Interstellar e oltre il Tempo

Sicuramente ci sarà stato chi, sfuggendo ogni rischio di spoiler, si sarà approcciato alla visione del film Interstellar ricordando l’Interstellar Overdrive dei primissimi Pink Floyd, il suo riff discendente e la sua parte centrale free-form, e quindi attendendosi uno spiegamento di forze effettistiche ultrapsichedeliche a discapito, se si vuole, della sostanza narrativa, cioè privilegiando l’aspetto visuale in un viaggio che si suppone possa essere un’avventura dell’occhio, proprio come il cinema stesso. E invece, malgrado la tematica del viaggio tra le stelle sia ovviamente di primaria importanza nel nuovo kolossal di Christopher Nolan, il film non si pasce di sperimerimentalismo avanguardistico né autorizza paragoni incauti con le magnifiche sequenze della sezione Oltre Giove dell’indimenticabile capolavoro di Stanley Kubrick Odissea nello spazio. Piuttosto, la pellicola di Nolan si basa su teorie scientifiche, quelle del fisico teorico americano Kip Thorne; al tempo stesso, vanta, sul piano narrativo, un solido radicamento sulla vecchia, cara Terra, rappresentata però come un pianeta rimasto ormai povero di risorse, i cui abitanti per la maggior parte si dibattono tra le difficoltà di una vita rurale dura (il mais è rimasto l’unica fonte di cibo) che non ha alternative.

Uno dei buoni motivi per non mettere a confronto l’Odissea di Kubrick con il viaggio interstellare di Nolan è che nella nostra tanto nebulosa contemporaneità, le domande da porsi non sono più le stesse che nei decenni finali del Novecento: oggi non si pensa più tanto ad immaginare da dove veniamo e chi in realtà siamo o da dove verrà la minaccia esterna capace di distruggere il pianeta, ma più che altro a come impedire che uno sfruttamento intensivo ed irrazionale delle risorse metta in seria crisi la nostra sopravvivenza come specie. Siamo noi stessi, in altre parole, il nostro più grande nemico.

Questa realtà, portata alle estreme conseguenze, è quella che accoglie lo spettatore all’inizio del film, che, quasi con le cadenze ed i toni di un post-western, ci mostra un territorio avaro di risorse, come si è detto, proprio perché spazzato da un vento incessante portatore di ricorrenti tempeste di sabbia, e coltivatori induriti dal lavoro agricolo e tuttavia stretti in un forte vincolo di solidarietà anche se lontano dai sentimentalismi. Per la verità, Murphy, l’adolescente figlia del protagonista, vedovo, entra spesso in conflitto coi suoi insegnanti, a scuola, a proposito delle informazioni propagandistiche contenute nei libri di testo corretti (in cui ad esempio si smentisce l’allunaggio della missione Apollo, avvalorando la tesi del complotto, come in Capricorn One, un film del 1978 per la regia di Peter Hyams in cui però si parla di Marte e non della Luna), ma solo perché la ragazza ha la possibilità di consultare le pubblicazioni scientifiche che conserva a casa. E qui veniamo all’anima emozionale del film, al suo lato profondamente umano: il padre della giovane è un uomo costretto sì a fare l’agricoltore, ma solo per ripiego, essendo stato a suo tempo uno degli ultimi e più preparati piloti di mezzi astronautici. Il suo nome è Cooper, e forse non a caso, viene da pensare, dato che il 15 maggio 1963, uno dei primi 7 astronauti scelti dalla NASA, si chiamava Gordon Cooper, intraprese la missione Mercury-Atlas 9 e fu il primo astronauta ad aver orbitato la Terra per ben ventidue volte (la circostanza, insieme all’evoluzione tecnologica della NASA dal 1947 al 1963 in fatto di voli e viaggi spaziali, viene narrata nel film Uomini veri (1983) di Philip Kaufman, tratto da un romanzo del 1979). Ad ogni modo questo personaggio, all’inizio, è quello che fa da congiunzione tra lo scenario terrestre – proiezione nel futuro di quella Waste Land a cui Thomas Stearns Eliot dedicò il suo celebre poemetto in cui, raffigurando con stile modernista la civiltà europea dopo la prima guerra mondiale, esprimeva la sensazione di estrema inutilità provata dall’uomo in un mondo sterile in cui nulla ha più significato – e il vuoto interstellare. In esso egli, insieme ad altri, sarà inviato a cercare un nuovo spazio per la razza umana, un luogo che è l’analogo di quel Graal che ne La terra desolata di Eliot rappresentava, come già nel ciclo bretone, l’oggetto il cui ritrovamento salva dalla sterilità e dalla morte. La ricerca, nel mondo moderno di Eliot, però, non ha successo, a differenza di quella di Parsifal. In Interstellar come finirà la missione?

