Festival della Letteratura #9. Translation slam con Elena Chiti e Ramona Ciucani

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Mourid Barghouti

Partecipo a un altro Translation Slam: adoro il lavoro che i traduttori fanno sulla lingua.
Oggi era di scena la poesia araba. L’arabo è una lingua che non conosco, ma la sua sonorità dolce e aspra nello stesso tempo, con le gutturali tipiche delle lingue semitiche, mi riecheggia una lingua che amo molto e che tento di studiare, l’ebraico (la lingua unisce, nonostante tutto).

Nella piccola chiesa di Santa Maria della Vittoria, di fronte a poche persone (mi sono abituata in fretta alle folle oceaniche degli eventi del Festival di Mantova), ma tutte decisamente interessate e curiose, si sono confrontate due traduttrici dall’arabo, Elena Chiti e Ramona Ciucani, entrambe dotate di strepitoso curriculum, alla presenza del poeta palestinese Mourid Barghouti, uno dei poeti più importanti e riconosciuti del mondo arabo, esule dal 1977.

Il Traslation Slam ha regole ferree a cui le due traduttrici si sono scrupolosamente attenute: si chiede all’autore invitato un brano inedito e i traduttori hanno solo una settimana di tempo per tradurre, senza potersi confrontare tra di loro. Il risultato delle loro fatiche sarà svelato solo il giorno del confronto, e in più davanti all’autore che sarà libero di criticare o apprezzare.
Barghouti era chiaramente nervoso: non credo sia semplice per un autore, poeta per di più, accettare di vedere analizzata una sua opera, per così dire scandagliata in un confronto serrato, tagliando il capello in quattro.
La poesia analizzata, sulla guerra, è bellissima: una invocazione accorata alla Guerra perché si fermi, perché non sia così avida e ingorda di sangue e di morti.
La lunga lettura del poeta riempie la chiesa di attesa e di silenzi: in qualche modo si intuisce l’argomento sofferto.
Le due traduzioni, molto diverse tra loro, colmano l’attesa.
Si inizia ad analizzare la poesia con l’aiuto del pubblico. Sottigliezze linguistiche e grammaticali che fanno la differenza: come rendere un vocativo aulico in italiano, dove si è deciso da tempo di eliminare l’evocativo “o” (O guerra)? Una traduttrice risolve la questione con “Guerra”, personificando la guerra con la maiuscola, l’altra traduttrice con “signora guerra”, quindi sempre personificando la guerra, ma minuscolizzandola, quindi la guerra è signora ma rimane una “cosa”.
Questione molto dibattuta è come rendere una parola che nella poesia araba vuole sottintendere il militare di professione senza evocare precisamente la parola. Una traduttrice trova una soluzione nella parola “dignitari” che ricorda le persone vicine al potere, anche militare, l’altra traduttrice risolve la questione con l’espressione “chi ha potere”. Entrambe le soluzioni non soddisfano il poeta che si inquieta, si agita, rivolge parole all’inizio dure per poi ammorbidirsi in seguito a una fitta spiegazione in arabo: evidentemente la competenza di Elena Chiti e di Ramona Ciucani lo convince.
Il poeta afferma che i traduttori non devono interpretare l’intenzione, ma limitarsi a tradurne le parole: in realtà il traduttore non può limitarsi a fare questo, oltre alle parole è necessario trasportare un mondo, una cultura, un modo di pensare e di vivere.
La questione non ha risoluzione: come rendere in italiano una parola che dovrebbe fare solo intuire il mestiere di militare?

Lascio l’interrogativo aperto, sperando nei commenti di chi leggerà l’articolo e ricordando che la parola araba ha la stessa radici del verbo “organizzare”.

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Angela Catrani vive a Bologna e si occupa di libri da quando aveva sei anni. Alla classica domanda su quale lavoro avrebbe fatto da grande rispose che avrebbe lavorato con i libri. Tutti pensarono al mestiere (meraviglioso) di libraia, solo sua madre pensò al mestiere di editor e in un qualche modo, con qualche parentesi per mettere al mondo due figli, a fare l'editor Angela ci è arrivata. Lavora per la Cooperativa sociale Il Mosaico, che tra le altre sue attività produce libri per bambini per conto di Bacchilega editore di Imola.

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