Un Re, nato tale, che resta. In altra forma: Renato Mambor gli anni Sessanta, oggi e domani

Renato Mambor

Un ultimo, intenso, affettuoso saluto a Renato Mambor, Re-Nato, uno dei protagonisti di quell’epica – ormai davvero ci appare così – stagione felice della sperimentazione artistica italiana, e in particolare romana, che ha avuto gli anni ’60 come periodo storico privilegiato, campo di rivoluzione anche creativa, e Piazza del Popolo come fulcro urbano; e che ha visto nell’eliminazione “dell’io dal quadro” e nel superamento dell’Informale il cuore della ricerca di un battaglione di giovani sovvertitori dei codici dei padri, che si è mosso all’unisono, ognuno con il proprio segno, la propria voce e in autonomia seppure condividendo amicizia, amori, visioni, concettualità. Cesare Vivaldi, sulla rivista “Il Verri” definì tale fenomeno, sinergico e amicale, “giovane scuola di Roma”. Che scuola non fu mai.

Schifano, Angeli, Festa, Pascali, Tacchi, Lombardo, Fioroni, Ceroli, Ricciardi, ma anche Marotta, Rotella, Mauri, Patella, Baruchello, Boetti, Prini, Mattiacci, Uncini e Gruppo 1, Baruchello, Bignardi, diversamente De Dominicis, Cintoli etc. e, appunto, Mambor sono stati i paladini di questa avventura.

Sempre attivissimo e mai stanco di sperimentare, si è spento a Roma nella notte, a settantotto anni appena compiuti nel giorno di Santa Barbara (il 4 dicembre). Da molto non stava bene eppure stava bene, nel senso che la sua verve, umana e artistica, e la gioia di vivere non lo hanno mai abbandonato. Sempre attento alle cose dell’arte e dell’esistenza, la sua carriera professionale è stata sino all’ultimo dinamica.

Classe 1936, Renato nasce a Roma. Sua madre Vittoria e suo padre Pietro si trasferiscono molto presto con Renato e Ornella, la primogenita, ad Asmara. Qui il capofamiglia apre un distributore di benzina. Quando Renato ha circa sette anni, la sua famiglia, a causa del conflitto bellico, è costretta a rientrare in Italia e con il risarcimento per i danni di guerra, il padre prende in gestione un nuovo distributore di benzina in Via Tuscolana e si stabilisce con tutti i familiari in un appartamento a Viale delle Milizie, proprio all’angolo di quella strada che Renato ricorda in una sua significativa opera fotografica del 1969 – titolata 1945 La fontana di Via Barletta – dove rivive la memoria di quei difficili anni bellici.

La famiglia si trasferisce in Via Tuscolana e nell’appartamento c’è un terrazzo dove il giovane Mambor prova il polimaterismo dei suoi primi lavori pittorici, tra il 1958 e il 1959, a volte insieme a un giovane collega, da poco conosciuto: Mario Schifano. Espongono insieme, la prima volta, nell’ottobre del 1958 al Premio Cinecittà, con  altri colleghi e poi amici; il Premio – che porterà scompiglio nel pubblico avvezzo ad arte più consueta – è organizzato dalla Sezione del Partito Comunista del quartiere e per iniziativa del fratello di Franco Angeli, Otello. Si confermano e nascono sodalizi: oltre che con Schifano, con Tacchi, Festa, Lo Savio, Lombardo, Uncini, Pascali…

Accanto alla sua ricerca nell’ambito dell’arte visiva, Mambor porta avanti un particolare interesse per il Cinema che in questi anni vede le produzioni italiane in grande espansione e Roma eletta, in questo senso, già dagli anni ’50, Hollywood sul Tevere. Studia anche recitazione e ha varie esperienze in questo settore. Farà presto un grande incontro. Al suo distributore si fermauna macchina a bordo della quale siedono due uomini. Uno dei due nota Mambor, gli chiede se sa ballare e, alla sua risposta affermativa, lo scrittura per un film che sta girando a Roma in quei primi mesi del 1959: l’interlocutore è Federico Fellini e il film è La dolce vita. Per questo progetto cinematografico servono molte comparse e tanti figuranti. Ranato sarà uno di loro, e si fa notare. E’ longilineo, bello, un po’ guascone; l’amico artista Remo Remotti – personaggio singolare nel panorama artistico soprattutto romano, anche poeta e attore – che è nel mood dell’arte degli anni Sessanta e Settanta, instaurando con  Mambor una lunga amicizia, disse di lui:

Renato è (…) alto un metro e novanta, anche per questo é stato sempre un diverso, uno appunto che guarda le cose distrattamente dall’alto (…)”

La carriera attoriale di Mambor, parallela a quella nell’arte visiva, è abbastanza lunga: I Ragazzi del Juke Box – 1959 – di Lucio Fulci; Urlatori alla sbarra – 1960 -, ancora di Lucio Fulci, dove conosce Chet Baker di cui raffigura, alla sua maniera, quella dei Ricalchi, la tromba;  Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi, girato nel 1960 da Mario Mattioli; Il rossetto (1960), primo film di Damiano Damiani; alcuni spaghetti-western; Il gobbo del Quarticciolo, di Carlo Lizzani dove, nella parte di un malavitoso – in gran parte tagliata in fase di montaggio – recita con Pier Paolo Pasolini; Cronaca del 22 etc. Possiamo considerarla una passione, una necessità economica ma, anche, una vera e propria iniziazione all’introspezione e alla comunicazione dell’interiorità esteriorizzata attraverso il corpo; questa esperienza, debitamente controllata, confluisce, in anni successivi, nel suo lungo impegno nel teatro, nell’esperienza Trousse e, in qualche misura – e con le dovute differenze – , ha un’importante parte anche nel suo coinvolgimento con la pratica buddista in anni successivi.