Intanto inizia con un importante sacrificio: Cooper si separa dalla sua famiglia lasciando in particolare l’inconsolabile figlia con la promessa solenne ma dalla improbabile realizzabilità, di un suo ritorno. Anche questo è in qualche misura riconducibile all’opera di Eliot, che attinge ampiamente ad opere e autori della classicità per sottolineare la perdita di senso accusata dalla società moderna e il suo scientismo. In Interstellar, viceversa, il meccanismo narrativo vive proprio del proficuo convergere tra nozioni e mezzi scientifici e profondità emotive risalenti a miti classici. In effetti, questo Cooper viaggiatore per vocazione eppure suo malgrado, non è che una riproposizione in chiave futuribile di quell’Ulisse che è alla base della cultura occidentale. E se restando sulla terra le sue cognizioni possono tutt’al più aiutare a sopravvivere sfruttando a fini agricoli ogni residua possibilità tecnologica (è da post-cowboy, lo ripetiamo, l’abilità con cui insegue col suo pick up un drone alla deriva asservendolo al suo computer portatile grazie ad una cattura al volo, con l’indice sul touchpad del suo portatile, che è l’analogo della presa al lazo di un puledro selvaggio), le sue competenze di eccellente pilota possono risultare determinanti per la sopravvivenza della specie, là nello Spazio. L’investitura per questa missione gli arriva però misteriosamente, dopo aver scoperto cioè una base segretissima della NASA (che ospita un gruppo di scienziati diretti dal dr. Brand, un sempre credibile Michael Caine) le cui coordinate sono risultate dall’analisi di segni lasciati da un fantasma o da una più scientificamente fondata anomalia gravitazionale nella stanza della figlia. Questo si rivelerà un indizio determinante per lo sviluppo del film, che comunque, nonostante l’ambiguità dalla NASA, ancora accaparratrice di finanziamenti statali nonostante l’ostilità dell’opinione pubblica, entra poi nella sua fase centrale, dal polveroso e ventoso e depauperato suolo americano, verso l’infinito, alla caccia di pianeti abitabili. Dalle stalle del Midwest alle stelle, insomma, tanto più che Matthew McConaughey, rispetto a quando lo abbiamo visto le ultime volte, ci sembra più maturo e con il volto più segnato e temprato.

Ad ogni modo, lo ribadiamo, l’impianto scientifico di fondo è attendibile, perciò l’immedesimazione nell’ennesimo eroe dell’Ultima Frontiera può essere più profonda del solito: in futuro pare che davvero potremo viaggiare alla ricerca di altri lidi nel Cosmo, si tratterà solo di trovare la propulsione adatta. Per il momento si segue sullo schermo l’avventura di Cooper osservando che, nel bozzolo della stazione orbitante Endurance in viaggio, l’equipaggio non pare dei più infallibili malgrado Anne Hathaway si atteggi all’inizio a fredda esecutrice del programma (che si compone di un piano A e un alternativo piano B), e refrattaria a qualunque velato approccio anche solo umanizzante da parte del suo pilota, salvo in seguito dare spazio anche lei a personalismi, e in modo ben più discutibile, forse…

In questo contesto microcosmico, che appare sempre così fragile, circondato dall’immenso, assediante vuoto circostante, forse stavolta sono proprio i robots, dalla forma improbabile a blocchi che ruotano uno accanto all’altro, sorta di monoliti modulari ambulanti, i più affidabili e capaci di sdrammatizzare, in virtù delle loro impostazioni, settate sul 70% di umorismo e 90% di sincerità, percentuali comunque customizzabili a seconda delle preferenze dell’equipaggio.

