Torture. L’Espressionismo Sociale nella fotografia di Ferdinando Gatta e Joseph De Felici

Torture, MiBAC, 5-11-2014 - mostra, ph. Paolo Di Pasquale

Nella augusta cornice della Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte, e precisamente nella Sala della Crociera al Ministero dei Beni Culturali, Roma, è ancora una volta ribadito con fermezza, da parte del mondo della Cultura, la propria profonda avversione alla prevaricazione e alla violenza dell’uomo sull’uomo. La mostra fotografica, che riunisce due serie recenti di Joseph De Felici e di Ferdinando Gatta, ha infatti un titolo pesante, Torture, che implica un forte atto di responsabilità da parte di chi affronta una tematica così dolente, e la curatrice Barbara Martusciello e gli altri relatori (Ida Barberio, BiASA; Marco Ancora), durante la tavola rotonda seguita all’inaugurazione, non hanno mancato di sottolineare, d’altronde, la portata umanitaria ed etica dell’operazione, tanto ben riuscita esteticamente. In effetti, le opere in mostra, stampate su PVC e sospese a mezz’aria con lo sfondo degli antichi volumi della biblioteca, autorevole e potente simbolo della Cultura, manifestano immediatamente il pregio della compattezza. Tutte scattate in un severo bianco e nero (con una impercettibile tendenza al giallino nei lavori di Gatta, e al verdino in quelli di De Felici), si alternano compenetrando i diversi approcci che le sostengono, in un dialogo che si fa discorso artistico e poetico unico, orgoglioso di un’autonomia creativa che tradisce una matrice comune, oltre la naturale intesa tra i due fotografi-amici. Apprendiamo infatti da loro stessi che, negli anni ’90, facevano entrambi parte di un collettivo fotografico denominato Fallimento agonista, un’entità agguerrita, politicamente contro ed esteticamente provocatoria. Alcuni esponenti furono anche invitati, a suo tempo, a una rassegna sul rapporto tra arte e fotografia Contaminazioni (al Museo Laboratorio dell’Università La Sapienza di Roma e a cura della stessa Martusciello e di Carlos Pilotto ). Dopo lo scioglimento fisiologico del gruppo, i due artisti sono rimasti in contatto e, di recente, ognuno per proprio conto, hanno elaborato queste due serie che da subito rivelarono, ai loro occhi, una convergenza espressiva, “quasi zen”, dice De Felici. Si confrontarono con la curatrice che, dopo aver respinto alcune proposte di un titolo unitario, come Sbarre o Prigioni invisibili, da lei ritenuti “troppo didascalici”, riconobbe fatalmente in Torture il nome sotto il quale quella costruzione a due assumeva il senso più profondo.