Mi diceva:

“Tu sei buddista dentro. Fidati. Io mi ci sono affidato, ed è così che sono vivo…”

Il 31 gennaio 1959 si inaugura la sua prima importante mostra: Mambor Schifano Tacchi (Mambor è indicato ancora con lo pseudonimo Mambo) alla galleria di Liana Sisti, l’Appia Antica di Roma, efficacemente condotta da Emilio Villa. Reputo questa esposizione una delle prime ricognizioni espositive sulla situazione emergente romana e, nello specifico, su un nucleo di pionieri affini tra loro – e considerati, poco dopo, parte di un nuovo gruppo, come abbiamo indicato – che rappresentano idealmente l’inizio di una stagione artistica e culturale romana di avanguardia imminente.

Nell’edizione del 1960 (3 giugno) del Concorso a Premi di Incoraggiamento ad Artisti – contest voluto da Palma Bucarelli, attiva direttrice della Galleria d’Arte Moderna di Roma e mossa da un desiderio di svecchiamento, e da Maurizio Calvesi, storico e critico d’arte che segue il lavoro dei tanti emergenti – Mambor partecipa con tre opere e vince con un olio su tela del 1958-1960 della stessa serie esposta l’anno prima all’Appia Antica.

Continua a sperimentare la sua pittura, che non riscuote facilmente successo commerciale, come avviene anche per il lavoro dei suoi amici. Ma non demorde e morde la vita, in questo periodo in compagnia di Paola Pitagora che ne segue la parabola artistica in modo sensibile e attento e sarà sua amica per la vita.

Renato porta avanti la sua volontà di fare tabula rasa: è, questo, un atteggiamento condiviso dai suoi sodali e colleghi ed è anche dell’avanguardia letteraria dei poeti che in questi anni collaborano o collaboreranno con l’arte. Balestrini, Sanguineti, Guglielmi, Villa, Sandro Penna..:. tra artisti e poeti allora c’era “una frequentazione, una solidarietà, una complicità intellettuale molto forte” (Claudio Parmiggiani , in: D. Lotta, Claudio Parmiggiani. Elogio della Polvere, in  “Flash Art”, Milano, n. 253, agosto-settembre 2005).

Dalle opere-trappola per la luce (i legni) allo studio di oggetti che sono leggibili anche come immagini convenzionali (appunto, le mollette per i panni), ai Segnali stradali il passo è breve. Mambor ora inizia a considerare altre componenti della quotidianità scegliendo, questa volta, qualcosa di bidimensionale. Nel 1961 nasce dunque la serie dei Segnali stradali pittorici che rimandano all’idea di informazione codificata e oggettiva e quindi garantendo il distacco emozionale dell’artista dalla sua opera. Il riduzionismo attuato da Mambor ha una matrice già mentale che si precisa nei successivi Passaggio pedonale, Uomini statistici/Sagome statistiche e Timbri. Ora campeggia la presenza iconica dell’Uomo, segno-segnale, linguaggio basato su un’immagine preesistente che egli porta nel campo dell’arte. Standardizzazione, la connessa oggettività, l’azzeramento dell’emozionalità sono gli ingredienti della sua ricerca. Mambor può sembrare molto Pop(Art) ma qui non lo è:  modifica la sua sagoma statistica rispetto all’originale di partenza, la riambienta, la reimpagina attraverso un’allusione prospettica e un arricchimento percettivo molto europeo, poco americano.

Intorno al 1963 Mambor si trasferisce in una traversa di Piazza Campo dei Fiori, con Cesare Tacchi. In questo nuovo studio sviluppa la sua ricerca sulla spersonalizzazione e sull’analisi oggettiva moltiplicando e in un certo senso serializzando le Sagome statistiche attraverso la loro trasformazione in un timbro, dalla matrice di gomma, impresso con inchiostri su tela grezza e su carta.

Maurizio Calvesi, nel suo testo Franco Angeli e Renato Mambor del 1991 (galleria Ducale, Modena, maggio 1991) inserisce quest’uso, che Mambor fa, di immagini riportate, all’interno di una “poetica del segnale (…) riformulata in una dolce e sensibile pittura (…)” che, abbiamo avuto modo di vedere, è molto più analitica che poetica,molta più incisiva che “dolce”. Se di dolcezza possiamo parlare, quella è del Renato-persona, che ho conosciuto io… ma questa è un’altra storia. La sua – siamo ora al 1964 – , lo porta a un nuovo trasferimento: nel quartiere romano di Prati, in Via Tacito, ove divide un grande appartamento con Tacchi e Claudio Previtera. Vi resta  sino alla partenza per gli Stati Uniti.

