La Fura Dels Baus. 35 anni di esperienza, struttura, coinvolgimento

Carmina Burana (Courtesy Adrià Cortadellas / Archivo de La Fura dels Baus)

La Fura dels Baus inizia dalla strada, in un paesino di nome Moià, dentro una Commedia dell’Arte dove il teatro è per tutti. Bread and Puppet Theatre, Els Comediants ed Els Joglars come punti di riferimento per un’evoluzione creatasi in diversi settori, in faccia alla diffusione pedagogica tradizionale.

Succhiano il midollo dalle radici del Living Theatre, da Artaud e dalla Body Art; strizzano l’occhio agli happening, passando per Ejzenštejn, Craig, Wilson, Guerrilla Theatre e Nitsch.

In Italia quasi a braccetto con la velocità, l’immagine e la fisicità dei Magazzini Criminali, della Gaia Scienza e Falso Movimento.

Valicano così la nuova spettacolarità e la grammatica esistenziale, o forse solo l’antidrammaticità testuale, aspettando (e influenzando) Teatro Valdoca, Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe.

Poi l’opera, la musica, il cinema, il digitale, il web e, soprattutto, uno spazio scenico innovativo, anticonvenzionale, a volte naturalmente ibrido, dove protagonista è il pubblico, che interpreta se stesso e – come sostiene Mercè Samuell – identifica il suo ritmo vitale con quello scenico perché questo è immerso nelle azioni e in forti stimoli sensoriali.

La Fura usa e manipola materiali poveri che diventano macchine feroci, incursioni e coreografie barbare, per poi elevarsi su un vecchio barcone di 60 metri di lunghezza, la nave Naumon, il centro culturale fluttuante, insieme fucina ed entità collettiva.

Si arriva nel postmoderno con una propria estetica (ed etica) valicando quelle che Àgnes Heller chiama le tre logiche della modernità: della tecnica, dell’allocazione funzionale delle posizioni sociali e del potere politico. Elogio della dinamicità, dell’uguaglianza e della libertà.

Oltre agli spettacoli preparati in occasione delle inaugurazioni dei grandi eventi – i Giochi Olimpici di Barcellona, i XV giochi del Mediterraneo in Almeria, l’Esposizione Universale di Shanghai o l’apertura della Biennale di Valencia – è giusto ricordare alcune opere, performance, installazioni e macroprestazioni che hanno dettato l’identificazione del gruppo e il loro grande carattere innovativo fino a oggi:

Accions, Suz/O/Suz, Tier Mon, MTM, F@ust 3.0, Red Humana, OBS,  XXX, Orfeo, Imperium, Boris Godunov, la Divina Comèdia, La flauta màgica, Turandot, Die Walkure, RES, Tristan et Isolde, Trilogìa Romana,  Afrodita y el juicio de Paris, Aìda, La memoria del grito, Madama Butterfly, L’Ésser del Mil·lenni. Fino a Metamorfosis, Temptacions, Degustaciòn de Titus Andronicus, M.U.R.S., Cantos de Sirena, Pelléas et Mélisande, Carmina Burana, El Regalo de Ìcaro.

A Barcellona, nel 1979, si respirava una vigorosa libertà, e forse quella voglia di evasione riversata nella comunità, nel gruppo, nel tentativo di seguire un leader dal basso, da quella subcultura contro potenti e comandanti che il popolo sentiva vicina.

Da qui si è realizzata una parabola di successi partendo dagli anni Ottanta fino ad oggi, dove il cartellone del gruppo catalano segna date incessanti sparse nei cinque continenti.

I Cyberprimitives – come si definiscono – affrontano temi erotici e sadici nello stesso tempo, sacri e profani, democratici e provocatori. Spremono quel furore della pulsione che mette il pubblico nella condizione di seguire il flusso dinamico, a cambiare continuamente prospettiva, a spostarsi, impaurirsi e urlare.

Rendono così comprensibile il significato della vita stessa, per dirla alla Wilhelm DiltheyAusdruck (espressione, da ausdrucken) – cioè “spremono fuori” un’esperienza che altrimenti sarebbe stata sepolta nel tessuto socio-culturale, ma ora, tramite il vissuto dato e condiviso, si erge a Evento.

E sono i gesti, le azioni, i comportamenti e le riflessioni del collettivo che abbiamo assorbito negli anni che ora riconosciamo nostri, consegnati a noi come da genitori a figli. In questa epoca di totale “livellamento”, riconosciamo almeno i nostri Padri, riusciamo almeno a fare quello scarto che serve a mantenere le giuste distanze fra quantità e qualità, fra apparenza e identità.

Se Agamben affermava che l’esperienza è “qualcosa che si può solo fare e mai avere”, gli esponenti della Fura autoctoni, che si sono susseguiti o avvicendati nel corso degli anni (da Marcel-lí Antúnez Roca a Quico Palomar da Àlex Ollé Gol a Javier Daulte, da Irene Papas a Jürgen Müller, da Carlos Padrissa Singla a Miki Espuma fino a David Cid, Pep Gatell Calvo, Pera Tantiñá Almela, solo per citarne alcuni) tramite quotidianità e attuazione sul campo, ci donano la capacità di elaborare l’esperienza a modo nostro, ogni volta e in ogni spettacolo-evento, vivendo un sogno reale radicato nell’amigdala del cervello.

