Codice Italia. A proposito del Padiglione nazionale alla 56.Biennale di Venezia

Nei corsi di scrittura, spesso, è assegnato un esercizio: al discente è chiesto di aprire il dizionario, di puntare il dito a caso sulla pagina e iniziare un nuovo racconto con la parola scelta. Ecco, Vincenzo Trione, che tra le varie cose è anche una buona penna del “Corriere della Sera”, sembra abbia fatto altrettanto. Con la differenza che Trione non si è limitato a una sola parola. Quelle da lui scelte, in un populismo dell’arte, le ha prese nel sacco dei luoghi comuni, di così ampio respiro che dicono tanto di tutto tanto di niente le parole di tanta gente, come cantava Gabriella Ferri. Così generali che possono esprimere tutto.

Nel corso della presentazione del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia edizione 2015 – la 56esima – tenutasi a Roma il 26 marzo 2015, le parole chiave di Trione sono state: codice genetico, stile e memoria. Il tutto annaffiato da avanguardia e da archivio, anche queste mai fuori luogo. Poi aggiungi un po’ di attraversamento, che ci sta sempre bene. Quando parla di attraversamento, parla di quello generazionale, geografico (il solito dalle Alpi agli Appennini), delle pratiche artistiche, degli atteggiamenti. Poi aggiungi un pizzico di periferie (Marghera) e di didattica/workshop/Accademie, con l’avallo di qualche nome di un certo calibro della cultura (Bernardo Bertolucci lo incoraggia con un messaggio, mentre Mimmo Calopresti confeziona la clip di presentazione), snoccioli qualche nome di rivista (“Domus”, “Vogue” e ovviamente “La Lettura”) e qualche istituzione (MAXXI, Triennale) di peso, ed ecco che hai l’abitino concettuale del Padiglione Italia per la prossima edizione della Biennale veneziana.

Perché, in fin dei conti, piace vincere facile, come Robinson Crusoe quando gioca a mosca cieca con Venerdì. E dentro ci butti quindici artisti (Alis/Filliol, Mondovì 1976/ Pinarolo 1979; Andrea Aquilanti, Roma 1960; Francesco Barocco, Susa 1972; Vanessa Beecroft, Genova 1969; Antonio Biasiucci, Dragoni 1961; Giuseppe Caccavale, Afragola 1960; Paolo Gioli, Sarzano di Rovigo 1942; Jannis Kounellis, Pireo 1936; Nino Longobardi, Napoli 1953; Marzia Migliora, Alessandria 1972; Luca Monterastelli, Forlimpopoli 1983; Mimmo Paladino, Paduli 1948; Claudio Parmiggiani, Luzzara 1943; Nicola Samorì, Forlì 1977; Aldo Tambellini, Syracuse (USA) 1930), dei quali naturalmente non si mette in discussione la portata artistica, ma la lontananza fra loro. Distanza che si vuole occultare allestendo i rispettivi lavori in delle cattedrali contigue.

La pianta del progetto di allestimento mostra tante stanzette squadrate, consequenziali, cui si è tentato di conferire movimento giocando sulla posizione sempre diversa dell’ingresso, impedendo così una visione globale delle opere e, quindi, una panoramica sull’esposizione che potrebbe mostrare una probabile incongruenza, costruendo piccole personali e non una collettiva. La confusione di visioni (“la mia non è una collettiva”), di ruoli (“io sono un critico e non un curatore”), le contraddizioni interne (come si definisce questo famigerato “codice italia” che dovrebbe delineare la sua inconfondibile specificità linguistica?), le scelte incoerenti (gli artisti dovranno produrre due opere appositamente per il padiglione, di cui una dovrà essere il personale archivio dell’artista, con le letture, la musica ascoltata, i film visti, per raccontare la privata e segreta memoria di ciascuno, per dimostrare che l’arte contemporanea ha dentro di sé un solido palinsesto – di cui ovviamente chi opera e gravita nel campo delle arti visive non si era mai accorto! – nonostante nessuno di loro lavori col concetto di archivio), confermano, di nuovo, l’incapacità di fare una scelta radicale e di cambio di rotta rispetto ai padiglioni delle ultime edizioni (osservazione da cui si è arrogantemente difeso trincerandosi dietro l’altrettanto logora posizione: il curatore – toh, ora è curatore! – sono io e io ho fatto le mie scelte).

Come sempre, tutte le chiacchiere si chiudono con la solita frase: staremo a vedere. Nel mentre si può scrutare qualcosa sul sito www.codiceitalia2015.com

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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