Festival dell’Erranza. Il viaggio e la trasformazione. Intervista con Selene Calloni Williams

selene-calloni-williams-219x300Nomadismo, frontiere, scoperte. L’erranza è una caratteristica della nostra contemporaneità e si declina in innumerevoli emozioni.

La seconda edizione del Festival dell’Erranza dal titolo La dimora e l’altrove rifletterà sull’idea di confine, di sosta e di residenza seguendo il filo rosso di incontri e conversazioni con viaggiatori, scrittori, antropologi, artisti…

Fra i molti argomenti, quello di apertura (giovedì 11 settembre alle 18,00) dal titolo Il viaggio e la trasformazione approfondisce una parte molto profonda capace di mettere in contatto l’erranza con l’evoluzione interiore, come ci racconta Selene Calloni Williams in questa intervista.

Cosa ti accomuna all’erranza intesa sia come reale cammino, sia come condizione dell’anima?

Errare è diverso da viaggiare. Per me errante è colui che si muove senza una meta precisa, verso l’ignoto. Il viaggiatore ha, invece, una meta e ha un programma di viaggio. In questo senso, io sono errante. Quando ho potuto, appena terminato il liceo e acquisita la maggiore età, ho cercato un lavoro che potesse portarmi lontano, non importava dove, l’importante era che fosse lontano. Non ero spinta da una necessità di fuggire il quotidiano, ma dalla pura volontà di partire, che si accompagna sempre alla nostalgia per ciò che si lascia. Il distacco è un sentimento inscindibile dall’erranza.  Ho accettato un posto presso una compagnia italo-srilankese che mi ha  portata nell’isola di Sri Lanka, in un grande palmeto, in riva all’oceano, dove si voleva costruire un villaggio turistico. È lì che ho incominciato a praticare lo yoga e a interessarmi di culture tribali, animistiche, tradizioni sciamaniche e buddhismo. Tutti i miei interessi sono stati la conseguenza di un viaggio. Io non parto perché ho l’interesse di andare a visitare o studiare una realtà lontana, io parto per partire. È l’erranza che mi porta ad imbattermi in ciò che poi mi appassiona, allora mi fermo, per un po’, mai troppo, ma quanto basta per comprendere qualcosa di nuovo e trasformarmi.
L’erranza trasforma, il viaggio no. Il viaggiatore, che si sposta con un programma, trova quello che si aspetta. Ciò che è atteso non è capace di trasformare. L’inatteso, invece, trasforma, poiché ti porta oltre i lidi del conosciuto, ti forza ad abbandonare le certezze. L’inatteso ti cattura, ti inghiotte, ti divora, e poi ti sputa in un’altra vita: ogni volta è una morte e rinascita. Ogni morte e rinascita ti porta sempre un po’ più vicino alla libertà. L’errante è innamorato della libertà.

Quanta parte della tua vita prende l’atto di viaggiare?