A bordo si discute su quale dei pianeti già preventivamente visitati da altri esploratori della missione debba essere scelto, e ciò porta a dissidi tra i membri della spedizione e soprattutto alla spiegazione più affascinante tra quelle, piuttosto difficili per i non specialisti, disseminate nel film: quella su come si possono congiungere due punti nello Spazio estremamente lontani piegando lo spazio come fosse un foglio di carta e poi praticando un buco e facendovi passare una matita, metafora dell’astronave che attraversa il corridoio metadimensionale.

Gli esperti avvertono che in realtà ancora oggi si ritiene che sia altamente sconsigliabile entrare in un buco nero, perché il rischio è quello di non uscirne affatto, come suggerisce anche il nome affibbiato da Nolan e dal suo fratello sceneggiatore a questo black hole in particolare: Gargantua, evidente omaggio alla letteratura francese, in particolare a Gargantua e Pantagruel di Francois Rabelais (prima metà del Cinquecento) e ad un personaggio di taglia gigantesca sul cui nome è stato forgiato un aggettivo sinonimo di  smisurato e insaziabile, a sua volta derivato dal sostantivo spagnolo garganta, ovvero gola. Tuttavia, quando la stazione orbitante, in uno stadio avanzato della sua perlustrazione, lambisce il warmhole, il tunnel spazio-temporale che consente il viaggio nel tempo (secondo teorie ancora non dimostrate), la penetrazione di quella soglia sferica (!) porta in effetti a sequenze vertiginose di grande impatto visivo e che dovrebbero darci un’idea delle undici dimensioni di cui si comporrebbe la realtà secondo l’attuale teoria delle Stringhe. Ciò che accade nei pianeti della nuova galassia in cui approda la stazione attiene allo sviluppo della storia oltre che alla sua spettacolarità (formidabile la scena con le ondate mostruose su un pianeta interamente ricoperto dalle acque), ma di certo tra le conseguenze del viaggio pentadimensionale non si può non accennare all’effetto melodrammatico dal punto di vista emotivo dei videomessaggi che giungono dalla Terra in un tempo completamente sfalsato: se vi sono pianeti in cui ogni ora vale sette anni sulla Terra, ogni scelta in merito alla rotta è connessa al legame affettivo con chi è rimasto a casa, visto invecchiare, nelle immagini dei messaggi, di decine di anni, fino a perdere la speranza di ritrovare i propri cari ancora vivi al ritorno. Ma ci sarà un ritorno? E se poi il lato oscuro dello spirito umano viene a manifestarsi, nell’alternanza delle scene, sia tra gli appartenenti alla missione (cruciale anche se secondario, il ruolo affidato a Matt Damon) sia tra chi è ancora sulla Terra, diventa evidente che la missione, volta ad una forse irrealizzabile conquista di spazio e nello Spazio, si rivela essere una definitiva perdita di Tempo. E intanto sulla Terra le condizioni di vita peggiorano e Murphy, adulta ormai (una intensa Jessica Chastain), lavora per la NASA come scienziata…

Mentre però in Moon di Duncan Jones o in Solaris di Tarkovsky i messaggi dalla Terra portano un dolore cui si può solo restare ricettori passivi o aumentare la propria consapevolezza, in Interstellar l’eroe, superata la fase più convulsa e meno immediatamente comprensibile del film, si sacrifica ancora una volta per permettere alla sua collega Amalia (Anne Hathaway) di proseguire la missione sfruttando il campo gravitazionale del buco nero, e si ritrova preso nelle maglie spazio-temporali di quest’ultimo e cerca in qualche modo di interagire con esse e con il linguaggio della gravità, cercando di dare un senso concreto, per lui, ai dialoghi scientifico-barocchi sparsi nel film e conquistarsi così un ritorno cosmico-acrobatico tra mille distorsioni di grande forza visionaria. Lo accompagnerà, in qualche modo imperscrutabile, uno dei due robot, Tars, che col suo nome da tassa sui rifiuti ed il suo corpo derivato da materiali riciclati si rivelerà oltre che spiritoso, come detto, un fedele e utile alleato.

Il finale, che non riveliamo – ma attenzione al fotogramma su cui appare, in apertura, il titolo del film – di sicuro raccoglie e riscatta anche la ambizione secondo alcuni pretenziosa di una macchina narrativa stracarica come l’Endurance.