Potrà forse stupire che, nell’era della Comunicazione codificata nelle sue norme e perfino nei suoi processi, che siano venute prima le foto e poi il tema, ma questo si spiega con la preesistente e perdurante vocazione dei due ad elaborare comunque immagini di rottura, e anche con la precisa volontà, una volta verificato l’impatto del complesso di foto, di rendere il progetto più forte delle immagini stesse. Si diceva della compattezza e della complementarietà delle due serie, ed effettivamente le foto “colpiscono la rètina e il cuore”, come scrive Martusciello nel testo introduttivo, focalizzandosi ossessivamente su elementi diversi: De Felici, il più politico e r-esistenziale dei due mostra in una chiave indefinita delle mani protese ma perse tra sbarre e misteriose rifrazioni, un gioco duro di sfumature allucinate che circondano e serrano dita protese in cerca di una via di fuga, nel buio, e l’osservatore tende a percepirle come scarne, smagrite, quelle mani, ridotte così dalle privazioni, dalla prigionia e dalle ripetute offese materiali. In realtà si tratta di un surplus di suggestione, dato che in realtà De Felice rivela come le foto siano state scattate durante un suo soggiorno in Indonesia finalizzato a realizzareun reportage fotografico sul sud-est asiatico con delle macchine analogiche, quando lui, in condizioni psicofisiche predisposte alla meditazione, si avvide che in una piccola capanna si determinavano dei riflessi insoliti e spinse la sua compagna o dei giovanissimi ad allungare le loro mani in quella penombra, per poi fotografarli ripetutamente con una piccola Olympus. L’episodio potrebbe sembrare irrilevante se non si tenesse conto che una caratteristica dell’intero progetto è quello di evocare l’orrore senza mostrarlo, denunciando abusi ben noti, anche se quasi sempre impossibili da documentare, attraverso un abile lavoro formale. Mentre peraltro De Felici attribuisce titoli che valgono come altrettanti indici puntati contro le ingiustizie del mondo, come (tra gli altri) Gaza, come Guantanamo e Stefano Cucchi, Diaz e CIE” (Centri Identificazione ed Espulsione, in cui gli immigrati clandestini o richiedenti asilo vengono reclusi spesso per un anno o due, in deprecabili condizioni di semi-reclusione), Ferdinando Gatta è invece meno esplicito, lascia indefinita ogni collocazione storico-geografica assegnando solo dei Senza titolo alle sue opere; eppure i suoi cancelli o dettagli di cancelli in ferro suggeriscono il concetto di separazione, divisione, che si circonda già di per sé di una certa disorientante ambiguità: la chiusura è una pena imposta o viceversa un rifugio nelle strutture intime del sé che però può portare alla patologia? E chi si ritrova all’esterno è escluso dolorosamente da qualcosa, forse da un congiunto in prigionia, oppure vuol dire essere esposti alle rappresaglie di un potere autoritario che fuoriesce dai propri confini? Insomma, da che parte si è al sicuro? Di certo le punte di lance di metallo con cui in alto terminano le inferriate del cancello vengono percepite come letali, minacciose, ed anche un empio insulto levato come baionette contro il cielo di sfondo, su cui in molti scatti di Gatta si stagliano dei rami spogli di un qualche albero vicino, configurando un’immagine che mentre allude anche agli assalti contro la Natura, è anche di vaga ascendenza decadentista. Questo ci conduce ad osservare che Gatta in effetti ha un linguaggio più inclinato verso il lirismo, come testimonia il suo uso del flou, non solo elemento tecnico però, ma concettuale, mirato a richiamare uno stato dell’anima, quell’anima che, insieme al corpo, nei luoghi dove si perpetrano certi crimini viene spolpata.

La profonda sintonia tra i due fotografi però conduce il fruitore ad una reazione emotiva di sdegno verso tutte le forme di ingiustizia, da quelle che comportano la costrizione fisica, la violenza e la sopraffazione più bieca, a quelle più subdole e non meno odiose che incidono sulla dimensione psicologica degli esseri umani. Sono due volti dei movimenti oscuri che si agitano in profondità nell’uomo e che, quando prorompono, possono distorcere anche i vissuti quotidiani, la routine di tutti i giorni, in quelle famiglie in cui sottili giochi di potere esercitati con perfidia e cinismo rendono le mura domestiche una gabbia da cui è difficile uscire. “La tortura è marcata nella carne con ferro rovente, anche se nessuna traccia clinicamente oggettiva è più identificabile”, afferma Jean Améry (Hans Mayer) in Par delà le crime et le chàtiment (1966), e questa è una delle tante citazioni sul tema dei diritti umani con cui la curatrice Barbara Martusciello ha giustamente marcato l’attesa dell’evento sulla relativa pagina Facebook; questa citazione compare anche sul testo introduttivo, e la stessa curatrice prosegue: “(La tortura) è marcata anche quando è solo psicologica, quando, per piccola che sia, diventa reiterata e si fa condizione di vita”. L’uomo viene così privato della sua dignità, se non della sua integrità, l’umanità è piegata, e questo può avvenire per volontà di governi lontani che autorizzano e legalizzano il crimine, per le logiche fredde e depauperanti della finanza mondiale, per le spesso incontrollabili complicità dei media, per le sottili perversioni che destabilizzano la psiche tanto più perché provenienti da familiari da cui ci si aspetterebbe sostegno.

