Festival della Letteratura #11. Bernardo Valli con Franco Contorbia che lo intervista, parlano di scrittura giornalistica

Bernardo Valli

 

Bernardo Valli
Bernardo Valli

Franco Contorbia introduce il libro di Bernardo Valli: La verità del momento. 1956/2014: reportage edito da Mondadori.  In un volume di un migliaio  di pagine si ripropongono un bel numero di momenti della storia nazionale e internazionale che hanno visto Bernardo Valli protagonista dell’informazione. Gli scritti raccolti nel volume sono prodotti semplicemente di “cose viste” , testimonianze di una cronaca toccata con mano direttamente. Questa scelta ha sacrificato quella parte del lavoro di Valli più critica e di commento alla cronaca.
Il libro è suddiviso in sezioni geografiche precedute da una sezione intitolata “Sul mestiere del reporter” che funge da discorso sul metodo.

Con la discreta guida di Contorbia, lasciamo direttamente la parola a Valli che ci racconta come rivedere queste pagine gli abbia riportato alla mente cose che aveva dimenticato di aver scritto.
Seguirlo è molto facile: il suo eloquio vivace è anche impeccabile. Lucido, lineare, preciso, merita di essere riportato il più fedelmente possibile.

Il giornalismo, dice, è un mestiere artigianale: la verità del momento è una verità traballante, che cambia,non è scienza. La notizia che viene data, poche ore dopo è modificata, evolve. Artigianale, inoltre, poichè non solo non è una scienza, ma neppure un’arte. Il giornalismo, a differenza dell’arte che è creativa, non dovrebbe inventare o creare, ma solo rispecchiare lo spicchio di realtà che uno vede, nella maniera più coerente.
Quale bilancio trarre da questa memoria di mezzo secolo di lavoro? Vedo con molta chiarezza sia i limiti che l’estrema utilità della professione. Una democrazia si può misurare dal grado dell’informazione e quindi il giornalismo è un servizio alla democrazia, a cui si possono aggiungere le proprie idee, una certa immaginazione, una certa faccia tosta. Il riassumere la sera un grande avvenimento, spesso in condizioni disagiate, richiede scioltezza e sfrontatezza.

Mi sono divertito, pur nel seguire avvenimenti tragici.  È lecito dire che uno si diverta nelle disgrazie? Un medico certo non si diverte per la malattia, ma l’impegno che mette nel guarirla. Io mi sono divertito perchè , come dice Sandro Viola, avevo l’impressione che uno zio ricco mi pagasse per girare il mondo e ogni tanto mandargli una cartolina, un racconto. L’aver potuto seguire quel che è accaduto nel corso della mia vita nel mondo mi ha consentito di osservare come il mondo e la gente cambiassero.

Una cosa che ho osservato è stata la decolonizzazione, ovvero l’arrivo alla ribalta di di una parte del mondo che non aveva un’identità, una faccia, una storia. Seguivo l’arrivo all’indipendenza di molti paesi africani e asiatici. Il mondo prima degli anni sessanta era mancante di un pezzo, di un continente quasi al completo, l’Africa, e di gran parte dell’Asia. Indipendenze pagate con i morti, come in Algeria, guerre come il Vietnam, che erano il proseguimento della decolonizzazione. E seguivo il nascere di dittature, spesso sanguinarie, ma il primo passo di un Paese è quello di poter decidere di se stesso. Questi sono stati per me momenti di grandissima gioia e soddisfazione.

La verità del momento è essenziale. C’è il momento esaltante dell’indipendenza e nel libro ci sono ritratti di grandi leader africani che erano degli  eroi nazionali, anche se alcuni anni dopo  sono diventati dei tiranni. La prima identità, quella di eroi, è la verità del momento che verrà tradita o cambierà mentre il contesto storico cambia, i tempi cambiano. Il cronista vede sempre un angolo, un tassello piccolissimo. Capita di afferrare e prospettare anche quello che può accadere, ma per farlo deve tener conto della sua conoscenza della storia, del passato, a volte senza esibirla. Il più grande cronista è il fotografo che spesso riesce a consegnarci un’ immagine che da sola riassume una guerra. Per il giornalista scritto è più difficile dare una buona sintesi, richiede  una maggior fatica e non riesce mai ad avere  l’impatto dell’immagine. Quello che il libro mi ricorda, e per questo lo definirei un libro crepuscolare, è un tipo di informazione che sta mutando profondamente, come la chiusura di un grande capitolo. Il tramonto del reportage scritto. Non pretendo che il  libro da solo significhi questo, ma ne è un esempio.