Io vivo in viaggio. In Svizzera ho fondato una associazione culturale che crea viaggi all’insegna dell’erranza, di ciò che io intendo per erranza, si chiama Voyagesillumination e crea viaggi a tema. Il tema è una aspirazione a conoscere, a incontrare. Per esempio, il tema sciamanismo ci ha portati molte volte in Siberia e Mongolia.
In questi viaggi non puoi avere un programma preciso, perché con gli sciamani non puoi prendere appuntamento, prima di partire non sai nemmeno se saranno disposti a riceverti. Gli sciamani che trovi su internet, con i quali puoi fissare l’incontro prima della partenza, non sono quasi mai i più autentici. Una volta in viaggio capita spesso di scoprire personaggi e luoghi inattesi. Per esempio, in un viaggio in Ladak a tema buddhismo, abbiamo scoperto gli oracoli tantrici e gli sciamani succhiatori, che curano i loro pazienti succhiando letteralmente la malattia fuori dai loro corpi.
In Myanmar, a Pagan, la città dei pagani, abbiamo scoperto i Nat, gli spiriti della natura che vivono nella foresta e che sono al centro di molti culti animistici asiatici. Mi sono appassionata ai Nat, ho fatto molti viaggi in Birmania e ho dedicato ai Signori della Natura, che i birmani chiamano Nat, un libro.
Poiché, nelle tradizioni animistiche del Myanmar, vi è un collegamento profondo tra i Signori della Natura e i culti degli avi, ho creato le Carte dei Nat, uno strumento che, associato alla psicologia transgenerazionale, consente di indagare gli archetipi degli antenati.
Tutte le mie piccole e grandi scoperte sono avvenute grazie ad un viaggio. Non andiamo mai in località turistiche, se non di passaggio o per incontri eccezionali. Oggi, per esempio, che la città di Pagan si è fatta molto più turistica di un tempo, vi andiamo per incontrare gli sciamani miei cari amici che celebrano i culti dei Nat, ma poi, nei nostro viaggi in Myanmar, preferiamo concentrarci su mete più “selvagge”. Per esempio, il remoto stato Chin.
Bisogna ottenere dei permessi speciali per raggiungere questo stato, dove le minoranze etniche hanno idee secessioniste e il governo centrale non ama che arrivino i turisti. La foresta dello stato Chin è abitata da tribù di diverse etnie e qui, facendo trekking nel pieno della foresta, abbiamo avuto incontri straordinari: una donna centenaria che sbucciava fave ci ha raccontato di avere sei figli, dei quali il più giovane aveva ben settantotto anni. E poco più un là, una donna dal viso completamente tatuato, non distante dal centesimo compleanno, suonava il flauto con il naso. Poi la nostra guida è venuta a sapere che in una capanna del villaggio una donna malata stava per essere curata da una sciamana. Abbiamo chiesto e ottenuto la possibilità di assistere a un rituale straordinario in cui la sciamana ha effettuato un rito di guarigione a mezzo della trance e poi si è dedicata a ciascuno di noi, raccontandoci favole che lei diceva di leggere nel profondo del nostro cuore. Siamo rimasti impressionati da quanto quelle favole ci assomigliassero e di quanta poesia vi fosse dentro di noi, è stato meraviglioso!
Io porto sempre con me una videocamera e, quando posso, filmo. Ho realizzato diversi documentari e anche qualche trasmissione televisiva. In questo ultimo caso la cosa più difficile è stato convincere i dirigenti della società proprietaria del canale televisivo a stanziare un budget per un progetto che non aveva una struttura precisa e per un viaggio che non aveva un programma definito.
Le persone che partecipano ai miei viaggi devono avere spirito di avventura, devono cercare nel viaggio un mezzo di scoperta del mondo, ma anche e soprattutto di se stessi.

Viaggi più spesso attraverso il mondo o attraverso l’immaginazione?

Nulla può accadere in questo mondo che non sia stato prima immaginato. Per esempio, se nell’istinto non si fosse mai prodotta l’immagine della caccia, probabilmente il primo uomo che ha ucciso il primo mammut o il primo tirannosauro che ha sbranato il primo velociraptor non sarebbero mai esistiti. In qualche modo io so di avere immaginato la vecchia donna dal volto tatuato che suonava il flauto con il naso o la sciamana che curava raccontando favole assai prima di averle incontrate. Così come ho immaginato i miei maestri, in Oriente come in occidente, da Michael Williams, il mio maestro di yoga Sciamanico, a Ghata Thera e Gotatuwe Sumanaloka Thero, i miei maestri di meditazione, a James Hillman, il mio maestro di psicologia del profondo. Il percorso nel mondo e il percorso nell’immaginazione sono due aspetti del medesimo viaggio.

Perché hai scelto questo argomento per narrare la tua esperienza al Festival dell’Erranza?

Per me l’erranza è trasformazione perché, come spiegavo, comporta la capacità di viaggiare senza una meta precisa. L’errante è disponibile al cambiamento. Cambiare strada, cambiare lavoro, cambiare casa, fare esperienze nuove, è questo che ti trasforma. Se vuoi qualcosa che non hai devi fare qualcosa che non hai mai fatto prima. Ciò che non hai mai fatto è qualcosa che non conosci ancora, come puoi programmare di incontrarlo, se non lo conosci? Ti ci devi imbattere errando. Quando io parto mi dico sempre che incontrerò ciò di cui ho bisogno, ciò che, ad un livello profondo, inconsapevole, ho immaginato, e non so ancora di avere immaginato. Perciò, in ultima analisi, errando so che incontrerò le mie immaginazioni e conoscerò me stessa.
All’inizio è stato molto difficile con Voyagesillumination trovare gente disposta ad acquistare viaggi il cui programma poteva mutare improvvisamente e la cui meta non era mai certa. Oggi siamo abbastanza conosciuti, la gente che ha spirito di avventura e sete di conoscenza ci cerca, dobbiamo selezionare i nostri viaggiatori. Le richieste di coloro che vogliono partire con noi superano il numero di persone che possiamo portare, o, come a me piace dire, “traghettare”.

