La Fotografia come strumento di condivisione. L’esperienza di Matteo Balduzzi. Con intervista

The Mobile City 2009, mostra

L’idea che abbiamo della fotografia – o almeno quella più comune che si potrebbe raccogliere – è quella di uno strumento grazie al quale l’occhio di una persona osserva, sceglie e blocca una parte di realtà.

Susan Sontag affermava:

“fotografare significa appropriarsi delle cose che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza.”

Considerando la fotografia come linguaggio artistico e di conoscenza, ne riconosciamo la capacità di stimolare l’osservazione o, anche, di restituire l’interesse nel guardare, azione spesso divenuta meccanica e distratta.

Quello che è difficile immaginare -ma sempre più spesso ci viene confermato- è riconoscere la fotografia come un medium artistico in grado di attivare relazioni e dialoghi tra persone e tra un territorio e chi lo abita, con il fine di mostrare un genere di cultura in cui non sussistano barriere tra l’opera e il suo pubblico.

Matteo Balduzzi è curatore al Mufoco_Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, luogo che oltre alle attività di tipo più evidentemente istituzionale, di conservazione e valorizzazione del patrimonio, e alle esposizioni, ai seminari, alle edizioni, porta avanti– una linea di ricerca incentrata sul dialogo con il territorio e il pubblico e sull’utilizzo, in senso partecipativo, dell’’arte.

Ci racconta Balduzzi:

“Questa linea, così attenta a coinvolgere il territorio in operazioni artistiche partecipate, forse non era neanche prevista nel disegno iniziale del Museo, che si immaginava strutturato con elementi tradizionali, pensato in maniera quasi a-territoriale”

Arriva al Mufoco negli anni in cui il museo appena aperto sta ancora definendo la sua struttura:

“Sono stato chiamato al Mufoco nel 2001-2002 e per me era una grande occasione. La sua posizione “alla periferia dell’impero”, lontano dai riflettori della grande città e del mondo artistico, senza i vincoli che questo ambiente può importi, mi è sempre sembrato molto stimolante, l’occasione di lavorare con l’arte mantenendo un forte taglio sociale”.

Già dal primo progetto artistico, Salviamo la luna -proposto dalla direttrice Roberta Valtorta– Matteo Balduzzi è chiamato nel ruolo di organizzatore e curatore e, inevitabilmente:

“la mia storia non da critico tradizionale e il mio interesse verso un uso della fotografia che coinvolgesse le persone, introducendosi nello spazio urbano, mi ha portato quasi spontaneamente a segnare in un certo modo questo progetto e i successivi”.

L’artista coinvolto, Jochen Gerz, realizzò un’operazione artistica condivisa che fu una sorta di opera simbolica, che presentava il Museo e la sua mission direttamente al territorio. Fu un progetto importante nel lungo periodo di tempo che richiese (dal 2004 al 2007) e ambizioso nelle spese che affrontò – circa 250mila euro -, ma qualitativamente raggiunse risultati eccellenti, coinvolgendo quasi 3000 persone solo nella performance e molte centinaia nelle attività che seguirono nel Museo.

“Era il progetto di un’istituzione appena nata, senza storia e sostegno. Con queste prime incertezze siamo andati in giro per la città, bussando alle case, coinvolgendo associazioni, gruppi sportivi, spinti solo dall’entusiasmo per un progetto apparentemente assurdo che intendeva coinvolgere nell’azione diretta le persone comuni, invitandole ad andare in giro di notte con cartelli a manifestare. All’inizio anche la direzione del museo voleva modificare il progetto di Gerz e renderlo più semplice, meno rischioso in un certo senso”.

L’opera fu totale anche nell’impegno che richiese da parte di tutti per l’intero periodo.

“Pagine pubblicitarie uscivano ogni settimana su due giornali locali, strutturate e valutate ogni volta da noi insieme alle redazioni; abbiamo inventato volantini, manifesti, ogni genere di stratagemma, adattandoci ai vari pubblici che dovevamo incontrare, in modo da riuscire a dialogare con le persone sempre alla pari e mai dall’alto di un piedistallo”.

Il successo di Salviamo la luna ha spinto il Museo a proseguire questa linea di dialogo con il pubblico. Questo fu solo uno dei motivi che definì l’aspetto relazionale e partecipativo della programmazione del Museo; infatti, se da un verso la presenza di un critico fotografico anomalo come Balduzzi suggeriva determinate scelte, dall’altro la Fotografia stava cambiando.

“Queste forme oggi sono abbastanza assodate, ma nel 2007 erano qualcosa di raro e non condiviso tanto facilmente. Con il termine “pubblico”, oggi non so, tra l’altro, se è possibile esaurire il significato e il disegno relazionale, il necessario coinvolgimento del pubblico, che questi progetti d’arte perseguono”.

