Laura della Gatta balla da sola: L’intervista. Contributo di  Noemi Pittaluga

Laura della Gatta (Roma 1967) ha fatto parte con Pino Giampà (Svizzera 1965)  di un sodalizio artistico quando, nel 1991, contraendo il titolo di un intervento multimediale, Telematia, il duo assume il nome collettivo MATIA. Fino al 2009 il loro lavoro è indissolubilmente legato in una visione e analisi condivisa. Successivamente, gli artisti proseguono strade indipendenti e personali. Laura Della Gatta espone attualmente in una sua personale alla Galleria Gallerati, specializzata nel linguaggio fotografico. La mostra è curata da Noemi Pittaluga che ha intervistato l’artista romana. Di seguito il suo contributo.

Laura, voglio partire dalle basi del tuo lavoro, dal tuo passato artistico per parlare dell’attività presente. L’uso della tecnologia per il duo MATIA era, insieme con la pittura e con la performance, uno dei linguaggi maggiormente utilizzati. Oggi è un elemento che tu impieghi sempre nei tuoi video, ma non il vero protagonista delle tue opere. Ci potresti chiarire com’è cambiato il tuo rapporto con le tecnologie?”

“La costante che c’è sempre stata è la fotografia, fin dall’inizio. Fotografavo un’opera, una performance o un’installazione e poi subentrava il processo pittorico, anzi iperpittorico. Se inizialmente c’era solo il linguaggio fotografico e la stampa plotter, nella fase terminale del nostro lavoro insieme c’è stata anche l’introduzione del digitale, dell’immagine rielaborata ulteriormente al computer. Questo tipo di procedimento è rimasto così: l’aspetto fotografico che da una parte documenta, dall’altra diventa un focus di immagini di realtà particolari. Da poco sto anche riutilizzando l’iperpittura che appunto consiste nel dipingere sopra a una base fotografica seguendo una modalità iperrealista e che fui io a voler inserire nel gruppo. L’intenzione è, come in passato, veicolare attraverso l’azione pittorica un cortocircuito percettivo che porti l’osservatore a una fruizione non passiva.”

Stai utilizzando la pittura iperrealista anche per il progetto Extender?

“Extender è un progetto del quale vedo l’apertura ma non riesco a vedere la conclusione.”

Mi sembra quasi che l’utilizzo delle tecnologie digitali nelle opere passate avesse una carica maschile, che fosse in qualche modo sotto la diretta influenza di Pino Giampà con cui lavoravi, mentre tu hai dato sempre un contributo più intimistico, più coinvolgente emotivamente. Qual era la dinamica creativa e qual è quella di oggi?

“La carica maschile non va tanto riferita alla tecnica quanto al contenuto, quindi a che cosa veniva trasmesso, veicolato e immaginato. Oggi c’è un voluto cambiamento di tematiche e di soggetti legato inevitabilmente a un tempo storico differente. Con i MATIA c’è stato un lavoro legato a un mondo extraterreno, che pullulava di personaggi ambigui, provocatori. C’è stata sicuramente un’attenzione a quello che potrei chiamare l’ulteriore; cioè che non è maschile, né femminile. Producevamo senza dubbio immagini molto polemiche, aggressive, che erano mascherate da colori suadenti e da elementi apparentemente rassicuranti come i fiori. Quello su cui ora mi sto concentrando invece è l’aspetto dell’arte legato al potenziale di trasformazione, di metamorfosi. Voglio operare delle alchimie e nuove identificazioni.”

Infatti direi che le operazioni artistiche di oggi sono marcatamente legate alla femminilità e all’interiorità. Già il titolo del tuo progetto con il prefisso “ex” fa pensare a qualcosa che deve essere tirato fuori o a un pensiero che nasce da un dentro (potrebbe essere la nostra coscienza) e l’utilizzo del tessuto come materiale creativo mi sembra rientrare pienamente in quest’ottica. Non è un caso se già in precedenza con la tua performance Penelope a Rocca Paolina (2007, a cura di Barbara Martusciello) avevi messo in relazione il tessuto con le sue trame (che in quel caso il visitatore disfaceva e tu ritessevi) a una sensazione di domestico, di privato. È così?

“Sì. Sto lavorando sul concetto di archetipo, di immaginario, di simbolico. Sinceramente non so se definire il mio lavoro maschile o femminile, ma sicuramente è qualcosa di pensato anche se ha un forte aspetto manuale che è importante che dialoghi con le tecnologie. Vorrei mettere in atto una trasmissione del sapere attraverso l’opera e questa volta con un processo direi antropologico e non rifacendomi al fantascientifico.”

Quale necessità ti spinge a dare nuova vita a qualcosa di abbandonato o di inutilizzato?