Questa mostra è una rappresentazione al limite dell’allegoria di un’umanità tradita da chi è fatto come noi e però pensa e agisce dando sfogo al lato oscuro. Del realismo, pur simbolico, delle foto di Gatta si può rivelare che trae origine dai tanti cancelli – quelli fotografati, appunto – che già da adolescente vedeva nella sua zona, quella dei Castelli Romani, sognando di varcarli, o di scavalcarli, segno di una naturale pulsione di Gatta ma anche universale, ad abbattere le barriere nel segno della curiosità verso la vita, che da adulti si scontra con le risultanze oppressive di una società malata. De Felici, invece, spiega uno dei suoi titoli, Schizofrenia, con la ferma intenzione di creare un rimando anche alle strutture psichiatriche così com’erano prima della legge Basaglia, ma anche, tanto per saldarsi alla più dolorosa attualità, a quanto sta accadendo in Grecia, in cui la morsa economica prodotta dalla recessione acuita dallo sbandierato rigore europeo sta conducendo così tanti individui al malessere psichico che da tempo gli ospedali non riescono a contenerli tutti ed i medici hanno ricevuto l’ordine di dimettere quanti più pazienti possibile, consegnandoli ad una vita di disperazione, senza argini verso il caos interno ed esterno.
Oggi, con questa mostra Ferdinando Gatta ha scavalcato i cancelli di quand’era bambino e si è messo idealmente in comunicazione con chi patisce torture, in ogni luogo. E Joseph De Felici( in attesa di una sua prossima mostra, Violence, con immagini piuttosto esplicite), utilizzando mani di donna e di bambini per realizzare le immagini di Torture, è riuscito a riunire in queste opere la denuncia della prevaricazione e lo spirito, in esse latente, di una rivolta gandhiana contro certi abomini.

Durante quella che è stata definita una Conversazione Inaugurale, anziché una accademica tavola rotonda, il direttore del CISI Marco Ancora ha inteso ricordare che al di là dell’impatto emotivo del titolo Torture, ciò che della tematica più sconcerta è insito già nell’etimologia del termine: l’atto coercitivo della torsione (anche psicologica, lo ribadiamo con forza) viene elevato a sistema da parte di chi, dagli Assiri ed i Persiani fino alla CIA, hanno previsto la tortura come deterrente “normale”. Ancora ha ricordato anche, come paradosso simbolo della capacità di certuni di distorcere la realtà a proprio piacimento, come perfino gli animali, in secoli relativamente più recenti, venivano torturati quando nei processi di sodomia venivano ritenuti responsabili di aver irretito il pastore che li aveva sodomizzati! Con il notorio scritto di Cesare Beccaria si arrivò poi all’abrogazione, e anche in tempi moderni le Nazioni Unite la cancellarono esplicitamente dalle pratiche considerate accettabili in tempo di guerra e pace, eppure a titolo personale aggiungiamo che si sa che nel corso di conflitti che hanno segnato la storia contemporanea, governi come quello americano tolleravano l’applicazione di torture ed anzi elaboravano protocolli di ricerca per affinarne particolari forme psicologiche come la famigerata “deprivazione sensoriale”. Il relatore ha poi accennato alla deforestazione e alla vivisezione, ammonendo che tutto ciò che facciamo di male all’ambiente è possibile che ci ritorni indietro in modo karmico. Inoltre, lo stesso sistema dei media ci propina con ritmo martellante – una tortura di diverso genere – immagini e vicende connesse con la morte e con l’assassinio, rendendo assurdamente familiari certe figure come “lo zio Michele”. C’è dunque tutto un condensato – ed una sedimentazione storica, diremmo – che confluisce in questa mostra ed in certa misura si sublima in cancelli con punte di ferro e mani, quelle mani che possono fare del bene o del male, e che in questo caso cercano di sfuggire al destino che qualcuno gli ha inflitto. È questo, secondo Ancora, “un espressionismo sociale”, definizione che è crasi di stile ed impegno. Una visione che induce al controllo di come si recepisce il male. Imparentata con Bacon ed i surrealisti, questa fotografia, oltre ad inchiodare, come di solito, al dato del visibile, raccoglie e vince la sfida di “trasmettere il dato interiore della richiesta di giustizia”. De Felici e Gatta, che hanno centrato quest’obiettivo, superano il ruolo del fotografo per guadagnarsi la qualifica di artisti.

