Stefano Tedeschi da White Noise. Con intervista

La mostra NOCONNECTION di Stefano Tedeschi è in corso alla White Noise Gallery di Roma. Quando ci si addentra negli spazi della galleria, si nota che apparentemente non c’è nessuna connessione tematica fra le opere, ma, a ben guardare, i quadri sono tutti collegati e creano un corpus omogeneo in cui lo spettatore si può immergere.

L’arte di Tedeschi ha un approccio semplice: un bambino, una donna anziana, un’onda marina, un globo, sono alcuni dei soggetti, ma ciò che rende unica la sua esperienza visiva è la tecnica che si esprime in un tratto continuo, lineare e intricato contemporaneamente. A partire dai contorni dell’immagine tracciati, l’artista approda a disegni interni al contorno che hanno una consequenzialità generata da un alternarsi di maggiore o minore densità dei tratti, generata dalle diverse tonalità del grigio, generata dalla libertà di tali disegni. Si può pensare che dentro le figure si creino delle storie grazie a forme che non sono altro se non piccoli racconti, piccoli episodi che si concretizzano sulla superficie del quadro e sono frutto della fantasia minuziosa di Tedeschi. Queste forme immaginarie si rimandano, si rincorrono, sono attigue, si susseguono e si richiamano e, dalle parole dell’artista:

“le considero macchinari, ingranaggi, cavi attorcigliati, pseudo motori e pseudo circuiti, diciamo…”.

Si riscontra un equilibrio squilibrato in cui si manifesta una potenza della tecnica e una potenza nella resa ultima del lavoro. Lo spettatore ha bisogno di una distanza per apprezzare la figura totale ed ha bisogno di un’altra distanza per apprezzare quel mondo di disegni interni scaturiti dalla mano decisa di Tedeschi. La semplicità dei soggetti crea un’empatia immediata con ciò che si vede, si passa poi alla scoperta di ciò che si svolge nell’opera. Guest Star si incentra sull’idea di vuoto da cui si origina, delicatamente, una pienezza della pittura: il gioco fra assenza e presenza realizza una spazialità semplice e allo stesso tempo complessa, e compiuta.

La White Noise Gallery è dislocata in maniera tale che al piano interrato ci sia una project room in cui ogni artista che espone si possa sentire libero di inventare un luogo creativo personale ulteriore alla mostra; qui Tedeschi ha realizzato un ambiente in cui si esperisce uno stato di sospensione grazie alla relazione fra cielo e terra, concreto e volatile.

La mostra, a cura di Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti, diventa per noi anche l’occasione di approfondire un po’ tutta la sua ricerca; così, ci rivolgiamo direttamente all’artista per farlo:

qual è la tua formazione?

“Ho una laurea in studi storico artistici. Gli anni dell’università mi hanno naturalmente aiutato ad avere un approccio critico nei confronti dell’Arte contemporanea. A questa preparazione accademica, ho sovrapposto la mia precedente attrazione per il bianco e nero del fumetto anni ’70-’80, in particolare nella declinazione che ne hanno dato autori classici come Paz e Moebius. Ad un certo punto, qualche anno fa, ho raccolto tutto il mio bagaglio di esperienze, ho stretto tra le dita un Posca e ho (ri)cominciato a disegnare.”

Come mai la mostra si chiama NOCONNECTION?

“E’ un avvertimento che giocosamente rivolgo all’osservatore che sta entrando in mostra che, una volta uscito dall’esposizione, sono sicuro che avrebbe da ridire circa l’assoluta estraneità reciproca delle immagini che ha appena visto. E ciò: primo perché ritraggono soggetti appartenenti a sfere diverse, ma che effettivamente si somigliano tra loro; poi perché alcune figure nascondono un’ambiguità formale, tale da generare un “corto circuito” percettivo; infine perché l’ambiente “galleria d’arte” (o museo) suscita nel visitatore una sorta di stato di eccitazione-soggezione, che lo spinge a cercare significati nascosti ovunque. L’istinto classificatorio, che ci tramandiamo in eredità dall’alba dei tempi, fa sì che ogni singola interpretazione – dall’analisi iconologica più articolata, al semplice “mi piace perché mi ricorda il mio cane” – costituisca l’effettivo vertice verso cui confluisce l’Opera. E’ il vestito che le stiamo cucendo addosso. Dunque, a conti fatti, la sola connessione che esiste tra le cose che ci circondano siamo proprio noi.”