Ora la sua ricerca si orienta sempre più verso un “costante processo di raffreddamento delle idee” (Pitagora, Paola, Fiato d’artista. Dieci anni a piazza del Popolo, Sellerio, Palermo, 2001, p. 71); la frase simbolo di molti artisti di questa generazione è, infatti:

“freddi nell’arte, caldi nella vita”

Già, perché a poca distanza l’uno dall’altro, nel 1963 sono scomparsi prematuramente Piero Manzoni e Francesco Lo Savio (quest’ultimo suicida a Marsiglia); nel 1964 Tancredi (anch’esso morto suicida a Roma) e nel settembre del 1968 Pascali (dopo un gravissimo incidente in moto avvenuto ad agosto nel sottopassaggio del Muro Torto a Roma).

E’ all’inizio di questo 1964 che avviene un’importante svolta nel lavoro di Mambor. Egli inizia, infatti, a interessarsi ai disegni semplificati dei rebus enigmistici che lo porteranno ai successivi Ricalchi realizzati nel 1964/1966. Il suo interesse non è rivolto alla rappresentazione di realtà oggettuali ma al loro essere equivalenti iconici del nome convenzionalmente accettato per quella immagine. Così, dipinge una specie di vocabolario iconico. La data è importante, come questi quadri che si inseriscono in un’ottica (ma pionieristica!) Concettuale, e incanalati verso ricerche sull’identificazione tra arte e linguaggio portate avanti tanto rigorosamente da Kosuth e concentrate sui problemi del riferimento e della semantica, “dei significati, dei lessismi (…)” e della sua proposta di “(…) squarci di vocabolario (…)” (Barilli, Renato, L’Arte Contemporanea da Cezanne alle ultime tendenze, Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 1984, p. 319). Per spiegare le sue motivazioni teoriche ed evitare ulteriori fraintendimenti, che ci furono (la critica collocò questa produzione nell’ambito Pop o nella scia Metafisica) Mambor scrive, tra l’altro, una specie di testo programmatico in forma di lettera (sorta di scambio epistolare con V. Ricciuti) dal titolo: R. Mambor, V. Ricciuti, Due lettere, pubblicato sulla rivista diretta da Leonardo Sinisgalli “La botte e il violino” nel 1965: lo stesso anno della realizzazione ufficiale dei Ricalchi (che però, evidentemente, sono iniziati prima). In questo modo è promosso da Mambor quel “passaggio dall’arte alla cultura” sostenuto da Kosuth – artista la cui sperimentazione è in assoluto più vicina a questa di Mambor – e palesato nel suo notissimo ciclo di interventi Art as idea as idea che data 1969, anno della pubblicazione del saggio Art after Philosophy (uscito in tre parti su “Studio International”, ottobre, novembre e dicembre 1969), testo-chiave del Concettuale. I Ricalchi traggono linfa da un più generale contesto di studi affrontati e approfonditi in questi anni: da Umberto Eco, per esempio, e nel 1964, su “Il Marcatrè” da Emilio Garroni. Spetta a Marisa Volpi (ma solo nel ’68) un’efficace e calzante spiegazione dei Ricalchi in un suo testo Mambor più e meno, dove ha una straordinaria intuizione citando il racconto di Borges, Lo Zahir, che presenta incredibili analogie con il lavoro dei Ricalchi.

Mambor, dunque, porta avanti scelte artistico-pittoriche denotative e sulla convenzionalità della designazione dell’oggetto.

Il 21 aprile 1965 ha la sua personale alla Tartaruga di Plinio De Martiis, dove espone Ricalchi  dei quali scrive, tra l’altro, la Volpi, pubblicando, Gli accostamenti di Mambor, sul numero di giugno del 1966 di “Catalogo”, la rivista della galleria; dopo altre importanti mostre, prestigiosi premi, incontri, scontri, passioni, nuovi sodalizi, alla fine del 1965 Mambor, proseguendo nella sua ricerca concettualista di designificazione della rappresentazione oggettiva, realizza i Cubi mobili sulle cui facce dipinge, con la stessa prassi usata per realizzare i Ricalchi, immagini del suo repertorio di vocaboli iconici; le figurazioni si possono costruire e decostruire assemblando i cubi e ruotandone le facce come nel gioco dei bambini chiamato Cubi o Cubi magici. Alcuni di questi Cubi Mobili sono esposti, con Ricalchi, il 14 gennaio 1966 nella doppia personale con Pino Pascali alla Libreria-galleria Guida di Napoli traghettata da Topazia Alliata. Achille Bonito Oliva, già poeta visivo e artista d’avanguardia ai suoi esordi curatoriali, presenta entrambi gli artisti discutendone nel “(…) piacevole dibattito con un pubblico raffinato di intellettuali (…)” (Mambor, Renato, Fellini richiese: sai ballare?E così partecipai alla Dolce Vita, in “La Repubblica”, Roma, 19 giugno 2003.) che si tiene in concomitanza con la mostra.

Seguono Trasparenti-Scollamento, Diario ’67, Diario degli amici,  Filtro, ove si palesa la coerenza di Mambor nel testimoniare la consecutività dell’atto del dipingere. Il suo procedere di Mambor è compreso in quest’idea dell’arte che esibisce il progetto artistico e lo analizza nelle sue diverse fasi e componenti.

