Festival Intenazionale del Film di Roma: The Lies of the Victors. Se il cinema tedesco cerca di far suoi gli ideali americani

Festival Intenazionale del Film di Roma - The Lies of the Victors

Negli ultimi anni abbiamo visto spesso il cinema americano impegnato nelle battaglie civili, sia con indagini ed inchieste, sia con processi individuali e collettivi contro i sistemi di corruzione che favoriscono i ricchi, i potenti, i disonesti, gli inquinatori, i fabbricanti di morte. E spesso abbiamo visto la stampa in prima linea a far breccia nelle coperture delle lobbies e far vincere l’onesta, la povera gente, gli oppressi, i malati, i perdenti. È uno stile prettamente americano. Non ci dimentichiamo che la verità, uno degli ideali più alti dell’America, è un simbolo di quella società, che ha anche perseguito due Presidenti per non aver rispettato questo concetto.

Alcuni titoli più importanti, tra gli altri, di queste inchieste e processi civili, in forma di thriller sono stati L’uomo della pioggia di Francis Ford Coppola del 1997 con Matt Damon, The insider,dietro la verità di Michael Man del 1999 con Russel Crowe ed Al Pacino ed Erin Brockovich, forte come la verità, di Steven Sodeberg del 2000 con Julia Roberts. Un precedente più datato viene citato anche nel film The lies of the victors di Christoph Hochhausler. Alla fine del film Deadline di Richard Brocks del 1952, la scena in cui il giornalista Ed Hutchison (Humprey Bogart) telefona al boss di turno facendogli sentire le rotative che stampano il giornale con la verità, dicendo la famosa frase: “È la stampa, bellezza e tu non puoi farci niente. Niente”.
L’archetipo dell’idea di stampa, di verità diffusa che impedisce il crimine.

Con queste premesse il film The lies of the victors, in cui un giornalista di inchiesta cerca di smascherare una lobby che ricicla rifiuti tossici diviene solo un patchwork di clichés deja vu, messi insieme in una sceneggiatura noiosa ma abbastanza arzigogolata, più per confondere lo spettatore che per cercare una originalità nel solco delle buone idee europee.

Esagerata la trovata di far diventare legali i processi di riciclaggio di pericolosi materiali pesanti per difendersi dalla concorrenza cinese, ricorrendo alla armonizzazione delle leggi della Unione Europea (ma quali?).
Ridicolo il ricco industriale criminale, ben istruito dai suoi PR, che per intimorire ed influenzare un Ministro corrotto lo maltratta in un ristorante pubblico.
Patetica e ripetuta la storia d’amore tra il giornalista d’assalto Fabian Groys (un belloccio Florian David Fitz) e la stagista Nadja Koltes (una biondina intuitiva Lilith Stangeberg). Poco credibili le reti tese da un comparto speciale di public relations, con metodi simili alla gestapo, “nascosto” in un palazzo pseudo trasparente a vetri, che lavora sporco per il lobbista di turno. E che dire della prima vittima, gettatasi nella gabbia dei leoni allo zoo, in maniera che non si sono potute fare analisi per accertare i rifiuti tossici nel suo sangue.
Poi ancora la colpa di tutto, come cercano di dimostrare le lobbies, deriva dai soliti traumi della guerra in Afghanistan, dove i suicidi hanno passato un periodo da soldati.

L’elemento più importante per il regista tedesco è l’uso degli occhi tecnologici che hanno invaso la nostra vita. Così il film è pieno di scene girate come riprese da una telecamera, con una sorta di prospettiva extraumana, aliena.
Computer che si accendono da soli penetrati da hakers efficientissimi, scanner che falsificano fotografie e documenti, sensori per rilevare corpi, fotocellule che accendono visori e cellulari. Con tutto questo freddo moderno armamentario Christoph Hochhausler si è dimenticato gli ideali che avevano guidato gli ottimi film americani sullo stesso argomento, scimmiottando solo la avanzata tecnologia americana che dai Bond ai Supereroi ha reso ricchi produttori e registi.

Il cinema tedesco ci aveva abituato a ben altre pellicole. La stessa casa di produzione del film è ad esempio la Heimatfilm, e per chi si ricorda il ciclo Heimat (11 episodi diretti da Edgard Reitz del 1984), quello fu veramente un successo mondiale.

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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