“Il bisogno di un corpo materiale, di una sostanza tangibile. Tutto ciò che è immateriale necessita di un corpo e l’ho trovato nelle pietre e quindi nel minerale che per me rappresenta una sorta di ossatura. Avevo bisogno di tenere tra le mani qualcosa di pesante. Il mio lavoro è un’operazione che va contro la dematerializzazione della nostra società. Quando prendo in mano una pietra c’è ancora un peso, un qualcosa di solido per cui la mia volontà di mettergli una pelle così leggera, quella tessile, mi sembra un’azione delicata, ma allo stesso tempo intensamente energica. Il luogo del ritrovamento, che spesso viene immortalato nelle fotografie, è importantissimo; c’è infatti la volontà, seppur simbolica, di abbracciare lo spazio sia naturale, sia urbano. Anche con un gesto piccolo e un segno minimo si può avere la vertigine di percepire un senso di vastità.”

Qual è l’emozione che provi quando vai alla ricerca del tessuto che utilizzerai? E cosa ti fa capire che un masso trovato per terra è quello giusto da impiegare per un tuo lavoro?

“Qual è quello giusto? È come quando si incontra l’amore… questo è un mistero che non ha risposta. Rimane quel quid di assolutamente non traducibile. Quello che posso dire è che c’è un richiamo a delle corrispondenze che mi fanno risuonare delle corde associative interiori legate a un disegno, un colore, una forma. Quindi scelgo quando trovo qualcosa di affine o viceversa di repulsivo (nel senso che in quel caso opto per qualcosa di molto distante dal mio modo d’essere). In quel momento si tratta di fare conoscenza con qualcosa di veramente nuovo e vedere quest’incontro dove mi porta. Nei mercati c’è il caos e tutto quindi è un’ipotesi, è un groviglio di segni, di trame e una contaminazione tra molteplici tipi di tessuto di diverse provenienze.”

Pensi che l’arte debba semplicemente comunicare o debba anche avere un ruolo didattico per chi la guarda?

“Tutto quello che noi non conosciamo di solito lo rifiutiamo perché abbiamo paura che ci possa danneggiare o mettere in crisi. La maggior parte delle volte l’approccio per chi non è addetto al settore è casuale. Come artista mi sento responsabile di comunicare non solo alla cerchia ristretta di chi si occupa d’arte e ha gli strumenti per poter comprendere, ma anche a chi profanamente guarda. Per ogni opera c’è sempre un grado differente di lettura e questo è rimandato alla sensibilità della persona che fruisce. Dopo l’esecuzione dell’opera tra l’altro anche lo stesso artista può riconoscere dei significati che non aveva previsto durante la sua ideazione. L’intenzionalità per quanto riguarda il mio lavoro è legata alla comunicazione: in primis tra me e il mio inconscio e poi con l’idea dell’opera. Infine, porto invece la comunicazione all’esterno, al grado del tu, creando materialmente l’opera e cercando la leggibilità. In ogni caso non è possibile comunque escludere tutti i lati di ambiguità o dell’incompiuto, che trovo spesso affascinanti, presenti nel mio lavoro. Per trovare il modo di esprimere anche verbalmente un’immagine (e lo faccio quotidianamente perché insegno nelle scuole) bisogna avere una traccia, ma io sono ancora in una fase costante e necessaria di scoperta. Non parto da un’idea prefissata di che cosa sia l’arte; mi nutro anche dello scambio d’esperienza con l’altro e cerco di oggettivare ciò che vivo rendendolo pop. L’aspetto più ricco è il lavoro di socializzazione pregresso senza il quale non potrei creare nulla. Alla fine quello che si vede in un’opera è un’immagine o un oggetto e tutto quello che c’è stato prima mi ha consentito di arrivare fino a lì, di essere felice perché ho attraversato un percorso che per me è sacro. Nel progetto Le linee della vita ho realizzato delle fotografie degli oggetti raccolti da terra (che è un’altra azione quotidiana che io faccio) e ho meditato su quello che è il loro messaggio. La strada e l’andare… insomma direi che il movimento è fondamentale per i miei incontri anche con le pietre che invece rappresentano ciò che si è fermato, che si è congelato nel tempo, e quindi il ricordo.
Possiamo parlare di un’arte on the road e on my own. Infatti, le prime opere che ho creato le portavo in giro in una valigetta ventiquattr’ore…”.

Info mostra

  • Laura della Gatta | Extender System
  • A cura di Noemi Pittaluga
  • Galleria Gallerati
  • Via Apuania, 55 – I-00162 Roma
  • Tel. +39.06.44258243 – Mob. +39.347.7900049) – info@galleriagallerati.it
    Inaugurazione: giovedì 13 novembre – fino a mercoledì 17 dicembre 2014
  • ingresso libero
  • Orario: dal lunedì al venerdì: ore 17.00-19.00 / sabato, domenica e fuori orario: su appuntamento
  • Mezzi pubblici: bus: 61, 62, 93, 310; metro: linea B, fermata Bologna
    (da Piazza Bologna: 400 m lungo Via Livorno o Via Michele di Lando)
  • Ufficio stampa: Galleria Gallerati
  • Sito: www.galleriagallerati.it,www.prontaperstampa.blogspot.it
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