Come annota giustamente Calvesi (in: Cronache e coordinate di un’avventura, in Siligato, Rossella – a cura di -, Roma anni ’60 al di là della pittura,  Carte Segrete, Roma, 1990, p. 23) sono, quelli, anni nei quali:

“dopo la ricerca di Paolini vertente sugli strumenti della pittura (il disegno, la tela, i telai, i barattoli di colore) e le parallele iconografie di Jasper Johns (che presenta anch’egli telai e barattoli nominando i colori, ma senza la programmaticità di Paolini) s’affaccia all’orizzonte internazionale il concettualismo di Kosuth, con i suoi confronti di oggetto-immagine-parola. In questo clima d’analisi proto-concettuale Mambor si muove con indipendenza”.

Gli impegni espositivi di Mambor in questo 1966  si susseguono accogliendo un fondamentale, formativo soggiorno a New York. La città americana è una tappa imprescindibile per tutti quelli che, allora, desiderano avere un diretto contatto con ambiti dell’arte, della cultura, della creatività più avventurosi e, al tempo stesso, con una nuova attenzione all’affermazione mediale, internazionale e di mercato. Chiuso il suo studio a Roma, Mambor si trasferisce quindi per alcuni mesi negli States con Mario Ceroli a cui si aggiunge, poco dopo, Cesare Tacchi che espone in una collettiva alla galleria Bonino di New York. Mambor frequenta, in questi mesi, anche alcuni artisti italiani con cui ha rapporti di amicizia, tra i quali Baldo Deodato, Claudio Cintoli e Paolo Buggiani (da una mia intervista a Paolo Buggiani, Isola Farnese, Roma, maggio 2004) che vivono lì, e con altri, che vi si sono recati per un breve periodo, come Paolo Icaro e Festa.

“Tornato, feci subito un’opera nel 1967 che titolai Di ritorno dall’America, uno Scollamento con l’immagine di un palazzo di Roma che in qualche modo rappresentò una sorta di riconciliazione con una città, che a un certo punto mi era parsa troppo stretta, e con i miei amici che avevo giudicato, per un momento, troppo lontani…”
(da una mia intervista a Mambor, Roma, luglio 2004).

In questi mesi si concentra su Diario, iniziato a Roma e terminato a Genova, città dove poi si trasferisce alternando soggiorni nella vicina Calice Ligure – dove lavorerà ed esporrà, frequentando la comunità artistica promossa da Emilio Scanavino – e brevissimi ritorni a Roma. Questo nuovo lavoro è apprezzato anche da Alan Solomon che si trova nel nostro paese per una ricognizione sull’arte contemporanea italiana e che sceglie l’opera – ancora abbozzata – per rappresentare Mambor nella mostra Young Italians, inaugurata molti mesi dopo (gennaio del 1968), al Boston Institute of Contemporary Art, esposizione che Sergio Lombardo ricorda foriera di polemiche da parte dell’establishment politico e culturale di allora, sia americano sia italiano (Lombardo, Sergio, L’avanguardia difficile, Lithos, Roma, 2004,  p. 45).

Diario 67 è costituito da pannelli verticali che restituiscono ognuno, visualizzandoli, elementi e tecnica del dipingere: la materia, il colore, il linguaggio, il tempo, lo spazio etc. Ognuno di questi moduli seriali è pensato come una pagina – da qui il titolo dell’opera, appunto  dove l’artista annota, quasi come in una sorta di appunti giornalieri, tutto quanto riguarda gli ingredienti che servono nel lavoro dell’artista. Se è nuovamente palesata la progressione temporale dell’atto del dipingere – nella scansione in singoli pannelli conclusi – già resa con Scollamento, questo nuovo lavoro è però caricato da una particolare attenzione nei confronti del processo alla base di azioni e fenomeni (che riprende a fare, con più evidenza, alla fine degli anni Ottanta nelle serie Funzioni e Processi di Formazione) che in questo caso riguarda il fare arte. Inoltre, la dimensione assolutamente privata, segreta, personale del diario, suggerita dal titolo dell’opera, è qui violata e sovvertita: è infatti possibile modificare l’ordine degli appunti dall’esterno. Il pubblico, alleggerita la sua posizione di spettatore, diventa uno degli attore dell’opera interagendo con essa (come ha già potuto fare con i Cubi mobili) spostando e ricomponendo a piacere la serie dei pannelli modulari. Tra questi, una quindicina formano  Diario degli amici: in collaborazione con altri artisti  tra i quali Alighiero Boetti, Mario Ceroli, Paolo Icaro, Eliseo Mattiacci, Fabio Mauri, Pino Pascali, Emilio Prini, Remo Remotti, Cloti Ricciardi, Cesare Tacchi, Emilio Scanavino che intervengono sui singoli pannelli o sono citati attraverso gli elementi tipici del loro lavoro: materiali, colori, tecnica, poetica e linguaggio peculiari. Anche in questo caso, ingredienti e processo del fare arte sono al primo posto nella sua analisi che si fa complessa in quanto sviluppa una struttura di partecipazione. Diario, come abbiamo detto, è terminato a Genova nel 1967. Un articolo dello stesso anno (Arcuri, Camillo, Paola nei carruggi: amore più sperimentalismo, in “Il giorno”, 20 novembre) fa un interessante riferimento a questo lavoro come a un “(…) quadro che non finisce mai (…)”, formato da tanti pannelli che Mambor “(…) via via compone e comporrà anche in futuro (…)”, proposto “(…) alla Bertesca, la galleria di punta della città (…)” dove, infatti, è presto esposto e presentato da Germano Celant che invita Mambor in fondamentali mostre sull’Arte Povera: Arte Povera e Im Spazio alla Bertesca (con Bignardi, Ceroli, Icaro, Kounellis, Mattiacci, Pascali, Tacchi tra gli altri), nel settembre 1967, e Collage 1, all’Università, che è documentata come la seconda esposizione sull’Arte Povera. Nel testo della prima mostra, Celant, ora riferendosi specificamente a Diario di Mambor, scrive:

“(…) Ed ecco le impagine di Mambor. Paziente e meticoloso sterilizzatore di forme e di gesti creativi.”

Diario mette inoltre in luce una peculiarità di Mambor che ritroviamo nella sua ricerca successiva (specialmente nell’Evidenziatore, ma anche in Trousse): la perdita delle connotazioni di prodotto ultimato dell’opera che diviene così – per citare, non a caso, Umberto Eco – aperta attraverso un work in progress che porta in sé il recupero del gioco. Ma in che versante? In quello di struttura di partecipazione, quindi di modello di esperienza collettiva, interattiva, di confronto e, soprattutto, globale. E’ inoltre inevitabile, in quest’ampia visione, una riflessione sul concetto di ricordo e di memoria infantile che Mambor affronta nei successivi Giocattoli per collezionista.

Mambor, ormai, usa materie e oggetti, non dipinge soltanto, ha ingigantito la tendenza al particolare per il tutto. Evidenzia, quindi, la volontà di superare la “griglia di un sistema rappresentativo” (Marisa Volpi, sul catalogo appositamente editato per la mostra Opere di Renato Mambor. Opere del 1965 e del 1967 alla galleria Duemila di Bologna – in collaborazione con la galleria La Bertesca, Genova -, gennaio 1968, ove la critica, ripropone il testo Mambor più e meno).

Sin dai suoi esordi, del resto, Mambor sente che attraverso il fare arte è possibile un processo di conoscenza che porti l’artista -come egli stesso ha dichiarato in un’intervista da me redatta (Roma, ottobre 2002) a diventare:

“un elemento da relazionare e coniugare con l’altro, con l’esterno, con il mondo”.

Qualcosa che si evidenzia nella scelta dell’artista di darsi, anima e corpo – letteralmente – al Teatro. Infatti, in tutto il suo lavoro è evidente tale volontà di relazione, diversamente sviluppata, nella convinzione che ogni nuovo rapporto, portando informazioni, arricchisca di importanti contributi. Perché questo avvenga è necessario imporsi il controllo dell’ego, il raffreddamento dell’emotività, la spersonalizzazione nell’arte per accogliere pienamente l’altro da sé o meglio – precisa Mambor nella su citata intervista:

“la differenza dell’altro”

Questa intenzionalità si percepisce soprattutto nel suo lavoro successivo: in alcuni Itinerari, nell’Evidenziatore, nell’esperienza del Teatro, diversamente nell’Osservatore e nel Riflettore, nei progetti-mostre Fermata d’autobus e StART e nelle serie che seguono negli anni.

Appartengono al 1967 alcune opere fotografiche molto interessanti.

Renato, come molti della sua generazione, ha usato il mezzo e il linguaggio fotografico come medium di rinnovamento creativo, anche in virtù di quel raffreddamento di cui abbiamo detto, di neutralità rispetto alla realtà, quindi di prelievo oggettivo, senza coinvolgimento materico o di pathos, portando quest’uso a una ridefinizione dei “confini della relazione tra la soggettività del fare artistico e l’oggettività del reale” (Perna, Raffaella, In forma di fotografia. Ricerche artistiche in Italia dal 1960 al 1970, Derive Approdi, Roma, 2009, pag. 5). Ebbene: alcuni di questi lavori, esposti alla Galleria Etrusculudens, Roma, nell’aprile 1976, sono giudicati da Filiberto Menna molto importanti in quanto pongono “(…) in termini analitici l’esigenza di una riflessione sulla pittura iconica e sul rapporto tra la rappresentazione e la cosa rappresentata”. Chiaro e semplice.

Un caso particolare è rappresentato da alcune specifiche fotografie di azioni che fanno parte di un ampio nucleo definito Azioni fotografate; tra queste, alcune sono nominate Itinerario intimo. Realizzate anch’esse nel 1968, hanno forti legami con operatività performative anticipando, in qualche modo, alcune esteriorizzazioni della Body Art ma richiamando anche i linguaggi della pittura e del teatro. Questo sconfinamento tra le arti e la combinazione tra linguaggi, adottati spesso precorrendo i tempi, è annotato anche da Pierre Restany quando ricorda che Mambor ha fatto (…) “(…) delle performances dove utilizzava il suo corpo, come una specie di anticipazione della body art (…)” (Restany, Pierre, Rivedendo l’opera, in Ficacci, Luigi – a cura di -, Mambor. Opera di segni,  Diagonale, Roma, 1998).