L’essere un provinciale è una grande forza. La differenza tra la metropoli e la provincia oggi sparisce mentre le distanze velocemente si accorciano. Quando io ero ragazzo non era così. Sono nato a Parma e già l’andare a Milano era una avventura, un viaggio. Dando semplicemente un’occhiata ai giornali vedevo nelle terze pagine i racconti degli inviati che descrivevano i loro viaggi spesso esotici. Questo mi ha spinto, ed è  tipico del provinciale di un tempo. Molti grandi scrittori hanno tratto una grande forza dal loro provincialismo. Per un provinciale il giornalismo  era una possibilità e una strada per evadere, per fuggire. Erano delle fughe che uno sognava e le sognava attraverso i libri, che consentivano dei  viaggi nell’immaginazione. Circolavano nella mia casa dei romanzi che accendevano le fantasie di un ragazzo. Spaccare il cerchio della normalità, per un ragazzo che sognava di essere un protagonista del Rosso e del Nero o della Certosa di Parma o dei Tre Moschettieri, era la fuga.
Oggi fa sorridere poichè il viaggio è normale, ma allora il giornalista era uno che viaggiava – il che non era sempre vero, o lo era solo per i personaggi mitici che erano gli inviati speciali – e lo scrivere era un tributo che bisognava pagare per viaggiare. In me il desiderio di viaggiare era molto più forte del desiderio di scrivere, lo scrivere ne era il pedaggio.
Una volta quando arrivavo in paesi lontani ero il solo straniero e dovevo  entrare in società di cui ignoravo quasi tutto. Era affascinante e impegnativo. Questo appagava  la qualità naturale di un giornalista che è la curiosità.

La grande fortuna per un giornalista è che nasca un nuovo giornale. Io ho visto nascere due nuovi giornali, come il Giorno e la Repubblica. Il Giorno nacque e doveva essere un giornale antimontanelliano. Lo stesso fondatore, Gaetano Baldacci, veniva dal Corriere della Sera. Molti dei giornalisti venivano dal Corriere della Sera e vi fecero confluire le loro storie e il loro lavoro. Angelo Rozzoni, grande cronista, organizzò il giornale e lo animò per anni e riuscì in una operazione oggi politicamente difficile. Il  Giorno, che nacque con un editoriale intitolato Il cuore a sinistra e voleva essere di sinistra, aveva infatti nella redazione alcuni che venivano dalla Repubblica Sociale e altri che venivano dalla Resistenza. Naturalmente prevalse nel giornale il centrosinistra, ma Rozzoni mediava, in questa redazione, tra redattori di così diversa estrazione e dove talora sembrava di essere in un romanzo balzachiano. Nello scantinato lavoravano  personaggi meravigliosi cone Romeo Giovannini, Tommaso Besozzi, giovani di grande  valore come Giovanni Roghi. Io che “facevo” i commissariati  di Milano – allora non c’era il telefono e si andava a piedi a prendere le notizie – venni un giorno apostrofato sui due piedi dal direttore del giornale che mi disse: “Lei va a Caracas!” Pensate che cercai sulla carta geografica per vedere dove era il Venezuela!
Era questa la grande occasione che un giornale  giovane poteva offrirmi e dopo Caracas venne il Marocco e un Paese dopo l’altro in una vita che è durata 50 anni. Quando dico che mi sono divertito non dico che mi sono divertito a girare in posti seminati  di cadaveri, ma ho avuto  l’occasione di vedere come il mondo, nel secolo in cui il destino mi aveva ficcato, stava evolvendo.

Esiste poi una certa coerenza nel fare questo mestiere. I giornali hanno una impronta  politica. Io ho avuto la fortuna, e in un certo senso ho scelto, di lavorare in giornali che corrispondevano il più possibile alle mie idee. Anche in questo ho avuto un buon destino.”

 A noi lettori rimane la scelta se invidiarlo e quasi odiarlo o se ammirarlo e rivivere con lui, nella lettura dei suoi articoli, l’emozione continua del viaggio e della scoperta.

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Cecilia Deni, classe 57, sarda di nascita, vive e lavora come medico di famiglia a Bologna. Lettrice ossessiva, ama restituire il frutto delle letture a chiunque, imprudentemente, si presti ad ascoltare.

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