Ayesha Sultana, Blue Velvet. Con Intervista

Ayesha Sultana (Jessore, Bangladesh, 1984, vive e lavora a Djaka) è consapevole che la citazione del velluto – a partire dal titolo stesso della mostra Blue Velvet – non può non fare i conti con il Rinascimento Italiano, nonché con il barocco romano. Più esplicito l’omaggio a Napoli nella serie di disegni ad inchiostro e acquarello che l’artista bengalese ha realizzato nel 2012-2013, raccolti in Napoli Drawings (2014), una preziosa pubblicazione in edizione limitata. Non meno importante il suo tributo allo spazio architettonico nella scultura Tabula Rasa II (2014), in cui ha trasferito su legno il disegno del Pantheon, uno dei monumenti dell’antichità che le è più caro. Opere che fanno parte di questa sua prima mostra italiana alla galleria Valentina Bonomo, insieme a due piccoli oli.

Spiega Ayesha Sultana:

“L’intera mostra è concepita come uno spazio psicologico in cui ci sono associazioni tra i singoli pezzi e l’insieme, a partire dall’idea stessa del colore. Il blu del ricamo rimanda all’elemento dell’acqua: un’acqua che scorre, ma che può anche essere stagnante.”

Velluto Blu – si sa – è anche il titolo del bellissimo film girato da David Lynch nel 1986 (è l’artista stessa a dichiararsi “fan” del regista americano), a sua volta derivato dalla canzone del ’63 cantata da Bobby Vilton (datata al 1950 anche l’omonima canzone popolare di Bernie Wayne e Lee Morris):

“ma, in verità, non ho pensato a tutto questo, piuttosto cercavo qualcosa che trasmettesse emozioni”, precisa.

Le sue opere non descrivono ma instaurano un dialogo psicologico con il pubblico, come vediamo nell’uso stesso di un materiale come il velluto: morbido, prezioso, sensuale e seduttivo.

“Quando ero studentessa, dopo la laurea in Visual Arts e il diploma in Art Education della Beaconhouse National University di Lahore, in Pakistan, ho insegnato per due anni. Uno dei due corsi era sul Rinascimento Italiano. Certamente soprattutto nei miei lavori bidimensionali sono stata ispirata, o in un certo senso influenzata, dall’aspetto della prospettiva, dalla profondità, dall’illusione. Elementi che penso che siano presenti nei “velluti”. Il mio modo di lavorare, comuqnue, è intuitivo. Uso materiali che trovo intorno a me. Mi piace giocarci, lasciando il mio segno attraverso il gesto. Sia che si tratti dell’azione di sfregamento sulla carta di rsio, che del ricamo sul velluto. Il gesto è come un disegno per me.”

In equilibrio tra forma e materia, si colloca la parola. Nel suo lavoro Ayesha – che fa parte del gruppo di artisti della Britto Arts Trust – usa la lingua inglese. Ricama parole come tidal (alta marea), nausea, despair (disperazione) o frasi come dagger of the mind (trasmissione di pensiero). Il colore del velluto ha una relazione stetta con la parola scritta che è lei stessa a ricamare. Il messaggio è apparentemente semplice e diretto, ma frutto di una più complessa relazione psicologica. L’artista recupera una tradizione tipicamente femminile che appartiene anche alla sua famiglia: nonna, mamma, zia.

“Loro ricamano e lavorano anche all’uncinetto, cimentandosi in ricami piuttosto complessi. Il mio ricanmo è decisamente semplice. Si tratta solo di quello che in bengali chiamiamo ‘Bhorat stitch’. Solitamente uso il gessetto per scrivere e poi riempio la scrittura con il filo. Ho imparato a ricamare da mia madre, ma ancora non sono così esperta.”

L’elemento del tempo entra nel processo creativo con una sua valenza specifica, nei velluti così come nei disegni. Nella serie dedicata a Napoli c’è anche il tempo trascorso nella città partenopea. Un’esperienza che l’ha coinvolta emotivamente su piani diversi. Sia in quanto partecipe del progetto Opera per Cantalupo (2012), realizzato da Paolo W. Tamburella (di cui è stata assistente per nove mesi, tra il 2011 e il 2012, nello studio di Roma) in Piazza del Plebiscito a Napoli, che in quanto viaggiatrice che entrava in contatto con una cultura molto diversa dalla sua.

Info

  • Ayesha Sultana. Blue Velvet
  • dal 24 ottobre 2014 al 30 novembre 2014
  • Galleria Valentina Bonomo, Roma
  • www.galleriabonomo.com
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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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