Negli anni 1968-1971 Mambor trasferisce l’analisi sulla pittura negli Itinerari (Rulli) e avviene il marcato superamento dei confini della stessa (pittura), che egli attua con i vari Itinerari rullati, Itinerari delebili – performance   con   Emilio   Prini   e  altre azioni, che si fanno Azione fotografata, con  Itinerari itineranti, Tracce sul Viale dell’Uccelliera, Itinerario intimo (pure in forma, parallela, di Azione fotografata, come quella nello studio di Castellani),  etc. che testimonia, inoltre, la sua volontà di darsi e dare uno scantonamento, uno spostamento dell’oggetto comune dai binari della sua utilizzazione convenzionale e stereotipata.  Come è già avvenuto per i Timbri, Mambor concretizza un paradigma essenziale dell’arte Concettuale: permettendo anche ad altri di assolvere alla fase manuale del suo lavoro (come fa fare a Emilio Prini e a Paolo Icaro, per esempio; o firmando alcune guaches con le impronte rullate dal pubblico durante la mostra alla Bertesca; o come in alcuni degli Itinerari interni a teatro o in Tracce su Viale dell’Uccelliera) testimonia la supremazia dell’idea, del concetto sulla sua realizzazione in forma di oggetto. L’unica regola è dettata dall’artista ed è quella di terminare la rullata di colore in un punto d’arrivo che delimita lo spazio pittorico.

Lo sconfinamento verso altre espressioni artistiche e la contaminazione linguistica che Mambor, come abbiamo visto, persegue in molte sue opere e con i vari Itinerari stanno interessando in questi anni, in forme e modalità differenti, tutto il mondo dell’arte. Non è forse un caso che nel maggio del 1968 Plinio De Martiis organizzi, nella sua galleria La Tartaruga, Il Teatro delle Mostre. L’iniziativa si pone come un susseguirsi di eventi e interventi della durata di un solo giorno ciascuno che rompe, di fatto, il concetto di galleria contemplativa sovvertito pure, anche se diversamente, da Fabio Sargentini con l’attività della galleria L’Attico (con la celebre mostra Fuoco Immagine Acqua Terra del maggio 1967, e soprattutto con i cavalli mostrati nel gennaio 1969 da Kounellis nella nuova sede della galleria romana, un ampio garage in Via Beccaria). Il Teatro delle Mostre coinvolge, come in una sorta di festival (lo specifica il sottotitolo dell’accadimento), una parte rilevante degli artisti protagonisti di quel periodo. Tra questi Renato, che idea Dovendo imballare un uomo, azione che volutamente fornisce molteplici sottotesti tematici (anche politici, stavolta) e i registri interpretativi della sorpresa e del riconoscimento; ma Mambor, come descrive Achille Bonito Oliva nella scheda dell’evento pubblicata sullo stesso catalogo, ci dà un indizio: “(…) uno stampino riproducente una figura umana (…)” marcato sul coperchio della cassa e che rimanda ai suoi Timbri. Non solo: il senso più profondo dell’oper/azione va rintracciato nell’uso e nell’analisi dei differenti linguaggi presi in esame e ibridati: happening, teatro, riferimenti alla fotografia (l’immagine di Che Guevara ucciso nell’ottobre del 1967). Ecco di nuovo che la Fotografia torna: adoperata direttamente e approfonditamente in molti dei suoi lavori, come abbiamo visto.

Con le Azioni fotografate la fotografia diventa, per Mambor, un mezzo necessario e imprescindibile e un linguaggio con il quale confrontarsi con sempre maggior consapevolezza. Queste nuove immagini fotografiche – Segnali fantastici / 11 scope azzurre; 1945 La fontana di Via Barletta, La porta e opere connesse; Calice Ligure: la serie Legato e il Matrimonio e altre –  sono realizzate quasi tutte in bianco e nero.

La fotografia, come ha individuato sagacemente (e precocemente) più volte anche Cesare Vivaldi (in: Pino Pascali, in Decennale del Premio Termoli, Palazzo del Comune, Termoli, agosto 1965), è  “il minimo comun denominatore della giovane pittura romana”, e Mambor la assume pienamente nel suo percorso sperimentale; ma lo fa come notificazione di realtà, portando avanti un’azione sul linguaggio. Coerente con tutto il suo procedere. Ed è molto interessante anche la sua scelta di prendere parte, a Genova, dove vive in questo periodo – siamo nel 1968 – a una serie di incontri da lui organizzati con altri artisti allo studio di Paolo Icaro (ubicato poco fuori Genova) e che sono in qualche modo legati alla galleria La Bertesca:  qui ribadisce la sua necessità di confrontarsi con il linguaggio dell’azione (la realtà) e con quello della fotografia (la sua notificazione) attraverso confronti e discussioni tra i partecipanti, progettazioni comuni e una serie di diversi interventi artistici accanto a vere e proprie azioni (attualmente, di questa documentazione, si è perduta traccia ma resta una parziale memoria dell’intera iniziativa in alcune piccole foto in bianco e nero pubblicate sul numero di luglio 1968 della rivista “Pallone”). Altro lavoro fotografico interessante è la serie dei vari gesti verbali (Crescere, L’Impronta/Stirare, Il gesto del sonno, Il gesto della morte) e lo shockante Rassicurante/Inquietante, anche detta Inquietante/Tranquillizzante, datata 1970, che sembra prefigurare atmosfere posthuman.