Nolan ha già dimostrato di non essere per la semplicità e la leggerezza, ma per la ricchezza e l’inventiva. Il potente afflato spirituale che sospinge Cooper viene visto, in filigrana, nella lirica del grande poeta Dylan Thomas citata nel film, ma c’è stato chi, molto acutamente ha osservato che un riferimento al nostro Dante, e a “l’Amor che move il Sole e l’altre stelle” sarebbe stato ancora più appropriato (ma forse ancora più trasparente). In definitiva Nolan ha realizzato con Interstellar un prodotto complesso ma anche in buona misura rigoroso nella sua componente scientifica, e al tempo stesso accattivante e pregno di umanità senza essere melenso, con passaggi contemplativi alla Terrence Malick (si pensi a I giorni del cielo). La fuga dalla terra desolata conduce dunque in un corridoio escheriano, e non vi diremo di più. Ma se nell’opera letteraria sopra citata di Eliot la verità etica o perfino religiosa resta inafferrabile, bruciata dalla futile rapacità dei tempi moderni, forse Cooper riuscirà come Parsifal a trovare il Graal, e Nolan – come Faulkner o Steinbeck, altri due autori della Lost Generation come Eliot – può idealmente farsi interprete, nella prima parte, di una solidarietà narrativa nel caso suo del cinema e non della letteratura, verso i terrestri vittime della crisi (alimentare globale, in questo caso) e sfruttare l’immaginario fantascientifico e le più avanzate teorie astrofisiche in funzione di ansie contemporanee prefigurandone eventuali sviluppi.

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il7 - Marco Settembre, laureato cum laude in Sociologia ad indirizzo comunicazione con una tesi su cinema sperimentale e videoarte, accanto all'attività giornalistica da pubblicista (arte, musica, cinema) mantiene pervicacemente la sua dimensione da artistoide, come documentato negli anni dal suo impegno nella pittura (decennale), nella grafica pubblicitaria, nella videoarte, nella fotografia (fa parte delle scuderie della Galleria Gallerati). Nel 1997 è risultato tra i vincitori del concorso comunale L'Arte a Roma e perciò potè presentare una videoinstallazione post-apocalittica nei locali dell'ex mattatoio di Testaccio; da allora alcuni suoi video sono nell'archivio del MACRO di Via Reggio Emilia. Come scrittore, ha pubblicato il libro fotografico "Esterno, giorno" (Edilet, 2011), l'antologia avantpop "Elucubrazioni a buffo!" (Edilet, 2015) e "Ritorno A Locus Solus" (Le Edizioni del Collage di 'Patafisica, 2018). Dal 2017 è Di-Rettore del Decollàge romano di 'Patafisica. Ha pubblicato anche alcuni scritti "obliqui" nel Catalogo del Loverismo (I e II) intorno al 2011, sei racconti nell'antologia "Racconti di Traslochi ad Arte" (Associazione Traslochi ad Arte e Ilmiolibro.it, 2012), uno nell'antologia "Oltre il confine", sul tema delle migrazioni (Prospero Editore, 2019) ed un contributo saggistico su Alfred Jarry nel "13° Quaderno di 'Patafisica". È presente con un'anteprima del suo romanzo sperimentale Progetto NO all'interno del numero 7 della rivista italo-americana di cultura underground NIGHT Italia di Marco Fioramanti. Il fantascientifico, grottesco e cyberpunk Progetto NO, presentato da il7 già in diversi readings performativi e classificatosi 2° al concorso MArte Live sezione letteratura, nel 2010, è in corso di revisione; sarà un volume di più di 500 pagine. Collabora con la galleria Ospizio Giovani Artisti, presso cui ha partecipato a sei mostre esponendo ogni volta una sua opera fotografica a tema correlata all'episodio tratto dal suo Progetto NO che contestualmente legge nel suo rituale reading performativo delle 7 di sera, al vernissage della mostra. ll il7 ha quasi pronti altri due romanzi ed una nuova antologia. Ha fatto suo il motto gramsciano "pessimismo della ragione e ottimismo della volontà", ed ha un profilo da outsider discreto!

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