Cafè Jerusalem. La storia e gli uomini, e Genova si trasforma nella città dove è possibile nulla e tutto.

Cafè Jerusalem - ph. teatrostabilegenova

Al Quds. La Santa. Gerusalemme.
La città da tutti desiderata, pregata, sospirata. Per i suoi abitanti, la città recinto. Una prigione dove ogni strada, ogni pietra è nostra o loro, dove perdersi non è permesso. La città del buio. Dove un altra luce sta per spegnersi.
Nura – luce, in arabo – palestinese e cristiana, sta per lasciare la sua città che non c’è più, sta per chiudere per l’ultima volta i battenti del suo cafè, e mettersi alle spalle la Storia, la propria e quella di tutti.

«La vali, Gerusalemme, la vita dei nostri figli? Lo vali, Gerusalemme, tutto questo dolore? Io ti scomunico. Scomunico la tua santità».

Ma per un istante, l’ultimo, si abbandona ai ricordi di quando la città era vita, non galera, di quando ancora si poteva sedersi sulle panchine sotto i gelsi – sotto cui oggi c’è solo lo sguardo svogliato eppure costante di un nemico – o passeggiare sotto le stelle.
E Genova, e il Teatro Duse diventano la Gerusalemme di Nura. Dove ancora non esiste un noi e un loro, dove non si è ancora nemici, non ancora irrimediabilmente soli, e si può amare. Anche Moshe, israeliano ed ebreo, che passa davanti al cafè tutti i giorni.

Ma per una notte soltanto, perchè poi nemici lo si diventa, perchè qualcun altro lo ha deciso. Le parole rimangono in gola e l’amore diventa impossibile.

Come quello fra Musa e la soldatessa israeliana, che lo ferma senza mai osare alzare gli occhi. Lui riesce a sentirla nel profondo. Ma non può, non riesce – come Moshe – a fare altro che restare in silenzio. Il destino di ogni frutto di queste relazioni fatte di frasi che non si possono dire, non potrebbe essere che la morte, l’essere concepito senza poter venire al mondo, come la figlia di Nura e Moshe, che non ne avrà la forza.

La città e il caffè sono anche quelli di Nabil, palestinese e musulmano, che fra quelle mura e su quei tavolini che occupano la scena è cresciuto, e che invece in città ha deciso di restare.

A prestargli il nome, i tratti e la voce calda è il cantante dei Radiodervish, punta di diamante della world music italiana, palestinese nato in Libano. È a lui e al gruppo – Michele Lobaccaro alle chitarre e Alessandro Pipino alle tastiere – che spettano le musiche, interpretate dal vivo a fondo palco – come d’abitudine in arabo, inglese e italiano – di questo Cafè Jerusalem. La voce e le note, di per sè di grande impatto espressivo, qui acquistano una eco ancora più forte, e compiono definitivamente la magia di trasportare l’intera sala tra le vie, i profumi e i suoni di Gerusalemme, e poi nella penombra del caffè. A ciò contribuisce, oltre al talento, la scelta di utilizzare anche alcuni brani scritti appositamente che comporranno il disco omonimo allo spettacolo, in uscita a maggio e attualmente in produzione dal basso attraverso la piattaforma Musicraiser.

A dare corpo a Moshe ma anche voce a Musa – in arabo, lo stesso Mosè, profeta comune, come tutti quelli dell’Antico Testamento, a tutti e tre i monoteismi – E’ Pino Petruzzelli, anche regista, che oltre ad una recitazione fatta soprattutto di ben dosati silenzi, impreziosisce il testo di Paola Cariddi, raffinato e di qualità letteraria anche di per sè stesso – una regia efficace e accurata, dove ogni oggetto diventa non solo arredo ma anche strumento scenico, che la Nura interpretata da un’ottima Carla Peirolero utilizza ampiamente, così come tutto lo spazio del palcoscenico, per moltiplicare l’emozione nel pubblico.

Si compie con questo spettacolo il percorso iniziato con il reading omonimo al Festival SUQ – diretto dalla Peirolero – dello scorso anno, che riesce, attraverso un lavoro in cui non un dettaglio è fuori posto, a far sentire parte ciascuno dove tutto si fa contemporaneamente individuale e assoluto, nelle vicende della città paradigma, che raccoglie tutte le altre e assomma in sè ogni opposto e ogni scontro insieme a ogni speranza di un futuro possibile dopo la tragedia, la guerra, la morte, la solitudine.

Una città che esiste soltanto per chi viene da fuori, ma che per i suoi abitanti non è più.

Così come Sidone Sidùn, che Nabil, in una apoteosi emotiva e dando mostra di tutte le sue doti vocali – regala al termine delllo spettacolo salutando il pubblico della Liguria con le parole del suo figlio più amato e celebre, quel Fabrizio de Andrè che dopo l’assedio della città da parte del generale Sharon nel 1982 diede voce allo strazio di un padre arabo sul corpo del figlio maciullato dai cingoli di un carro armato. «tûmu duçe benignu de te muae…e oua grûmo de sangue, ouëge e denti de laete»
Un figlio a cui però il padre ha una rassicurazione, da fare: «ciao, mæ nìn», gli dice, bambino mio. L’eredità è nascosta, al sicuro. Anche nella città che brucia, in quella che sembra la fine e la più nera delle notti.

E così Nura – ed ecco che il cerchio si chiude – non se ne va soltanto per stanchezza e dolore.
Parte perchè nella sua città ci sono Sarah e Mohamed, israeliana lei, musulmano lui. Che vogliono vivere e guadagnarselo, insieme.

E perchè questo succeda bisogna che le generazioni dei nemici lascino spazio, perchè se anche il tempo non si ferma, quei ragazzi «è ora di lasciarli liberi»

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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