Sasha Huber. I love JaNY, con intervista all’artista

Afferma Stella Bottai curatrice di I love JaNY, prima mostra italiana di Sasha Huber (Zurigo 1975, vive e lavora a Helsinki):

Sasha Huber ha in sé il grande tema delle radici.
Nei suoi progetti è sempre in prima linea, presente anche fisicamente. Ma, soprattutto, non scende a compromessi.”

A Roma, nello spazio espositivo LaStellina Arte Contemporanea, l’artista di origine haitiana entra nel vivo della questione partendo da una storia familiare, quella della zia Jany – sorella di sua mamma – che alla fine degli anni Sessanta lascia Haiti, scappando dalla dittatura di Duvalier. A New York ha grande successo come modella. Il suo volto sorridente (Sasha ha lo stesso sorriso della zia) è su numerose riviste di moda del tempo da Essence a Mademoiselle, American Girl ed altre ancora, interprete di un certo gusto “esotico”, ma soprattutto della libertà dell’accettazione di sé. Jany (Remponeau) Tomba ha i capelli ricci e neri come quelli di Angela Davis. La sua militanza è meno esplosiva di quella dell’attivista, ma a suo modo presente. E’ la prima top model di colore. Andare a spulciare nel suo archivio è l’occasione per Sasha Huber anche per rispolverare i suoi ricordi di bambina, quando si reca per la prima volta a New York con i suoi genitori.

Spiega l’artista:

“Ricordo i suoi gli abiti coloratissimi e bellissimi e anche l’idea gioiosa di arte e ceatività che rimandano tutte le fotografie che la ritraggono e che si vedono in mostra.
C’era, poi, una bella foto di zia con sua figlia sul tetto dell’edificio dove abitava, in cui mia cugina Delilah tene in mano dei palloncini. Quest’immagine è sempre rimasta viva nella mia memoria. Così quando, nel 2010, ho finalmente avuto l’opportunità di andare a New York con mio marito, per il mio primo lungo soggiorno, ho voluto ricreare quel momento. Mia zia vive nell’Upper East Manhattan, siamo salite sul terrazzo e abbiamo posato vicino, stavolta è lei a tenere in mano i palloncini. E’ una sorta di gioco in cui viene citata la foto antica, originale.”

Le varie fasi dello shooting sono raccolte in un video che contestualizza l’oggi, realizzato dall’artista con la collaborazione di suo marito Petri Saarikko, designer e artista visivo finlandese.

“Io e zia Jany abbiamo parlato per un mese, affrontando questioni diverse, non solo del passato. Per me è stata l’occasione per sapere di più della sua storia e vedere foto che non avevo mai visto. Lei è un’otttima collezionista, soprattutto di immagini. Ha un grande archivio con foto e diapositive originali che ha conservato nel tempo, avendo lavorato a stretto contatto con molti fotografi di moda.”

Un archivio del passato – una sorta di “capsula del tempo” – quindi, che attraverso il lavoro della Huber si proietta nel presente, svelando la sua natura dinamica e trasversale, contenendo storie e rimandandole in circolo.

“Quell’archivio si è ampliato, arricchendosi con le foto di lei oggi, con la mia stessa presenza accanto a mia zia.”

Rispetto alla precdente esposizione I love Jany alla Kunsthalle di Helsinki nel 2010-2011, la mostra romana presenta una selezione di immagini più rigorosa, ma anche foto che non erano mai state esposte precedentemente, prese dall’album di famiglia.

“Una di queste è particolarmente interessante. E’ stata scattata all’aeroporto a Port-au-Prince, una foto d’epoca in cui si vede il pilota che cammina, poi c’è mia zia con le valigie accanto a sua madre, mia nonna. Si vede anche la scritta “Welcome to Haiti”
e il ritratto dell’ex dittatore François Duvalier, tra i motivi per cui la mia famiglia ha lasciato Haiti. Il futuro non era affatto chiaro. Bisognava imparare la lingua e tutto il resto. Questo è un altro aspetto che mi interessava indagare. Questo progetto che è sì incentrato sulla figura di mia zia, ma parla anche del destino di chi emigra in un altro paese, senza avere alcuna idea di quello che succederà.”

Il razzismo è, soprattutto, uno dei temi su cui Sasha Huber indaga, sfidando e combattendo pregiudizi e luoghi comuni. La storia, che è il punto di partenza di tutti i suoi progetti, ha sempre una doppia faccia. Bisogna partire sempre da questa consapevolezza, senza assumere come certezza quella che, di fatto, ci viene propinata come verità, come vediamo nel progetto Rentyhorn (work in progress iniziato nel 2008). Partendo proprio dall’analisi dell’archivio di dagherrotipi del noto naturalista, alpinista e glaciologo svizzero-statunitense Louis Agassiz (1807-1873), la Huber ha contribuito a svelare un aspetto dimenticato di questo personaggio, il suo razzismo scientifico teorizzato e messo in pratica. Attraverso la formula della performance che la vedono impegnata in prima persona, l’artista opera una sorta di risarcimento storico ai danni di coloro che hanno subito le ingiustizie. Ecco, allora, che sale su un elicottero per andare a piantare sulla cima delle Alpi svizzere che porta il nome di Agassizhorn (a 3946 mt. sul livello del mare) una nuova targa con il nome dello schiavo Renty, proveniente dal Congo e fatto fotografare da Agassiz (l’autore è il fotografo J.T. Zealy) nel 1850 in una piantagione della Carolina del Sud per fornire una prova “scientifica” dell’inferiorità della “razza nera”.

Sasha Huber. I love JaNY

 

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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