Trasformazione è una necessità dello spirito che spesso fa paura.

Sì, è così. Ma la gente è sempre più coraggiosa. Più i valori istituzionali vacillano (economia, politica, religione), più la gente acquista coraggio, quello vero, e risveglia una sana volontà di scoprire il nuovo. Le crisi hanno spesso risvolti positivi.

Raccontaci del viaggio più trasformante che hai mai fatto: destinazione, bagaglio, incontri, aspettative…

Difficile sceglierne uno: tutti hanno portato trasformazioni e ogni trasformazione è stata importante. Posso raccontarti di quello che mi ha lasciato le immagini più forti perché l’ho vissuto come se fossi stata attesa.
È stato nello Yemen, dove ho viaggiato diversi anni fa alla ricerca di un maestro sufi. La mia guida – un anziano signore libanese, che parlava l’arabo e l’italiano perfettamente, per aver fatto il camionista in Italia per molti anni – aveva il compito di chiedere nei villaggi dove arrivavamo della presenza del sufismo e di un maestro sufi. I sufi, che non sempre sono ben visti dai regimi e dagli estremisti, spesso tengono segreta la loro appartenenza al sufismo. Perciò il compito della mia guida non era facile, ed egli lo affrontava non senza una buona dose di paura per ciò che avrebbe potuto accaderci. Stranamente io e le due ragazze che stavano con me eravamo, al contrario, molto tranquille. Finalmente, proprio nei pressi del villaggio da cui si dice sia originaria la famiglia Bin Laden – era qualche anno prima che uno dei Bin Laden rendesse il nome di quella ricca, potente e numerosa famiglia così tristemente famose per la sua attività terroristica – in una grande casa bianca, Sheik Salik ha accettato di incontrarci.
Sheik Salik è il capo della congrega sufi yemenita dedicata al poeta Ahmed bin Alwan.
Fu come quell’uomo ci attendesse da sempre. Infatti, non solo sembrava capire profondamente chi eravamo e da cosa eravamo mosse, ma fin dall’inizio, aveva preso a chiamarci “sorelle”.
Io gli spiegai del mio grande interesse per il misticismo in tutte le sue forme e per le tecniche dell’estasi che si incontrano nelle tradizioni esoteriche dei popoli.
Lui ci spiegò delle hadra, le cerimonie religiose dei sufi che si svolgono di notte al suono dei tamburi e generano stati d’estasi nei quali avvengono guarigioni.
Io chiesi se avremmo potuto assistere ad una hadra. Lui, con grande sorpresa della nostra guida che traduceva, ci disse di sì. Inoltre ci comunicò che, non essendo noi mussulmane e non potendo, per via di ciò, entrare nella moschea, lui avrebbe portato il rituale fuori dalla moschea per noi.
È stato un evento straordinario. La moschea era nel deserto, la luna piena si rifletteva sulle sue pareti bianche rendendola un oggetto magico, fluorescente, al di fuori dello spazio- tempo.
I sufi sono arrivati all’appuntamento in gran numero, più di cento. Erano tutti uomini, non c’erano donne, a parte noi, che eravamo coperte dalla testa ai piedi.
Esistono anche delle hadra al femminile, ci aveva spiegato Sheik Salik, che si svolgono separatamente da quelle maschili, la prossima avrebbe avuto luogo un mese più tardi, ma noi dovevano lasciare lo Yemen molto prima e non avremmo potuto assistervi.
Gli uomini portavano la cintura con il jambiya, il tradizionale pugnale yemenita e il fucile appeso a tracolla.
Molti avevano la guancia gonfia perché masticavano qaat, si tratta di foglie che gli yemeniti masticano molto lentamente e tengono in bocca a lungo giacché, a contatto con la saliva, rilasciano una sostanza eccitante. Alcuni portavano in mano un grosso tamburo. Sono entrati tutti nella moschea, guidati da Sheik Salik che era vestito di bianco. Noi siamo rimaste ad attendere sotto la luna, sedute sulla sabbia. Quando sono usciti, si sono disposti in un grande cerchio a ridosso del muro della moschea. Seduti sulla sabbia, masticando qaat e suonando i tamburi hanno praticato il drift, il rito sufi che consiste nella ripetizione di un nome sacro.
Molti avevano la guancia gonfia perché masticavano qaat, si tratta di foglie che gli yemeniti masticano molto lentamente e tengono in bocca a lungo giacché, a contatto con la saliva, rilasciano una sostanza eccitante. Alcuni portavano in mano un grosso tamburo. Sono entrati tutti nella moschea, guidati da Sheik Salik che era vestito di bianco. Noi siamo rimaste ad attendere sotto la luna, sedute sulla sabbia. Quando sono usciti, si sono disposti in un grande cerchio a ridosso del muro della moschea. Seduti sulla sabbia, masticando qaat e suonando i tamburi hanno praticato il drift, il rito sufi che consiste nella ripetizione di un nome sacro.
Per tutta la notte hanno cantato il nome di Allah in un grande, potente respiro che a tratti pareva semplicemente il suono spontaneo del respiro profondo “Ah, ah, ah …” L’atmosfera era carica di energia. Sheik Salik era nella trance estatica; i suoi occhi erano completamente bianchi, le pupille fuggite verso l’alto, le palpebre vibranti. In mezzo al cerchio c’era una bacinella d’acqua che, alle prime luci dell’alba, prima di sciogliere la tariqua – la riunione sufi – è stata data a un uomo ammalato che l’ha bevuta. L’acqua, come ci ha spiegato Sheik Salik, si era caricata, durante il rito, di una vibrazione capace di guarire.
Quella notte ci ha dato molto. Ci ha insegnato il potere del respiro, dell’estasi, ci ha svelato la magia della religione di natura, che è nel cuore profondo di ogni religione del mondo, bisogna saperla trovare con cuore puro e tanta voglia di conoscenza. Ci ha anche insegnato che in questo mondo esiste una religione della libertà, una spiritualità pura che è fonte di pace e di comunione tra i popoli, se la pace non prevale nel mondo, non è mai per colpa dei popoli ma del sistema che crea teorie manipolanti per ragioni di potere.
Nella civiltà presente – che si va sempre più globalizzando – il potere e il sapere non sono mai uniti. Chi sa non ha il potere e chi ha il potere non sa. È vero che esiste una certa conoscenza di chi ha il potere, ma è una conoscenza tecnica, finalizzata al potere. Ed è altresì vero che esiste un certo potere della conoscenza, ma è un potere di libertà. Chi sa non è interessato al potere, ma alla ricerca della verità e alla libertà. Bisognerebbe fare sì che il potere incontri il sapere e ciò ognuno dovrebbe farlo innanzitutto nella propria psiche attribuendo alla conoscenza un potere superiore al denaro e mettendosi, per conseguenza, sulla strada del vero sapere.

