Festival Internazionale del Film di Roma 2014. Titoli di coda

Roma FF9 - Pubblico - ph. Piero Bonacci
Roma FF9 - Pubblico - ph. Piero Bonacci
Roma FF9 – Pubblico – ph. Piero Bonacci

Con la proiezione di domenica sera al cinema Barberini di A Most Wanted Man di Anton Corbijn (o di Haider di Vishal Bhardwaj all’Auditorium in Sala Sinopoli) si è conclusa la nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma  (16-25/10/2014), che per la prima volta ha visto il Pubblico essere non solo Spettatore ma anche unico e insindacabile Giurato – come poi lo è nella vita reale del Cinema – a colpi di stelle (da 1 a 5). Questi i Premi:

  • Premio del Pubblico BNL | Gala: Trash di Stephen Daldry
  • Premio del Pubblico | Cinema d’Oggi: Shier gongmin / 12 Citizens di Xu Ang
  • Premio del Pubblico | Mondo Genere: Haider di Vishal Bhardwaj
  • Premio del Pubblico BNL | Cinema Italia (Fiction): Fino a qui tutto bene di Roan Johnson
  • Premio del Pubblico | Cinema Italia (Documentario): Looking for Kadija di Francesco G. Raganato

Se la vittoria di Trash di Stephen Daldry nella sezione Gala (GA) era palpabile già a Festival appena iniziato nonostante l’ottima affluenza (e le speranze di molti) per Gone Girl di David Fincher, per le sezioni Cinema d’Oggi (CO) e Mondo Genere (MG) il risultato non è forse il più rappresentativo.
Per quel che riguarda Prospettive Italia, purtroppo l’ho lisciata in pieno, eccezion fatta per Index Zero – ma non è (tutta) colpa mia, è che il calendario del Festival è puntualmente un attentato alle buone intenzioni – e immagino che Fino a qui tutto bene di Roan Johnson rimarrà dolcemente una mia spina nel fianco, quindi rosico ma evviva la vittoria.
Ad essere onesti, poi, non ho lisciato solo Prospettive Italia… Sono stata capace di perdermi tutti i film vincitori. Coff-coff
Eppure il Festival l’ho piantonato, tant’è che ho visto 20 film tra cui:

  1. We are Young. We are strong di Burhan Qurbani (GER, 123’, CO)
    Rostock, agosto 1992: le violenze contro gli immigrati culminano nella “notte del fuoco”. Seguendo le vite di alcuni ragazzi che vi presero parte, ne scopriamo i perché finendo con l’amare e l’odiare tutti. Compresi noi stessi, oggi. Non c’era angolo dell’Auditorium in cui non risuonassero le lodi per questo bellissimo film, il candidato di tutti alla vittoria in Cinema d’Oggi.
  2. The Knick di Steven Soderbergh, ep. 1-10(USA, 550’, GA)
    Magnifico Clive Owen nei panni del dottor John Thackery, geniale e cocainomane in egual misura. Di questa serie, ambientata al Knickerbocker Hospital nella New York del 1900 e presentata in anteprima al Festival, avevo pensato di vedere solo i primi due episodi, giusto per provare… Mi sono fatta la maratona. E vivaddio la seconda stagione per la rete americana Cinemax è già stata confermata.
  3. Eden di Mia Hansen-Løve (FRA, 131’, GA)
    Il film parla dell’affermarsi della musica elettronica francese a partire dagli anni Novanta seguendo le vicende di Paul (Félix de Givry) che, appassionato di musica house, inizia in quegli anni a muovere i primi passi come DJ. La sceneggiatura è sommaria e confusa, l’introspezione non esiste (a meno che per introspezione non si intenda il non far crescere la barba al protagonista, Paul, per esasperarne l’incapacità di evolvere e maturare), non succede quasi niente per 131 minuti e quel “quasi” succede male.
  4. Doraemon, Stand by Me (3D) di Takashi Yamazachi (JPN, 95’, AL)
    Doraemon, un grande gatto blu marsupiale su due zampe, per risollevare le amare sorti dei discendenti di Nobita del XXII secolo tornerà dal Nobita bambino – un po’ pigro e maldestro, ma buono – per affiancarlo, con la sua amicizia e i suoi infallibili “ciuski”, nella sua personale ricerca della felicità.
    Il film, meritato tributo al cartone che ha cresciuto una generazione di bambini tra gli anni Ottanta e Novanta, è esteticamente ben realizzato (la cura dei giapponesi per la bellezza e l’armonia non viene tradita nemmeno nella rappresentazione del futuro) e ci insegna, di nuovo, che la felicità non è cosa hai ma con chi la condividi. Un gatto blu del futuro che tira fuori dal suo marsupio (“gattopone”) dei ciuski miracolosi… What else?
  5. Time Out of  Mind di Oren Moverman (USA, 117’, CO)
    New York, giorni nostri: un senza tetto (Richard Gere) cerca di recuperare la sua vita e il rapporto con la figlia (Jena Malone) dopo anni di silenzi e cicatrici. Il film ha una bella fotografia che con l’ausilio dell’evanescenza e del riflesso aiuta a imprimere nelle intenzioni del regista la narrazione dello status di invisibili degli homeless; la sceneggiatura invece risulta fiacca specie quando viene lasciato solo Richard Gere, che non fa nessuno sforzo per abbrutirsi e rendersi credibile nei panni (sporchi e malmessi, in teoria) di senza tetto ubriacone da, con alterne fortune, dieci anni. Ma non è colpa sua, è che lo disegnano “gentiluomo”.
  6. Angels of Revolution di Aleksej Fedorčenko (RUS, 108’, CO)
    1934. Nel nord dell’Unione Sovietica gli sciamani di due popolazioni, gli Ostiachi e i Nenci, non vogliono accettare la nuova ideologia staliniana. Allora, sei artisti guidati da “Polina la rivoluzionaria” (Darya Ekamasova) partono alla volta della Siberia per conciliare le due culture. Aleksej Fedorčenko, insignito del Marc’Aurelio del Futuro, dopo “Spose celesti dei Mari della pianura” (2013) è tornato al Festival di Roma con un’altra opera visionaria; ingannando l’occhio con atmosfere teatrali e quasi fiabesche, racconta una pagina critica della storia sovietica.
  7. Escobar: Paradise Lost di Andrea Di Stefano (FRA, SPA, BEL, 120’, GA)
    Nick (Josh Hutcherson), giovane canadese, si reca in Colombia insieme al fratello alla ricerca di un angolo di paradiso e della sua onda perfetta. Qui si innamora della bella Maria (Claudia Traisac), nipote di Pablo Escobar (Benicio del Toro). Sempre più vicino a Maria e di conseguenza alla sua famiglia, Nick rimarrà intrappolato nella scia di interessi e sangue di Escobar. Ottima opera prima per Andrea Di Stefano che porta a casa un bel film (forse un po’ romanzato, ma che importa davanti alla grandezza di Benicio del Toro?) e il Premio TAODUE Camera d’Oro alla migliore opera prima.
  8. Black and White di Mike Binder (USA, 121’, GA e AL)
    Il film esplora le tensioni provocate dalle differenze razziali puntando l’obiettivo sulla dolorosa storia famigliare dell’avvocato Elliot Anderson (Kevin Costner) che dopo la morte della giovane figlia si prende cura, insieme alla moglie, della nipote nata da una relazione interraziale. Quando, però, la moglie di Elliot ha un tragico incidente, la nonna paterna Rowena (Octavia Spencer) pretende di sottrargli l’affidamento della nipote. Il film è una tavolozza di caratteri e si apre a vari livelli di lettura finendo con l’essere una storia di conoscenze, non di razzismo. Sarà la solita storia, ma ben vengano solite storie così alle quali difetti non ne trovi.
  9. Nightcrawler di Dan Gilroy (USA, 119’, MG)
    Los Angeles. Louis “Lou” Bloom (Jake Gyllenhall) non riesce a trovare lavoro finché una notte non vede dei videoreporter all’opera, e inizia a credere che quello possa essere il lavoro adatto a lui. Comincia così la sua scalata per il successo, a tutti i costi. Perfetta opera prima del regista Dan Gilroy, tant’è che per molti era questo il film candidato alla vittoria in Mondo Genere, che mette in scena la società e l’informazione americana al tempo del citizen journalism. Frase cult: “Non credi che in realtà io capisca le persone, ma semplicemente non mi piacciano?”. Sublime Jake Gyllenhall.  
  10. A Most Wanted Man di Anton Corbijn (USA, UK, GER, 121’, Evento GA)
    Tratto dall’omonimo romanzo di John Le Carrè, il film è un action thriller che si svolge tra Amburgo e Berlino. Protagonista è Philip Seymour Hoffman, venuto a mancare a febbraio 2014, nei panni dell’agente segreto anti-terrorismo Günther Bachmann. Benché Hoffman sia riuscito ad essere ancora chirurgico ed eccezionale, preferisco ricordarlo per altri ruoli: qui la fine era troppo a suo agio.

