Peter Weibel. Il ribelle dei Media ritrova la sua Band creata insieme a Loys Egg nel 1978. Con Intervista

Peter Weibel mit Band

Il pubblico è quello dei concerti speciali, sono presenti i giovani di ieri: groupies, rockers, punkers, ed i giovani di oggi.

Sono molto vicino al palco e sto sottovalutando la presenza a soli due metri da me di tre grandi amplificatori sospesi sopra la mia testa, mi sono documentato sulla musica composta e suonata tra la fine degli anni ’70 ed il principio degli ’80 da quei ragazzi ben decisi ad accompagnare testi critici sulla società, sulla politica, sulla scena artistica corrente, con della buona musica che suona alle mie orecchie molto rock-blues. Mi aspetto che sbuchino dal retro di questo palco costruito nel bel mezzo della grande sala espositiva della 21. Haus che contiene, al momento, una mostra sull’arte performativa e sperimentale; li vedo, al contrario, venire in fila indiana verso di me dalle spalle del pubblico: davanti a far da guida, in avanscoperta, lo speleologo del gruppo Loys Egg, dietro di lui il batterista, giovane e unico non membro della band originale, segue Peter Weibel, completo scuro, camicia aperta sul collo e cappotto; lui, dall’aspetto mi conferma l’impressione data 5 giorni prima, durante l’intervista, cioè che sembri un professore o un chirurgo. Mi passa davanti guardandomi e facendo un cenno con il capo, sorridendomi. Ricambio.

Saliti sul palco tra mille urli, accordano gli strumenti e parte subito il primo pezzo, un brano soltanto strumentale, l’attacco della chitarra è potente ma il seguire della batteria rischia di rompermi il timpano. Il mio primo pensiero: “questi pazzi scatenati mascherati da sessantenni rockano di brutto”, il mio secondo pensiero, “meglio che mi sposto più indietro per non perdere l’udito”, opto per il terzo, mi metto dei tappi improvvisati e resto li a godermi lo spettacolo dalle prime file perché merita. Alla fine del brano introduttivo Herr Weibel prende la parola per chiarire che mancando da diversi decenni dal palco non sarà, forse, in grado di sostenere al meglio la performance, istintivamente non gli credo e guardandomi intorno mi accorgo di non essere l’unico. Quello che segue son 90 minuti di ottima musica rock condita, che in questo caso significa farcita, accresciuta, chiosata, performata, da una vera e propria valanga di versi.

“Io ho due mani,
Io ho due orecchie,
Io ho due piedi,
Io ho due occhi,
Io vedo attraverso due occhi con spavento la divisione,
Con un occhio una metà,
con l’altro occhio l’altra metà,
Io sono diviso.”

Cantavano nel 1981 con Entzweiung, Divisione, la storia di un corpo diviso in due parti non uguali che lavorano insieme per sopravvivere, versi che accennano al punk ma si muovono sul filo della performance, l’uso della parola come mezzo d’espressione che vada al di la del significato e del suono riassumendoli nel momento in cui vengono interpretati.

Peter Weibel nasce e cresce in una piccola cittadina dell’alta Austria, studia Letteratura comparata e Cinematografia a Parigi per un anno, tornato a Vienna nel 1964 intraprenderà  prima gli studi in Medicina per poi cambiare con Matematica. Nella sua arte la parola avrà sempre un ruolo centrale tale da fargli sviluppare dal 1965 in poi vicinanze e interazioni tra la letteratura sperimentale e l’arte performativa. L’uso di linguaggi differenti non creeranno mai un’interruzione al continuum con cui spazierà dai media alla musica, ad una delle prime forme di videoarte, passando per l’Azionismo viennese. In una installazione del 1973 chiamata Osservazione dell’osservazione: indeterminazione è possibile leggere, nel porsi del soggetto sotto il fuoco incrociato di diverse telecamere e monitors, che tuttavia riprendono solo dettagli ma mai il suo insieme, un principio importante della fisica per cui definendo uno qualsiasi dei parametri contenuti nel dualismo posizione-velocità sia impossibile catturarne il secondo. Peter Weibel in tempi molto poco sospetti e con mezzi, agli occhi di oggi, alquanto vintage si interrogava ma soprattutto interrogava noi, il pubblico, su quale fosse, in fondo a tutto, il ruolo dell’osservatore e cosa lo differenziasse dall’oggetto osservato, se i due sono, senza eccezione di sorta, sempre interscambiabili.

Nel 1982 con gli Hotel Morphila urlava:

“La parola “voce” detta con la voce,
La parola “mano” scritta con la mano,
La parola “carta” scritta sulla carta,
La parola “comprendere” comprendere. 

La parola “scritto” detta con la voce,
La parola “canto” cantata con la voce,
La parola “parlare” scritta con la mano,
La parola “mano” detta con la voce.”

La danza che accompagnava già da tempo i due poli della comunicazione, soggetto e oggetto, era cominciata, tra ironia, sortite nella società e simposi accademici. La realtà, da sempre palcoscenico della sua sperimentazione, viene ispezionata, tagliata, ricomposta e condivisa cercando di metterne sotto l’attenzione di una lente di ingrandimento, da un lato le regole di funzionamento così come l’evoluzione veloce attraverso le nuove frontiere della tecnologia e dei media.