La curatrice Martusciello, infine, con il suo intervento ha chiosato, da par suo, che l’arte non ha il potere di cambiare direttamente le cose, ma che mostre come questa possono contribuire a spezzare le catene a cui si riferiva Gilbert Keith Chesterton quando diceva “La guerra, nel suo significato moderno più ampio, è possibile non perché più uomini sono in disaccordo, ma perché più uomini sono d’accordo”, e possono creare con modi sommessi ma eticamente fermissimi una realtà partecipata che aumenti la sensibilità e la reazione contro violenze e soprusi di ogni tipo “ricordandoci che, nonostante tutto, una volta Davide riuscì a vincere su Golia”.

Info mostra

  • Joseph De Felici – Ferdinando Gatta | Torture | Mostra fotografica – A cura di Barbara Martusciello
  • Inaugurazione: mercoledì 5 novembre dalle ore 17.00 e sino alle ore 20 (munirsi di documento per accedere al Ministero e alla Mostra)
  • Indirizzo: BiASA-Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte -sala della Crociera: Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Via del Collegio Romano 27, Roma
  • Con i Patrocini di: Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
  • Direzione Generale per le Biblioteche, gli Istituti Culturali e il Diritto d’Autore
  • BiASA-Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Roma
  • Dal 5 al 28 novembre 2014 – Orari: lunedì 14:00-19:00; mercoledì 9:30 – 17:00; giovedì 9:30-13:30 Contatti: b-asar@beniculturali.it; 339.4423786
  • Lighting ed Exhibit Design: Paolo Di Pasquale – www.paolodipasquale.com
  • Ufficio Stampa: LAB_eventi&comunicazione – www.labeventicomunicazione.eu
  • Grafica e comunicazione visiva: KGfree | design for humans: www.kgfree.com
  • Sponsor tecnico: ethicatering.it
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il7 - Marco Settembre, laureato cum laude in Sociologia ad indirizzo comunicazione con una tesi su cinema sperimentale e videoarte, accanto all'attività giornalistica da pubblicista (arte, musica, cinema) mantiene pervicacemente la sua dimensione da artistoide, come documentato negli anni dal suo impegno nella pittura (decennale), nella grafica pubblicitaria, nella videoarte, nella fotografia (fa parte delle scuderie della Galleria Gallerati). Nel 1997 è risultato tra i vincitori del concorso comunale L'Arte a Roma e perciò potè presentare una videoinstallazione post-apocalittica nei locali dell'ex mattatoio di Testaccio; da allora alcuni suoi video sono nell'archivio del MACRO di Via Reggio Emilia. Come scrittore, ha pubblicato il libro fotografico "Esterno, giorno" (Edilet, 2011), l'antologia avantpop "Elucubrazioni a buffo!" (Edilet, 2015) e "Ritorno A Locus Solus" (Le Edizioni del Collage di 'Patafisica, 2018). Dal 2017 è Di-Rettore del Decollàge romano di 'Patafisica. Ha pubblicato anche alcuni scritti "obliqui" nel Catalogo del Loverismo (I e II) intorno al 2011, sei racconti nell'antologia "Racconti di Traslochi ad Arte" (Associazione Traslochi ad Arte e Ilmiolibro.it, 2012), uno nell'antologia "Oltre il confine", sul tema delle migrazioni (Prospero Editore, 2019) ed un contributo saggistico su Alfred Jarry nel "13° Quaderno di 'Patafisica". È presente con un'anteprima del suo romanzo sperimentale Progetto NO all'interno del numero 7 della rivista italo-americana di cultura underground NIGHT Italia di Marco Fioramanti. Il fantascientifico, grottesco e cyberpunk Progetto NO, presentato da il7 già in diversi readings performativi e classificatosi 2° al concorso MArte Live sezione letteratura, nel 2010, è in corso di revisione; sarà un volume di più di 500 pagine. Collabora con la galleria Ospizio Giovani Artisti, presso cui ha partecipato a sei mostre esponendo ogni volta una sua opera fotografica a tema correlata all'episodio tratto dal suo Progetto NO che contestualmente legge nel suo rituale reading performativo delle 7 di sera, al vernissage della mostra. ll il7 ha quasi pronti altri due romanzi ed una nuova antologia. Ha fatto suo il motto gramsciano "pessimismo della ragione e ottimismo della volontà", ed ha un profilo da outsider discreto!

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