Seguono i Giocattoli per Collezionista; La Difesa (Il Biliardino), che accoglie il suo amore per il calcio, più volte palesata; altri giocattoli e derivazioni di cui abbiamo in parte detto, riferendoci al concetto del gioco; realizza anche E’ arrivato un camioncino carico di… (Calice Ligure, 1971, galleria LP 220 di Franz Paludetto) e Operazione Camion. E’, questo, un progetto di confine tra arte e teatro sperimentale itinerante ideato da Carlo Quartucci, che coinvolge Mambor in prima persona, poiché l’artista lo anima con suoi lavori e le sue azioni. Si trattava di vero veicolo Lancia Esatau dipinto di bianco a volte coperto con un telone, ma che poteva essere sostituito da qualsiasi altro veicolo, e dipinto di altri colori perché, come lo stesso Quartucci scriveva nell’ottobre 1971 nel bollettino dell’iniziativa, “(…) non è mai prevedibile”.

Citando il libro-azioni-fotogarfie Catcher Dream Boat passiamo all’Evidenziatore (1971-1975), un dispositivo-oggetto che afferra la realtà e la qualifica. Lo precedono varie sue genesi, vi si affiancano Indagine connessa e il libro dalla stessa titolazione (L’Evidenziatore). Mambor ha lasciato Genova e si è trasferito a Milano. In questo periodo egli frequenta amici artisti come Aldo Mondino, Michelangelo Pistoletto e, tramite Alighiero Boetti, ambiti intellettuali e artistici torinesi organizzati intorno a figure-chiave come Giulio Paolini; queste frequentazioni, accanto al fertile confronto teorico con Germano Celant che, abbiamo visto, ha seguito il lavoro di Mambor proponendolo in due importanti mostre genovesi nel 1967, confermano nell’artista la sempre maggior necessità di orientare il suo lavoro verso una ricerca analitica sull’arte in cui la componente mentale assume un ruolo determinante. Nasce in questo contesto l’Evidenziatore. Egli, infatti, “osservando che gli oggetti creati dall’artista vivono in un mondo  autonomo e parallelo rispetto al mondo della realtà, (…) si propone di acutizzare problematicamente questa dicotomia spostando l’attenzione sul polo del reale” (Martusciello, Barbara, Progetto per un’Antologica III: Spettatore- Osservatore – schede della mostra -, galleria Mascherino, Roma, febbraio 2005.). Si concentra, così, sull’esigenza di comunicare un segno che possa avere, sul piano della comunicazione, un ampio grado di oggettività per assolvere a una funzione  segnaletica e denotativa (che ha già, diversamente, sperimentata). Questo consiste in un oggetto meccanico di metallo con un corpo centrale da cui partono quattro ganci-tenaglia che, quasi come una mano robotica, si possono aprire o chiudere con un sistema di avvitamento. Il congegno può essere agganciato a qualunque cosa che in questo modo risulta non solo indicata ma fortemente evidenziata pur restando ciò che è e nel contesto in cui si trova abitualmente. Questo ingegnoso sistema è simile, per certi versi, a quello che sostanzia gli asterischi (o le stelle) dei rebus che in questi quiz figurati servono a concentrare l’attenzione dei giocatori solo sulle immagini utili alla soluzione dell’enigma distogliendoli da tutto il contesto che vi fa da sfondo. Nell’Evidenziatore questa funzione, che non segue le stesse regole né la finalità dei Rebus, è trasformata ed è diretta a una segnalazione a scopi denotativi anche se, per far questo, intraprende un corpo a corpo con la realtà, agganciandosi letteralmente a essa. Considerandolo in ogni  suo aspetto, possiamo affermare che l’Evidenziatore funzioni come esortazione di tipo semiologico: come è indicato anche da E. Cesana nel libro L’Evidenziatore di Renato Mambor esso sollecita, nell’osservatore, “(…) una lettura assoluta (…)” permettendo di “(…)  conoscere l’idea strutturale, forma, materia, durezza, levigatezza, colore (…)” dell’oggetto evidenziato. Questo dà la possibilità, parallelamente, di ottenere “(…) una serie di dati, di esperienze (…)” che permette una conoscenza di tale oggetto recuperandone una lettura diretta, perduta o affievolita “(…) per l’abitudine a metodi che (…) hanno finito per diventare infrastrutture mentali alienanti”. La realtà, quindi, come annota Mambor in questo stesso testo “(…) non doveva essere solo registrata, ma anche capita (…)”(Tutti i virgolettati qui di seguito sono estratti dall’intervento di Cesana, Enrico, in Martin, Henry, L’Evidenziatore di Renato Mambor, Multipla, Milano, p. 153). Le possibilità interpretative di questa opera, naturalmente, sono diverse, ognuna valida. Opera nuovamente aperta e di forte coinvolgimento e, soprattutto, di interazione e partecipativa. Un’altra pionieristica espressione di un’artista prolifero e sempre coerente.