L’attività di Matteo per il Mufoco prosegue con molti progetti di questo taglio.
Nel 2008 viene realizzato The Mobile City, progetto nelle periferie di Milano e di Toronto, città gemellata. Ci racconta Balduzzi:

“Abbiamo coinvolto i giovani delle zone più disagiate chiedendo loro di scattare fotografie dei loro quartieri con i cellulari. Puntavamo a realizzare con loro una sequenza, ragionare quindi sul racconto. Sembrava un’impresa alquanto ardua e, per facilitare il lavoro, abbiamo coinvolto dieci giovani artisti come tutor, ognuno affidato ad un quartiere diverso, sfruttando i linguaggi artistici che preferivano. Il progetto ha coinvolto giovani diversi (molti degli italiani erano immigrati di seconda generazione), ma senza una distinzione di target: si è proposto loro un progetto ampio, che potesse abbracciarli tutti, in modo da cogliere l’interessamento di ognuno di loro. Anche l’indicazione di utilizzare cellulari per fare le fotografie era una scelta di campo, indicativa del fatto che non si cercava una purezza nella forma e un’idea di fotografia tradizionale e professionista”.

Nel 2010 segue Fotoromanzo:

“non fortemente pubblico, ma nato da una partecipazione effettivamente globale, con gli abitanti di Cinisello coinvolti come attori, la stampa di 30mila copie di un rotocalco vero e proprio, distribuito nelle edicole, nelle case, nei comuni, secondo un processo di larga permeabilità con il territorio. Anche qui ci fu una larga partecipazione”.

Approfondendo certi progetti viene da chiedersi come si possono calcolare i reali effetti che da essi derivano e quali strumenti esistono per verificare e misurare gli esiti sulle comunità coinvolte. A tal proposito specifica Balduzzi:

“Una misura oggettiva che calcoli il numero dei partecipanti ad un lavoro d’arte pubblica non si ha…; ci arrivano, piuttosto, dei segnali, persone che ancora oggi ne parlano e hanno vissuto con noi un progetto…  Non solo durante i primi anni, ma anche oggi manca un forma di analisi a posteriori, con la quale si possa valutare e calcolare i reali effetti ottenuti. Spesso i risultati che si cercano si confondono con riscontri utili sul piano sociale, rischiando così di snaturare il progetto, di leggerlo sotto un aspetto umanitario-sociale che non intende essere la sua principale caratteristica. Quindi, se da un lato sarebbe utile avere strumenti oggettivi con i quali valutare gli effetti ottenuti, da un altro si rischia di cadere in un’operazione che assomiglia più ad un’analisi scientifica che ad un procedimento artistico”.

Tra il 2011 e 2012 si realizza Art Around, che vedrà la collaborazione con l’artista Beat Streuli, per un’opera d’arte pubblica nel centro di Cinisello e una mostra al Mufoco, ma anche il coinvolgimento di otto giovani artisti in otto centri culturali del nord di Milano.

“Ogni artista fu impegnato a realizzare un singolo progetto pubblico per la zona assegnata, in un lungo procedimento, in parte di formazione in parte di sperimentazione”.

Seguiranno poi Zac_Zone artistiche condivise, progetto del comune di Cinisello non propriamente sotto la guida del Museo, ma ben inserito nel territorio cittadino e Vetrinetta, per il quale è stato coinvolto Paolo Riolzi.

“Per questo progetto abbiamo ottenuto un finanziamento che paradossalmente arriva proprio quando il Mufoco sta vacillando e rischia la chiusura. Anche qui sono stati coinvolti un gruppo di giovani nella diffusione di una sorta di “vetrinetta-mania” diffusa nei più disparati angoli della città, pubblici e privati. Ma, al momento, non sappiamo esattamente se riusciremo a farlo partire”.

 Matteo Balduzzi, non va dimenticato, porta avanti le sue ricerche anche al di fuori del Mufoco, più volte chiamato per altre iniziative:

“Sì, progetti che nell’uso della fotografia abbiano un’identità comune/collettiva, volta a sviluppare narrazioni condivise”.

Ecco,quindi, Foresta Nascosta, realizzato tra il 2007 e 2009, poi proseguito con Foresta Bianca: il primo per la committenza del comune di Milano, il secondo per richiesta del Comune di Castiglioncello.

“Due progetti molto simili, realizzati con i sociologi Daniele Cologna e Stefano Laffi. Con loro si è ideato un dispositivo per raccogliere una sorta di racconto comune delle memorie individuali, attivando mini-musei sul territorio, lavorando sempre con gruppi di giovani abitanti locali, formati in loco durante il progetto, in modo che potessero essere lì a seguire il lavoro nei mesi successivi. Voglio sottolineare che nessuno di questi progetti ha l’ambizione di essere del tutto nuovo dal punto di vista artistico; quello che risulta nuovo è come vengono mischiati i vari elementi e ciò riesce a sorprendere, lasciando un segno duraturo nelle persone, spostando la percezione critica che le comunità hanno della loro storia e memoria”.

Ad una lunga raccolta di foto di famiglia tra gli abitanti di Castiglioncello, è seguita un’operazione di condivisione, attraverso giornali locali, attuando così il passaggio da una memoria intima ad una condivisa.  La mostra finale Foresta Bianca è stata un grande successo, tanto da essere replicata negli anni successivi anche in altre occasioni istituzionali, come all’interno del Festival di Fotografia di Roma, nel 2013.