Il Festival, nonostante abbia offerto mediamente dei bei film e abbia concettualmente azzeccato a intraprendere la strada preferenziale nei confronti del Pubblico, è ancora una macchina a diesel che soffre Roma e la romanità.

Lo sciopero generale dei mezzi pubblici in un venerdì di Festival in cui era anche prevista la Conversation con Kevin Costner e la proiezione a seguire di Black and White, non è stato un bel regalo alla città e al Festival (al quale, tra l’altro, Atac offre le navette della linea Cinema). Sentire l’annunciatrice che si scusa per il ritardo nell’inizio dell’appuntamento a causa dello sciopero è deprimente. Il Festival Internazionale del Film di Roma dovrebbe essere un momento di festa in cui tutte le parti fanno squadra per vincere insieme… Invece in questa città urlano tutti, ma nessuno ascolta.

In più i romani, un po’ troppo snob ultimamente, se ne sono stati ciondolanti a bordo carpet facendo finta che il passaggio di Clive Owen o Benicio del Toro non turbasse i loro umori. Dio benedica gli adolescenti che, istintivi e ormonalmente onesti, si affastellavano e si sbracciavano ogni qual volta era atteso un loro idolo, regalando un po’ di vivo rossore a questo Festival altrimenti bigio d’emozioni.

Tasto dolente: l’organizzazione, che quest’anno è stata più traballante del solito. Per dare più centralità al Pubblico, chiunque abbia compilato il calendario ha sì agevolato gli spettatori programmando le proiezioni nella serata, ma si è palesemente dimenticato degli accreditati, che a Roma sono parecchi (Press, Cultural e Professional i badge principali), incastrando anche quattro anteprime alle 9 di mattina e costringendoci a riversarci nelle proiezioni serali (chi poteva) in teoria destinate al Pubblico. Ed ecco spiegate le file estenuanti e chilometriche che qualche televisione si è compiaciuta nel riprendere, pensandole sintomo di successo del film o addirittura della kermesse.

Positivi, invece, sono stati gli uomini e le donne dello staff del Festival e dell’Auditorium ai quali spetta il lavoro in trincea, fuori e dentro le sale, che hanno reso più umani questi hunger games, facendo del loro meglio anche di fronte all’isteria collettiva.

Arrotolato il red carpet si può dichiarare conclusa la nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, pare l’ultima sotto la direzione artistica di Marco Müller.

Arrivederci al prossimo anno, forse.

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Giornalista pubblicista dal 2012, scrive da quando, bambina, le è stato regalato il suo primo diario. Ha scritto a lungo su InStoria.it e ha aiutato manoscritti a diventare libri lavorando in una casa editrice romana, esperienza che ha definito i contorni dei suoi interessi influendo, inevitabilmente, sul suo percorso nel giornalismo. Nel 2013 ha collaborato con il mensile Leggere:tutti ma è scrivendo per art a part of cult(ure) che ha potuto trovare il suo posto fra libri, festival e arti. Essere nata nel 1989 le ha sempre dato la strana sensazione di essere “in tempo”, chissà poi per cosa...

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