Nel 1975 si apre un altro capitolo del percorso-Mambor che lo vede coinvolto, come si diceva, nel Teatro: Trousse e Gruppo Trousse. Mambor è sempre stato interessato a poter dar luogo, con le sue opere, a una più diretta interazione con lo spettatore che ora, nel teatro, emerge con maggior forza; mi disse:

“Nel collettivo l’individuo entra in rapporto con gli altri in maniera più profonda… Il Gruppo Trousse serviva a interagire, a rispecchiare l’uno nell’altro”

Ora gli è accanto Patrizia Speciale (dal ’78 è in Trousse) che ha forti radici creative proprio nel Teatro. La collaborazione tra i due diventa forte, sempre più forte, non si spezzerà, diverrà amore e sodalizio di una vita.

Nell’arco di dodici anni Mambor – che accusa anche gravi problemi di cuore – si dedica, come abbiamo indicato, all’analisi e all’uso del linguaggio performativo e teatrale, anche con varie azioni teatrali, i Quadri scenici, il teatro di altri autori, i Laboratori e altre esperienze di interazione con vari artisti.

Il 1987 è un anno molto difficile per Renato, che subisce la grave perdita del padre e si trova a dover far fronte ai suoi seri problemi di salute. Soffre sempre più di scompensi cardiaci che lo portano a doversi operare d’urgenza e a rallentare inevitabilmente la sua attività artistica che in questi anni, abbiamo visto, è concentrata sul teatro.

Consigliato, tra gli altri, dall’amico e artista Remo Remotti – che ha confermato il dato in una conversazione con l’autrice (Roma, novembre 2002) – che gli segnala un medico tedesco che opera in un ospedale specializzato in cardiochirurgia, si reca in Germania dove resta degente per alcuni mesi. Al suo rientro, dopo la convalescenza, Mambor sente nuovamente l’esigenza di tornare alla pittura. Siamo nel 1987 e sino agli ultimi giorni della sua lunga, avventurosa vita Renato dipinge: Le Funzioni (1987) e i Processi di formazione (1988-89), con L’Osservatore (Osservando lo studio, 1983; gli Osservatori a teatro, 1983; L’Osservatore, 1988-1993, e le sue declinazioni; le Coltivazioni, la scultura Il praticante e la lingua della terra. Nel 1992-1993, il posizionamento dell’Osservatore sul margine esterno del quadro, in una posizione che lascia alle sue spalle la superficie occupata dalla pittura e con lo stesso sguardo rivolto nella direzione opposta a quella della superficie pittorica, lo trasforma in Riflettore. Seguono l’Uomo geografico (Il Diffusore), Il Testimone oculare, Il Viaggiatore e le altre serie etc.). Trasferito il suo studio nella casa di famiglia di Via Tuscolana, Mambor recupera, quindi, tutte le tematiche precedentemente trattate e le declina. In quest’ottica rientrano anche le serie affrontate da Mambor negli gli anni a venire, come quelle del Diffusore, del Pensatore, del Decreatore, dell’Agente, del Tenente, del Trasformatore: tutte sagome in forma umana -che il più delle volte raffigurano lo stesso artista- che, anche nei titoli richiamano le riflessioni da lui affrontate anteriormente.

Le analisi conoscitive portate allo scoperto – comprese quelle legate al teatro -, negli anni hanno guadagnato una maggiore libertà linguistica espandendosi. Su questo punto riflette Tommaso Trini (in: Note su Mambor, Festa e Angeli, in Mambor, Festa, Angeli, galleria Chisel, Genova, 1991), giudicando che l’artista, per quindici anni, ha semplicemente “…) continuato la sua pittura con altri mezzi (…)”.

Ciò che Mambor da questo momento in poi vuole più fortemente comunicare, attraverso questi pretesti visivi, è che la pittura non ha il dono della verità assoluta né delle soluzioni ai problemi e ai quesiti dell’uomo o del mondo, essendo a-spirituale e non potendo, quindi, risolvere; ma può dare indicazioni, far luce, porre interrogativi; così facendo può, per esempio, portare il pubblico a capire, proprio attraverso Osservatore e Riflettore, che:

“(…) l’immagine che si vede è qualcosa di già formato, la cui visione-percezione viene modificata attraverso la coscienza di chi la guarda… (…)”

Cioè: la pittura, il quadro, la scultura, così come il quadro scenico, i dispositivi interattivi, le installazioni sono  quindi come egli stesso affermava:

“(…) strumenti per guardare il mondo, una guida per un esercizio visivo (…)”(Martusciello, Barbara, Renato Mambor. Progetto per un’Antologica,  Mascherino, Roma, 2005, p. 20)

Ecco. Egli diceva, già in una mia intervista di qualche anno fa (2012):

“la ricerca del vero è un’esperienza che va lasciata decantare, depositare e che va poi recuperata e sottolineata perché noi tendiamo invece a vivere più di codici che di esperienze reali”.

Ora niente codici, però: pensiamo all’esperienza. Condivisa con Renato. Questo articolo-saggio è la narrazione critica di una ricerca artistica. Di quella umana e personale non vorrei parlare qui: resta privata, condivisa con Blù, sua figlia, con Patrizia Speciale, sua moglie e suo figlio Vittorio, che Renato ha affiancato nella vita. Speriamo, però, che quella “luce” di cui parlava spesso si accenda altrove e che la si possa vedere, più avanti, insieme. Non in questo tempo né in questo spazio.

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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