Siamo di fronte a “celebrazioni di oggetti dell’esperienza ordinaria” (John Dewey) che ci spronano all’espressione e alla partecipazione sociale, per divenire trasmettitori di questi impulsi. È un mettersi in mostra, un esibirsi con la collettività che ci disseta dal bisogno di comunicare. Siamo interpreti così del cosiddetto “rituale tribale” che intreccia forme e linguaggi, corpi e tradizioni, drammi e visioni.

E poi la struttura processuale, presa in prestito da un’architettura ingegneristica digital-artigianale di un modus operandi fondamentale, chiarito nel suo eccesso.

Ecco che passiamo in rassegna coreografi, mimi della scuola di Decroux, performers, equilibristi, informatici, costumisti e soprani, scultori e scenografi, orchestrali e drammaturghi, videografici e sound designer: un equilibrio essenziale della messa in scena.

È un fare spettacolo in cui sono iniettati i valori della società in cui viviamo, dove in trentacinque anni abbiamo costruito il vero senso dell’arte, erigendo una geografia mentale esclusiva fatta di uomini e donne, di ossa e di sangue, di carne e di cuore.

Sintesi antropologica di gusto e disgusto, di combattimento e cristianesimo, di oracoli e miti, di cinismo e scandalo. Il cosiddetto lenguaje furero oggi non è cambiato: si è trasformato, si è evoluto in consapevolezza e perfezione, in peculiarità ed interventi ad hoc.

Dalla figura del Faust ai simboli, dai dualismi uomo-donna ai work in progress e seminari, passando per testi poetici medievali, opere e fatti di cronaca riveduti, aumentati. Sempre lasciando spazio, oltre ad angoscia e terrore, alla nostra onirica utopia, in un climax dove tutto o niente è permesso.

E lo spazio è il co-protagonista, eterogeneo e mai scontato, meticcio e specifico, sia un bar a Gracia o l’Arena di Verona, un Palazzetto o un Teatro, la Plaza de Catalunya de Barcelona o connessi dal nostro cellulare. Un incessante sitespecific mutante.

Un percorso artistico complesso, urgente, nello stesso tempo incantevole; fra il fantastico e lo schizofrenico, traspirazione di bellezza, portatore di quella che definisco grazia bestiale. Una grazia antropologica piena di durezza e fragilità, delicatezza e grossolanità sempre captata nella globalità dei formati.

La Fura, scomodando Wagner e Puccini, Respighi e Goya, Debussy e Brecht è approdata sino alle cosmopolite incursioni/sperimentazioni con Zubin Mehta, la Lucerne Symphony Orchestra, Mikko Franck, il Teatro dell’Opera di Roma, le prelibatezze del Mugaritz, l’Institut Ars Electronica de Linz, il Maracanà di Rio de Janeiro o il Massachusetts Institute of Technology (MIT), meritandosi elogi (e critiche) per la capacità di interagire e cooperare in team per un fine unico e inimitabile senza gerarchie né condottieri.

Luci, video, polvere, acqua, fuoco, detriti metropolitani, macchine, feti, carri, robots, gastronomia, sesso, laser avvolgenti, sedie, maxischermi, acuti, legno, pixel, lingue, parola, paura, sorrisi ed estasi sono in perenne connessione, che congiungono persone di tutto il mondo e di tutte le età in un’ordinata esplosione dei sensi.

Allora mettiamoci (s)comodi, anche in questo 2015.

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Arteologo del contemporaneo, Schiavoni Massimo è docente e project manager. Attento alle esperienze della giovane scena performativa e all’interazione delle forme teatrali–coreutiche con l’antropologia, la sociologia e l’estetica dei nuovi media, nel 2014 ha pubblicato il saggio Danza Paola, danza! in Corpo politico. Distopia del gesto, utopia del movimento a cura di Silvia Bottiroli e Silvia Parlagreco. Editoria & Spettacolo, Spoleto, 2014. Nel 2013 ha curato il volume Creatori di senso. Identità, pratiche e confronti nella danza contemporanea italiana, Aracne Editrice, Roma. Nel 2011 ha pubblicato il volume PERFORMATIVI. Per uno sguardo scenico contemporaneo, Gwynplaine Edizioni, Camerano (AN) e sempre nel 2011 ha pubblicato il saggio Antropologia coreutica di Francesca Proia. Fenomenologie e riferimenti storici performativi come sviluppo dell’immagine corporea in Declinazioni yoga dell’immagine corporea. Due studi complementari di Francesca Proia per la Titivillus Edizioni, Corazzano (PI). Collabora con riviste e artisti contemporanei, cura inserti teorici/poetici ed è conferenziere di manifestazioni e festival internazionali.

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