Intraprendere un viaggio può essere utile ad indicare la strada da seguire per affrontare la trasformazione?

Certamente, poiché la terra è psiche. Il mondo è una nostra proiezione: noi proiettiamo ciò che abbiamo dentro ed abitiamo le nostre immagini. Dunque il viaggio geografico e quello interiore sono due facce della stessa medaglia.

Dov’è il confine tra il viaggio e lo spirito?

Sono due termini distinti ma non separati. Lo spirito è l’atto stesso della scoperta e viaggiare è scoprire.

Qual è stato il viaggio che ti ha più trasformata?

“Finché non saprai come morire e poi rinascere, rimarrai un viaggiatore infelice su di una terra oscura”, scriveva Goethe. Per me, come posso immaginare sia per tutti, il viaggio più trasformante è quello nella morte. La morte non é un fenomeno che ti accade al termine della vita e la conclude, non é l’opposto o la negazione della vita. Morte e vita sono dimensioni simultanee che incessantemente si danno l’una all’altra in una offerta di sé, in un amore continuo. Il viaggio nella morte in vita è l’avventura della coscienza più trasformante. Lo puoi fare con l’aiuto di un maestro, di uno sciamano, di un monaco, un prete, un maestro o anche solo con l’ausilio della tua guida interiore. Ogni volta che parti e ti apri all’ignoto una parte di te muore e rinasce, perciò l’erranza é un rito di morte e rinascita.

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Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

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