“A Castiglioncello il progetto è terminato con una mostra. Questo non è un finale al quale teniamo, ma a volte capita che lo diventi, spontaneamente. Ad ogni modo, questa fu un’esposizione molto bella: pensata e allestita in modo minimale e enigmatico, quasi secondo i canoni delle mostre contemporanee, per cui il calore delle immagini scelte emergeva in primo piano. La partecipazione enorme dimostrò il lavoro condiviso fatto precedentemente. In una parte della mostra anche un laboratorio: cornici vuote messe a disposizione che le persone potevano utilizzare per incorniciare le loro foto e inserirle dove meglio credevano all’interno della mostra, restituendo così libertà all’immagine fotografica. Al Macro la mostra è stata riproposta, ma ovviamente riproporre un progetto pubblico in una dimensione museale vuol dire un po’ snaturarlo, nonostante si tenti di cercare una chiave sempre nuova di approccio. Nostro obiettivo, d’altronde, non è quello di finire in una galleria o in un museo, ma miriamo a funzionare e attecchire nel territorio dove si agisce”.

Nel 2010-2011, Balduzzi, sempre con l’appoggio del sociologo Stefano Laffi, partecipa con il progetto Età dell’Oro alla Biennale dell’immagine di Chiasso, ricreando un antico bordello là dove era esistito e rimettendo in circolazione fotografie e ritratti d’epoca durante  una lunga perfomance collettiva.

L’ultimo progetto, Sabato del villaggio, si sta concludendo ora (http://www.sabato-villaggio.it/progetto), dacci un approfondimento…

“Ragionando sempre sulle immagini di famiglia, abbiamo lavorato in un quartiere operaio vicino all’ex fabbrica Snia di Cesano Maderno, con l’intento di far conoscere ai nuovi arrivati la storia della fabbrica e di chi prima qui viveva. Il finanziamento avuto era legato al sociale, un fondo europeo per l’integrazione culturale, qualcosa di lontano dal mondo dell’arte. Oltre alle foto e alle interviste, avendo trovato nella fabbrica abiti abbandonati dell’epoca, si è realizzata una sfilata di moda insieme alle ragazze del quartiere, evento che ha riscosso molto successo e partecipazione. La pubblicazione finale è stata disegnata, quindi, come un finto magazine di moda. Molto probabilmente, per la Settimana milanese della Moda si riproporrà la sfilata e sarà l’occasione nella quale racconteremo il progetto”.

Dal momento che hai accennato ai finanziamenti, ci dici quali generi di partecipazioni economiche si richiedono ed esistono per realizzare progetti artistici non convenzionali come questi, che non si esauriscono in una mostra o in una performance, ma necessitano di tempi lunghi e collaborazioni con varie realtà?

“Molti finanziamenti da noi ottenuti arrivano da bandi pubblici e non da risorse del Museo o di altri centri culturali. L’ente pubblico, le banche, i finanziatori privati cercano di stimolare i progetti di questo tipo, dando una spinta in questa direzione.
È sempre più facile trovare artisti e progetti che adottano questi linguaggi (la Fondazione Pistolletto, il Pav di Torino, i progetti del collettivo piemontese a.titolo, Palazzo Lucarini a Trevi…), si fanno incontri, convegni, ma non si è ancora pronti a investirci con progettualità. Si rischia di cadere in un atteggiamento strumentale e, nella volontà di voler richiamare più pubblico, questi progetti arrivano a confondersi con una buona operazione di comunicazione. Oppure, quando il finanziamento arriva da bandi rivolti al sociale, tali progetti sembrano tesi a migliorare le integrazioni sociali di un quartiere piuttosto che sperimentare nuove forme artistiche”.

Si resta, quindi, in bilico tra diversi ambiti o si rischia così di allontanarsi da una progettualità di natura artistica?

“Il punto fondamentale di questo genere di progetti sono le condivisioni, la ricerca continua di sinergie; nello specifico: trovare un punto di incontro tra la dimensione estetica e quella sociale; giungere, cioè, a un’estetica di partecipazione, usando le parole di Alfredo Jaar: si tratta di cercare forme che siano sufficientemente aperte da rimanere plasmabili senza sparire. In questo modo le urgenze nel sociale, seppur evidenti, non andranno a nascondere i componenti e le finalità artistiche che restano obiettivi primari”.

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Francesca Campli ha una laurea in Storia e Conservazione del Patrimonio artistico e una specialistica in Arte Contemporanea con una tesi sul rapporto tra disegno e video. La sua predilizione per linguaggi artistici contemporanei abbatte i confini tra le diverse discipline, portando avanti ricerche che si legano ogni volta a precisi territori e situazioni. La passione per la comunicazione e per il continuo confronto si traducono nelle eterogenee attività che pratica, spaziando dal ruolo di critica e curatrice e quello di educatrice e mediatrice d'arte, spinta dal desiderio di avviare sinergie e confrontarsi con pubblici sempre diversi.

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