Dice, guardandomi fisso con un sorriso leggero:

“Nel 1980 è successo qualcosa di speciale, ovvero il ritorno dell’arte alla pittura, mi spiego: negli anni ’70 arte concettuale, Land Art, performance art, Fluxus e tutta la scena artistica era contro le Gallerie, contro i Musei, ogni forma di arte andava fatta nel suo luogo deputato e non in quella specie di vetrine, ma poi nel ’80 si disse ok ora basta, l’arte deve tornare verso la pittura, ma non c’era in quei termini nulla a disposizione, c’erano soli i Neue Wilde etc, era diventato tutto molto borghese, noi abbiamo, per esempio, durante un concerto telefonato a delle prostitute vere e proprie, le abbiamo chiesto quanto costassero le loro prestazioni. Eravamo contro la commercializzazione dell’arte, del rock and roll, i gruppi erano tutti diventati dei dinosauri, dei matusalemme, giravano con delle limousine, hotel extra lusso ma cosa aveva questo a che fare con il rock and roll? Con il Jailhouse rock cantato da Elvis? Quindi noi abbiamo creato un gruppo per dissociarci da quell’immagine borghese ed abbiamo avuto un carattere molto performativo, io mi strappavo i capelli sul palco mentre contemporaneamente, ripreso e mixato dalla regia televisiva, saltavano le corde della chitarra, volevamo esprimerci… Da qui anche il nome del nostro gruppo Hotel Morphila Orchester, una volta ogni hotel che si rispettasse aveva una propria orchestra residente e noi ci ritenevamo un hotel a tutti gli effetti ma in un’accezione beat del termine, come gli artisti che vivevano a New York in quegli anni, al Chelsea, un luogo dove dimorassero in esilio gli esclusi dalla società, quelli che non ci si riconoscevano, che non avevano una casa. Ecco eravamo tutto ciò ma avevamo anche qualcosa di Morfeo il dio del sogno ed anche un po’ di mostro come Godzilla.”

Peter Weibel nel 1968 viene portato al guinzaglio da Valie Export nell’azione performativa Dal portfolio della canitudine (From the Portfolio of Doggedness) in cui i due artisti nel ruolo rispettivamente del cane e della padrona passeggiano amabilmente per le strade di Vienna e fanno anche visita ad una Galleria dove aveva luogo una inaugurazione. Osservatore, relatività, scambio dei ruoli sono la meridiana intorno alla quale ruota il lavoro, a tratti onirico, iperbolico ma anche estremamente semplice e diretto in cui si muove l’artista.

Nelle sue parole:

“l’arte è simulazione, la musica è stimolazione, in modo diretto, attraverso il sistema nervoso e non ha confini, la puoi ascoltare dovunque nel mondo ed è li presente. L’arte, invece, viene mediata.”

Si intromette Loys Egg:

“abbiamo sempre cercato di essere il più diretti possibile con il nostro pubblico ed anche il più onesti possibile, la cosa più importante era muoversi contro i cliché, il rock and roll, per esempio, parlava da sempre dei giovani, della loro ribellione, della  sessualità, noi facemmo un pezzo sulla sessualità delle donne sposate… volevamo cambiare il punto di vista, spostare la deriva del discorso e con questo far riflettere.”

In Occhio magico di Peter Weibel del 1969, viene investigato il nome anglosassone con cui è conosciuto un film ovvero Sound picture, immagine sonora, dove sullo schermo cinematografico sono disposte delle fotocellule che tramutano le variazioni di luce di una pellicola proiettata in suono, riuscendo così a ridare valenza effettiva al termine, a ricollegare ciò che avviene al suo significato originario. C’è questa idea dietro a quel gruppo di amici, di artisti, di arrivare diretti al cuore, alla mente, allo spirito dell’osservatore in cui si riconoscono, quello spettatore che vuole, si aspetta qualcuno che gli parli apertamente senza sipari, senza confini.

Continua Loys Egg:

“Nel mio caso ho sempre sofferto della mancanza di territori aperti quando dipingevo, della limitazione data dai confini della tela, per questo passai alla scultura ma poi si pose il problema dei piedistalli dove appoggiare le sculture, per cui ad un certo punto cominciai a concepire opere fluttuanti, che non avevano un vero e proprio supporto. Ricordo che quando iniziavo a lavorare su una scultura, se poi questa si fosse sviluppata verso l’alto, sfondavo il soffitto per farla crescere e lasciarla libera di esprimersi… le linee di demarcazione sono semplicemente saltate, sono state messe sotto pressione, le forme create le hanno superate e quindi sono scomparse, la loro funzione è scomparsa.”

Conclude Peter Weibel:

“Pensare ed essere sono una cosa sola. Il linguaggio viene prima di tutto e la realtà si crea con le parole, come nella Bibbia: In principio fu il verbo. I confini della mia voce sono i confini del mondo”.

“What’s in the brain that ink may character?
What’s in the heart that a kiss may character?
What’s in the feet that makes them walk?
What’s in the eyes that make them see?
Where is fancy bred and where anxiety?”

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Dario Lombardi nasce a Roma, si diploma all’Istituto Superiore di Fotografia. Vive e lavora a Vienna come freelance. Ha affrontato diversi generi nella sua professione, dalla fotografia di scena, teatro e danza, passando per la moda ed arrivando al ritratto. Si confronta negli ultimi lavori con la tematica dell’essere umano ed il suo rapporto con il contesto in cui vive. Nel 2008 espone “Hinsichtlich”, reportage sulla donna che veste il velo come scelta religiosa e come confine tra la sfera privata e pubblica. Nel 2009 pubblica insieme con Gianluca Amadei una serie di interviste e ritratti sulla scena professionale ed artistica dei designers in Polonia, dal titolo “Discovering Women in Polish Design”. Attualmente si occupa della mostra-installazione “Timensions” per il Singapore Art Museum 2012, una ricerca sul rapporto tra l’uomo e lo spazio/tempo.

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