Non so che. Impalpabili emozioni

nonsocheNon so che. Questa antichissima espressione arriva fino a noi addirittura dal nescio quid latino, e nella sua lunga storia è stata usata per molte cose indefinibili con altre parole e solo percepibili: lo specifico di una lingua, intraducibile in un’altra; la bellezza di un volto; le inspiegabili cause dell’amore; lo stile letterario; la squisitezza di un gesto, di un comportamento. Dalla seconda metà del ‘600 per circa un secolo cominciano a comparire sistematiche trattazioni di questo concetto: Bouhours, Feijoo, Marivaux, Montesquieu ai quali però non seguiranno esplicite opere sull’argomento, si può dire, fino all’attuale Jankélévitch, che lo riprende però non tanto in relazione all’arte ma all’esperienza in genere, legato a un sentimento particolare: «il pathos dell’incompletezza».

Il parlare comune – ancora oggi – attribuisce alla locuzione «non so che» un’espressione di ignoranza: là dove le capacità culturali o sensibili vengono meno, ci si appella a un qualcosa di ineffabile –un certo non so che– in aiuto delle mie facoltà che non trovano parole per quello che, molto probabilmente,  il mio interlocutore continuerà a non avere chiaro.

Non c’è dubbio che in molti casi sia stato e sia così, ma nei fatti questo concetto ha svolto una funzione importantissima per l’estetica moderna: ha lentamente ma inesorabilmente messo in crisi un’idea molto longeva nel pensiero occidentale, e non del tutto scomparsa neanche oggi, secondo la quale la bellezza coincida con l’avvicinarsi o il concidere a determinate regole, misure, proporzioni delle singole parti o del tutto.

Ratificare l’esistenza e l’importanza del non so che è significato soprattutto aprire la strada all’individuale, al singolare del fenomeno estetico e del suo creatore. Senza la lunga storia del non so che non ci sarebbe stato spazio per il genio, l’originalità, la creatività, e in genere per tutti quegli aspetti non canonizzabili ma costruttivi dell’esperienza estetica.

E’ proprio grazie alla sua capacità di descrivere un’estrema resistenza all’oggettivazione, alla definizione, alla soluzione definitiva, che il non so che può ancora significare la scommessa dell’artista o quella del fruitore: la scommessa che tanto l’arte quanto l’esperienza quotidiana (ad esempio nel fraintendimento, nel sogno, nell’utopia, nel desiderio) conservino la capacità di non soddisfarci del tutto, di non lasciarci in pace, di non lasciarsi esaurire nell’ostensione.

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Lorenzo Gasparrini Dottore di ricerca in Estetica, dopo anni di attività universitaria a Roma, Ascoli, Narni in filosofia, scienze della formazione, informatica, ora è editor per un editore scientifico internazionale. Attivista antisessista, blogger compulsivo, ciclista assiduo, interessato a tutti gli usi e costumi del linguaggio.

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