Qual è il rapporto fra fisica e biologia e la tua arte?

“Dalla lettura di un testo per me folgorante Il caso e la necessità di Jacques Monod ho iniziato a cercare di individuare le consonanze tra il discorso di Monod e lo sviluppo evolutivo dell’arte e delle nostre facoltà percettive. E mi sono reso conto che anche in questi ambiti soggiacciono dei processi continui di assestamento di variabili caotiche e disperati sforzi classificatori.”

Qual è il rapporto fra caos e struttura nelle tue opere?

“Ho cercato di organizzare un ragionamento attorno a ciò che ho capito del discorso di Monod ed è per questo che ho scelto le macchine come alfabeto: la macchina, sviluppata nel disegno interno ai contorni delle opere, è un omaggio a Dada e al suo nume letterario, Raymond Roussel, ma è anche simbolo di razionalizzazione e programmazione del lavoro, decostruita però dal suo interno nello sviluppo caotico che le conferisco. E’ il disordine e l’inutilità di un cumulo di ingranaggi che crea la struttura chiara e riconoscibile del soggetto.”

Hai ritratto personaggi illustri agli inizi del tuo percorso: ce ne vuoi parlare?

“Agli esordi ho creato una sorta di galleria di “personaggi illustri”, se vogliamo alla maniera degli antichi studioli rinascimentali. Sono personaggi che si sono in qualche modo imbattuti nella tematica del caso durante le loro ricerche: da Mallarmée a Pollock, da Jarry a Demetrio Stratos.”

Qual è la tua tecnica?

“Utilizzo esclusivamente pennarelli e rapidograph. Alle diverse dimensioni delle punte assegno una certa gradazione di grigio, per cui più il tratto è ampio, più la campitura sarà scura. Ovviamente devo cercare di regolarmi anche sulla densità del groviglio di macchine, perché è anche da essa che dipende il tono.”

Nella tua opera Guest star come risolvi la relazione fra spazio e pittura? Puoi inoltre specificare meglio il tipo di allusione che fai al triangolo di Kaniza?

“Il triangolo di Kaniza è un esempio lampante di come, nella percezione visiva, la somma delle singole componenti non fa il totale dell’immagine. E’ una figura dove figura non c’è: ciò che esiste materialmente sono una serie di suggerimenti dati all’osservatore per comporre, attraverso il vuoto centrale, la forma di un triangolo.”

Come hai pensato la project room e che cosa volevi restituire all’osservatore?

“Volevo restituire uno spazio dove il visitatore potesse mettere in gioco i propri sensi. Su una città ripresa a volo d’uccello, l’osservatore torna a giocare con le forme della natura come da bambino, a creare animali, mostri e paesaggi con le macchie e i crateri lunari, con l’aggregazione e il dissolvimento delle nuvole, o con l’unione arbitraria di stelle in realtà tra loro lontanissime.”

Nel tuo lavoro qual è il rapporto fra opera e spettatore?

“Non solo nel mio lavoro, l’Opera si manifesta allo spettatore accrescendone la capacità ricettiva, il proprio bagaglio esperienziale. Ma sussiste anche un rapporto inverso, forse ancora più avvincente, per il quale è lo stesso osservatore a restituire all’Opera, attraverso la propria personale lettura, un significato ulteriore, una veste nuova, non necessariamente coincidente con la volontà dell’artista. Ognuno di noi è “ricognitore del visibile”.”

Info mostra

  • Fino 29 novembre 2014
  • White Noise Gallery via
  • dei Marsi 20/22, Roma
  • Contatti: 06 4466919; whitenoisegallery.it
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Claudia Quintieri, classe ’75, è nata a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Lettere indirizzo Storia dell’arte. È giornalista, scrittrice e videoartista. Collabora ed ha collaborato con riviste e giornali in qualità di giornalista specializzata in arte contemporanea. Nel 2012 è stato pubblicato il suo libro "La voglia di urlare". Ha partecipato a numerose mostre con i suoi video, in varie città. Ha collaborato con l’Associazione culturale Futuro di Ludovico Pratesi. Ha partecipato allo spettacolo teatrale Crimini del cuore.

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