici libri fatti insieme. E in quella occasione lui, già in clandestinità, in via Manzoni a Milano pagò con un assegno di una banca di proprietà della famiglia Feltrinelli e del Vaticano e “forse era la prima volta che invece non lo prendevo tanto sul serio“, dice, “e mi è venuto freddo pensando a come poteva sbagliarsi sul conto di un uomo, io, che conosceva da tanti anni“.

unnamedUno dei più lunghi ritratti è dedicato a Pasolini, ricco e complesso. Dichiara di avergli voluto molto bene, ma ne parla con chiarezza dura e forse spietata.
Forse si tratta di disinteresse nei confronti del sesso, legato all’età avanzata, quello che consente ad Arbasino di dire disincantato che Pasolini certo lo prendeva e poi si faceva picchiare, così, dice, quando morì pensammo che si era fatto picchiare più del solito, troppo. E la nobiltà pasolininana, dice, ma poi la sera lo andava a prendere, e quindi nobilmente, insomma, no.
Belpoliti sterza subito, portando il discorso sulla Loren, e poi sulla California, e sui musicisti, argomenti apparentemente meno rischiosi.
Luciano Berio, con cui “chiacchierammo per decenni“; Einaudi, regale,  maestoso, ma non pagava, una ragione ottima per trovarlo antipatico; Luchino Visconti, un valvassino, che meno non si può nella scala del potere, e tuttavia con una sua piccola corte e qualche tendenza all’imbroglio, regista, come Fellini con Flaiano, di quelli che assorbivano dai seguaci senza dare nulla in cambio, e “allora buonanotte, io non ci ho voluto collaborare mai“. E Piero Tosi e Franchino Zeffirelli, e Missiroli, con cui si faceva colazione tutte le mattine e lì a tavola nascevano le migliori battute del cinema italiano di quegli anni.
Dice: “con tutti loro ci eravamo promessi di fare delle cose, in vecchiaia, e invece sono tutti morti ed io sono qui senza loro“.

Ha una frase ironica e tagliente per tutti, in una raffica di nomi notissimi e pettegolezzi che tiene inchiodata l’attenzione del pubblico e guardi l’orologio e sta parlando ormai da un’ora che sembrano pochi minuti.
Se tanto mi da tanto, sarà un libro da bere.

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Cecilia Deni, classe 57, sarda di nascita, vive e lavora come medico di famiglia a Bologna. Lettrice ossessiva, ama restituire il frutto delle letture a chiunque, imprudentemente, si presti ad ascoltare.

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