Le parole nascoste. Andare impreparati a uno spettacolo e vedere quel che non ci si aspettava

Ebbene, lo ammetto. Dello spettacolo mi aveva attratto il titolo Le parole nascoste, e tanto mi era bastato. Il “teatro”, poi, non aveva bisogno di presentazioni: il Giardino degli Aranci è un luogo la cui suggestività non cessa mai di brillare. La serata limpida permetteva allo sguardo di spaziare fra gli alberi, indovinandovi nascoste dietro le maestose forme delle basiliche paleocristiane, oppure, dal parapetto, nelle luci che raccontano secoli di storia e di arte.

Questo lavoro, proposto all’interno della rassegna Improvvisi urbani, giunta alla ventesima edizione, è frutto del lavoro, della ricerca, dell’impegno e della passione dell’Open Program del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, è, come si poteva leggere sul testo che il pubblico ha ricevuto in lettura, “un’esplorazione creativa dell’interazione fra i canti del Sud degli Stati Uniti […] e testi legati alle origini della prima Cristianità”: nello specifico, musiche nate tra gli schiavi neri d’America su testi che sono sorti all’interno della passionale e intensamente partecipata religiosità copta.

Gli attori, tre uomini e cinque donne, hanno letto questi testi e interpretato la loro spiritualità con tutto ciò che il corpo mette a disposizione: voce, gestualità, danza, sguardi. Gli abiti bianchi, essenziali, il contatto con la terra –senza scarpe-, l’osmosi con il pubblico –che di fatto, seduto in semicerchio, ha creato esso stesso la scena-, hanno creato lo spettacolo, si può dire, da qualcosa che esternamente non si percepisce.

Mi spiego: lo spettacolo esiste e prende vita nel momento in cui gli attori lo creano e danno vita –svelano cioè, togliendole dal nascondiglio- alle parole nascoste. Le parole si fanno musica, danza, preghiera. Vengono vissute attraverso movimenti di danza che a loro volta raccontano storie: di gioia, di dolore, di caduta, di sconfitte, vittorie. Il canto, poi, dà vita consapevole a questo movimento. Il canto è fortemente espressivo: il corpo in movimento accompagna e dà significato al canto, il volto diventa esso stesso ciò che la voce canta. Persino per chi, come me, è anglofobo, non è stato un ostacolo il fatto che tutti i canti fossero in inglese.

Le parole dell’amore, della liberazione, della librazione ad un livello più grande e profondo di vita, si distendono in una musica che nasce dal cuore ferito di chi libero non è stato mai: la danza in qualche modo riscatta quegli schiavi, e ne fa donne e uomini liberi. E ce lo raccontano, gli attori, questo viaggio verso il riscatto: mi ha colpito molto il modo in cui continuamente si guardavano: non semplici sguardi “di regia”, ma trasmissione di sentimenti, condivisione emotiva totale.

Gli attori sono attori totali. Ciascuno di loro ha danzato, cantato, vissuto sentimenti ed emozioni che come un’onda si sono trasmessi al pubblico, che ha fatto da cassa di risonanza. Ci vuole molta preparazione, molta agilità, per tirare fuori e riportare in vita le parole nascoste. Alla fine, nessuno sarà più come prima: non è una banalità, questa che dico, tanto per dirla; le parole sono magiche, e anche Dante lo sapeva bene: il Paradiso sarebbe inconcepibile senza lo splendore della luce e la danza di chi ha raggiunto la felicità. Le parole del Paradiso danzano ed emanano luce anche loro: è il loro modo di cantare, di raggiungere il nostro cuore.

Però, c’è un però. Per quanto straordinario fosse lo scenario, per quanto attraente e affascinante la proposta, io ho faticato molto a seguire lo spettacolo che è durato circa un’ora. Sicuramente gli organizzatori non prevedevano un così vasto afflusso di pubblico –il fatto che in tanti siano andati a vedere lo spettacolo è in sé un bene-: fatto sta che i posti a sedere non sono bastati ed il fastidio fisico per la posizione scomoda ha pesato non poco nella mia partecipazione ad esso. Pubblico e attori non hanno potuto interagire reciprocamente come avrebbero potuto. E questo è un peccato!

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Giulietta Stirati, docente di materie letterarie e latino in un Liceo romano. Appassionata da sempre alla lettura, ha fatto di questa attività, declinata nelle sue funzioni più ampie e profonde, il senso del proprio mestiere. Insegnare è insegnare a leggere il mondo, sé stessi, gli altri. Attraverso la trasmissione del sapere si educa a leggere, a scegliere che vita si vuole.

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